Come deve essere valutata la testimonianza della parte offesa

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Tale sentenza  in commento deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di comprendere in che termini una dichiarazione resa dalla parte offesa possa assumere una effettiva valenza probatoria a carico dell’imputato.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica processuale, dunque, non può che essere positivo.

Indice:

Il fatto

La Corte di Appello di Milano, in parziale riforma di una pronuncia di primo grado resa dal Tribunale di Como, dichiarava non doversi procedere nei confronti degli imputati in relazione ai reati di cui ai capi A), B) e D) e rideterminando la pena nei loro confronti in relazione al residuo capo C) d’imputazione (artt. 81 cpv., 110 e 629 cod. pen.) nella misura di anni cinque di reclusione ed euro 1000 di multa ciascuno.

In particolare, con riferimento al capo C), ai ricorrenti era imputato di essersi – in tempi diversi e con più azioni esecutive del medesimo disegno criminoso – procurati un ingiusto profitto non inferiore a euro 9600,00 in danno di una persona, costringendo quest’ultima, mediante minaccia, a consegnare loro a più riprese somme di denaro di quell’ammontare complessivo, onde evitare la diffusione di fotografie in pose pornografiche di una sua nipote nonché di fotomontaggi che ritraevano in pose siffatte la stessa vittima.

Vedasi sull’argomento:

  • La persona offesa,definizione e caratteri” ;
  • La testimonianza nell’ordinamento penale” .

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Avverso il provvedimento summenzionato erano proposti ricorsi per Cassazione nell’interesse degli imputati, deducendosi i seguenti motivi: 1) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione con riferimento all’affermazione di penale responsabilità in ordine al reato di estorsione, insistendosi a tal proposito nel rilevare come, nel racconto della persona offesa e dei testi, il fatto non risultasse per nulla circostanziato e non trovasse collocazione temporale, né vi fosse prova del versamento di alcuna somma in conseguenza della presunta minaccia e quindi della percezione dell’illecito profitto da parte degli imputati; inoltre, era risultata evidente la contraddittorietà tra la testimonianza della persona offesa e quella resa dagli altri testi in ordine al male minacciato e alla provenienza del medesimo; 2) inosservanza ed erronea applicazione di legge in relazione alla qualificazione della condotta di estorsione anziché in quella di truffa aggravata, ex art. 640, comma 2 n. 2 cod. pen., con sussistenza di un irrisolto contrasto giurisprudenziale necessitante, in subordine, il ricorso alle sezioni unite; in particolare, l’orientamento cd. oggettivo della giurisprudenza appariva essere, per il ricorrente, maggiormente aderente ad una valutazione materiale del reato e risultava quindi maggiormente conforme a principi di tipicità e di certezza del diritto: di tal che, se la minaccia di un danno nasconde una truffa (e ciò avviene senz’altro tutte le volte che il male è immaginario ed inventato dall’agente), la fattispecie di riferimento, benché nella versione aggravata dall’ingenerato pericolo immaginario, sarà quest’ultima, non già l’estorsione, rilevandosi al contempo che se, certamente, la paura dell’offeso è essenziale nell’estorsione, ma sicuramente un male concretamente realizzabile dall’agente è cosa diversa da un male immaginario e se tale paura non è connessa ad una minaccia la cui realizzabilità in effetti dipenda dall’agente, allora si può dire, senza alcun dubbio, che si sia all’interno della sfera tipica del delitto di truffa; 3) mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione laddove si era ritenuto di attribuire alla condotta posta in essere dagli imputati nei confronti della persona offesa, concreta efficacia coercitiva ai fini dell’integrazione del reato di estorsione, nonostante le contrarie risultanze dell’istruttoria dibattimentale.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

I ricorsi erano ritenuti tutti inammissibili per le seguenti ragioni.

Aspecifico e comunque manifestamente infondato era reputato il primo motivo atteso che, ad avviso del Supremo Consesso, pur volendo superare il profilo della concomitante proposizione di una (non consentita, e come tale inammissibile) censura cumulativa e/o alternativa in relazione a tutti e tre i profili del vizio di motivazione (Sez. U, n. 29541 del 16/07/2020, secondo cui il ricorrente che intenda denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., ha l’onere – sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso – di indicare su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l’impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione), nella fattispecie, si era comunque in presenza di doglianze prive di specificità in tutte le loro articolazioni in quanto meramente reiterative di censure già proposte e sulle quali la Corte territoriale aveva fornito, sempre per la Corte di legittimità, un’ampia ed adeguata risposta, doglianze che, in ogni caso, apparivano essere – come detto – manifestamente infondate.

Ciò posto, gli Ermellini notavano come ricorresse inoltre, nel caso di specie, un’ipotesi di c.d. “doppia conforme” con riferimento all’affermazione della penale responsabilità in ordine al capo C), con la conseguenza che le due sentenze di merito potevano essere lette congiuntamente costituendo un unico corpo decisionale, essendo stati rispettati i parametri del richiamo della pronuncia di appello a quella di primo grado e dell’adozione – da parte di entrambe le sentenze – dei medesimi criteri nella valutazione delle prove (cfr., Sez. 3, n. 44418 del 16/07/2013; Sez. 2, n. 37295 del 12/06/2019).

Precisato tale aspetto giuridico, i giudici di piazza Cavour evidenziavano per di più, a fronte della censura dei ricorrenti secondo la quale la sentenza di secondo grado – a loro dire – avrebbe fatto esclusivo riferimento alle dichiarazioni di un teste oggetto di testimonianza indiretta e, in quanto tale, inidonea a costituire elemento di prova, come tuttavia, gli stessi avessero omesso di confrontarsi con il rilievo per cui la sentenza di condanna era fondata – come rilevato dalla Procura generale – oltre che sulla testimonianza resa dalla sunnominata teste anche sulle dichiarazioni della persona offesa, che risultavano essere, per gli Ermellini, intrinsecamente attendibili in quanto precise e circostanziate anche perché riscontrate da ulteriori elementi oggettivi.

A fronte di ciò, era oltre tutto rilevato che, secondo il costante insegnamento della giurisprudenza di legittimità, la testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede, non necessita di altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità (Sez. U, n. 41461 del 19/07/2012) ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso (salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere, in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza) e, pertanto, in conseguenza di ciò, era ribadito il principio giurisprudenziale secondo cui, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere corroborata dai cosiddetti “elementi di riscontro” richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dai soggetti indicati nel comma terzo dell’art. 192 cod. proc. pen., il giudice deve limitarsi a verificare l’intrinseca attendibilità della testimonianza stessa, partendo però dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri, o da lui ragionevolmente ritenuti tali (cfr., Sez. 6, n. 27185 del 27/03/2014) fermo restando che l’espressione “fino a prova contraria” non significa che la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l’una o l’altra di dette ipotesi (Sez. 1, n. 7568 del 02/06/1993, dep. 03/08/1993).

Per la Suprema Corte, in assenza, quindi, di elementi di “sospetto“, il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza.

Ad ogni modo, però, sempre ad avviso del Supremo Consesso, le dichiarazioni di un testimone (anche se si tratti della persona offesa), per essere positivamente utilizzate dal giudice, devono risultare credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, con il logico corollario che, contrariamente ad altre fonti di conoscenza, come le dichiarazioni rese da coimputati o da imputati in reati connessi, esse non abbisognano di riscontri esterni, il ricorso eventuale ai quali è funzionale soltanto al vaglio di credibilità del testimone (Sez. 3, n. 11829 del 26/08/1999) fermo restando che, se il fatto poi che la testimonianza della persona offesa, quando portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto, debba essere certamente soggetta a un più penetrante e rigoroso controllo circa la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca del racconto (Sez. U, n. 41461/2012, cit.) non legittima un aprioristico giudizio di inaffidabilità della testimonianza stessa (espressamente vietata come regola di giudizio), nella fattispecie, tale rigoroso controllo, alla luce dei rilievi sopra esposti, risultava, per la Corte di legittimità, essere stato effettivamente compiuto dai giudici di merito.

In ogni caso, gli Ermellini facevano presente come il giudizio circa l’attendibilità del teste sia di tipo fattuale in quanto attiene il modo di essere della persona escussa: conseguentemente, lo stesso può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale mentre è precluso in sede di legittimità, specialmente quando il giudice del merito – come nella fattispecie – abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria (cfr., Sez. 3, n. 41282 del 05/10/2006).

Terminata la disamina del primo motivo, aspecifico e comunque manifestamente infondato era stimato anche il secondo motivo.

Per la Corte di legittimità, invero, i giudici di merito si erano attenuti al principio statuito dalla giurisprudenza di legittimità, di recente consolidatasi (da qui l’assenza dei presupposti per ritenere l’attualità di un contrasto giurisprudenziale da rimettere al giudizio delle Sezioni unite), secondo il quale integra il reato di estorsione, e non quello di truffa aggravata, la minaccia di un male, indifferentemente reale o immaginario, dal momento che identico è l’effetto coercitivo esercitato sul soggetto passivo, tanto che la sua concretizzazione dipenda effettivamente dalla volontà dell’agente, quanto che questa rappresentazione sia percepita come seria ed effettiva dalla persona offesa, ancorché in contrasto con la realtà, a lei ignota visto che il criterio distintivo tra il reato di truffa e quello di estorsione, quando il fatto è connotato dalla minaccia di un male, è rappresentato dalla concreta efficacia coercitiva, e non meramente manipolativa, della condotta minacciosa rispetto alla volontà della vittima, da valutarsi con verifica ex ante, che prescinde dalla effettiva realizzabilità del male prospettato (cfr., Sez. 2, n. 21974 del 18/04/2017; Sez. 2, n. 11453 del 17/02/2016; Sez. 2, n. 46084 del 21/10/2015; Sez. 2, n. 7662 del 27/01/2015; Sez. 6, n. 27996 del 28/05/2014; Sez. 2, n. 35346 del 30/06/2010; Sez. 2, n. 23326 del 02/07/2020; Sez. 2 n. 23896 del 14/7/2020).

Orbene, fermo quanto precede, con ampie argomentazioni, la Corte territoriale, conformemente alla sentenza di primo grado, ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, aveva ricostruito il fatto evidenziando l’attività coercitiva esercitata sulla vittima, intimidita e piegata alla richiesta estorsiva accompagnata da chiari ed univoci atti intimidatori, con conseguente impossibilità di qualificare la condotta come truffa, in assenza di effetti semplicemente manipolatori.

A fronte di quanto appena esposto, gli Ermellini osservavano come la difesa avesse sostanzialmente omesso di confrontarsi con dette conclusioni, finendo per sollecitare un sindacato sul merito delle valutazioni effettuate ed invocando una rilettura delle prove poste a fondamento della decisione impugnata mentre, come è noto, è preclusa alla Suprema Corte «la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch’essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova» (così, Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018; in senso conforme, Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, in motivazione; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015; Sez. 2, n. 23338 del 07/07/2020).

Manifestamente infondato era, infine, stimato il terzo motivo ritenendosi esso come una doglianza che, per la Cassazione, tende a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all’apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito mentre le conclusioni circa la responsabilità dei ricorrenti risultavano essere adeguatamente giustificate dal giudice di merito attraverso una puntuale valutazione delle prove che aveva consentito una ricostruzione del fatto esente da incongruenze logiche e da contraddizioni e ciò, per il Supremo Consesso, tanto bastava per rendere la sentenza impugnata incensurabile in sede di legittimità ordinaria, non essendo il controllo di legittimità diretto a sindacare direttamente la valutazione dei fatti compiuta dal giudice di merito, ma solo a verificare se questa sia sorretta da validi elementi dimostrativi e sia nel complesso esauriente e plausibile, esulando, infatti, dai poteri della Suprema Corte quello di una “rilettura” degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali (cfr., Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997; Sez. U, n. 24 del 24/11/1999; Sez. n. 12 del 31/05/2000; Sez. U, n. 47289 del 24/09/2003).

Conclusioni

La decisione in esame è assai interessante in quanto è ivi postulato come deve essere valutata la testimonianza della parte offesa.

Difatti, in tale pronuncia, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, è affermato che la testimonianza della persona offesa, perché possa essere legittimamente utilizzata come fonte ricostruttiva del fatto per il quale si procede, non necessita di altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità ma, anzi, al pari di qualsiasi altra testimonianza, è sorretta da una presunzione di veridicità secondo la quale il giudice, pur essendo tenuto a valutarne criticamente il contenuto, verificandone l’attendibilità, non può assumere come base del proprio convincimento l’ipotesi che il teste riferisca scientemente il falso (salvo che sussistano specifici e riconoscibili elementi atti a rendere fondato un sospetto di tal genere, in assenza dei quali egli deve presumere che il dichiarante, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza) e quindi, in conseguenza di ciò, esclusa la necessità che la testimonianza debba essere corroborata dai cosiddetti “elementi di riscontro” richiesti invece per le dichiarazioni accusatorie provenienti dai soggetti indicati nel comma terzo dell’art. 192 cod. proc. pen., non essendo per l’appunto necessari riscontri esterni, il giudice deve limitarsi a verificare l’intrinseca attendibilità della testimonianza stessa, partendo però dal presupposto che, fino a prova contraria, il teste riferisce fatti obiettivamente veri, o da lui ragionevolmente ritenuti tali, fermo restando che l’espressione “fino a prova contraria” non significa che la deposizione testimoniale non possa essere disattesa se non quando risulti positivamente dimostrato il mendacio, ovvero il vizio di percezione o di ricordo del teste, ma solo che devono esistere elementi positivi atti a rendere obiettivamente plausibile l’una o l’altra di dette ipotesi.

Da ciò discende che, in assenza di elementi di “sospetto“, il giudice deve presumere che il teste, fino a prova contraria, riferisca correttamente quanto a sua effettiva conoscenza e deve perciò limitarsi a verificare se sussista o meno incompatibilità fra quello che il teste riporta come vero, per sua diretta conoscenza, e quello che emerge da altre fonti di prova di eguale valenza, sempreché però le sue dichiarazioni siano credibili, oltreché avere ad oggetto fatti di diretta cognizione e specificamente indicati, e purché la testimonianza della persona offesa, quando portatrice di un personale interesse all’accertamento del fatto, sia stata soggetta a un più penetrante e rigoroso controllo circa la sua credibilità soggettiva e l’attendibilità intrinseca del racconto fermo restando che il giudizio circa l’attendibilità del teste deve essere di tipo fattuale in quanto attiene il modo di essere della persona escussa, in guisa tale che lo stesso può essere effettuato solo attraverso la dialettica dibattimentale mentre ciò è precluso in sede di legittimità specialmente quando il giudice del merito abbia fornito una spiegazione plausibile della sua analisi probatoria.

Tale sentenza, quindi, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di comprendere in che termini una dichiarazione resa dalla parte offesa possa assumere una effettiva valenza probatoria a carico dell’imputato.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su codesta tematica processuale, dunque, non può che essere positivo.

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