Come deve essere effettuata la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297, c. 3, c.p.p.

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(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 297, c. 3)

Il fatto

Con ordinanza il Tribunale della libertà di Milano confermava l’ordinanza con la quale il Giudice per le indagini preliminari di Milano aveva applicato all’indagato la misura cautelare della custodia in carcere in relazione a condotte punite dagli artt. 110 e 81 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1.

L’addebito cautelare, in particolare, si riferiva all’acquisto, nel corso di più anni, di oltre cento chili di cocaina e del successivo spaccio di tale sostanza stupefacente.

Avverso la suddetta misura l’indagato proponeva richiesta di riesame sostenendo che i termini di durata dell’ordinanza cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano il 23 ottobre 2019 dovevano essere retrodatati alla data di emissione di precedente misura cautelare adottata nei suoi confronti il 7 settembre 2018 dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza con conseguente dichiarazione di inefficacia della seconda misura per decorrenza dei termini massimi.

Nel procedimento pendente dinanzi all’autorità giudiziaria monzese, l’indagato era stato sottoposto alla misura della custodia cautelare in carcere in relazione al delitto di cui all’art. 110 c.p. e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, per avere detenuto a fini di spaccio 4/5 chili di cocaina, di cui 1,5 chili sequestrati all’interno di un box.

In sede di riesame, l’indagato sosteneva come la Procura della Repubblica di Monza, fin dall’arresto del Ca. nell’ottobre 2016 e comunque dal 14 febbraio 2017, data nella quale quell’Ufficio procedeva alla trasmissione degli atti dei procedimenti penali nn. 11478/16 e 13047/17 RGNR alla Procura della Repubblica di Milano, avesse avuto a disposizione gli elementi per accertare il coinvolgimento del M. e il ruolo svolto dal R. nel traffico di stupefacenti oggetto del procedimento milanese dal che derivava la ricorrenza dei presupposti per la retrodatazione richiesti dall’art. 297 c.p.p., comma 3, e l’intervenuto esaurimento dei termini massimi di custodia cautelare, con conseguente sopravvenuta inefficacia della misura in esame.

Il Tribunale della libertà di Milano, dal canto suo, dopo aver ricostruito lo svolgimento delle indagini che avevano condotto all’adozione dell’ordinanza cautelare impugnata e pur non specificando il capo di imputazione relativo al procedimento rimasto per competenza alla Procura della Repubblica di Monza, dava atto che i reati oggetto della misura cautelare emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Milano e quelli oggetto dell’ordinanza emessa dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Monza erano “soggettivamente connessi e desumibili dagli atti prima del momento in cui è intervenuto il rinvio a giudizio per i fatti oggetto della prima ordinanza”.

Il Tribunale, nell’affermare l’esistenza dei presupposti della retrodatazione, rigettava però la richiesta di riesame del ricorrente richiamando l’orientamento maggioritario della giurisprudenza di legittimità secondo cui la retrodatazione della decorrenza dei termini della misura cautelare imporrebbe, per il computo dei termini di fase, di frazionare la durata globale della custodia cautelare subita per prima, imputando alla seconda misura solo i periodi relativi a fasi omogenee.
Più in particolare, il tribunale rilevava come i termini di fase non fossero stati superati in quanto la prima ordinanza cautelare, emessa il 7 settembre 2018, non aveva consumato l’intera durata annuale, posto che in data 12 dicembre 2018 il pubblico ministero aveva richiesto il rinvio a giudizio, l’11 febbraio 2019 era stato disposto il giudizio abbreviato e il 13 marzo 2019 era intervenuta sentenza di condanna; ne conseguiva che alla seconda ordinanza cautelare poteva essere eventualmente imputato il solo termine di fase relativo alle indagini preliminari – dal 7 settembre 2018 all’11 febbraio 2019 – e non l’intero periodo di detenzione subito dal ricorrente con riguardo alla prima ordinanza cautelare.

 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 

Avverso l’ordinanza del Tribunale della libertà di Milano proponeva ricorso per Cassazione l’indagato il quale, con unico motivo, deduceva violazione di legge processuale con riferimento all’art. 297 c.p.p., comma 3.

Al riguardo, il ricorrente invocava l’applicazione del più recente orientamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la retrodatazione andrebbe calcolata sulla base dell’intero periodo di custodia cautelare presofferto e non già limitandosi ad imputare unicamente i periodi relativi a fasi omogenee e aveva quindi segnalato come la prima ordinanza cautelare fosse stata adottata il 7 settembre 2018 sicchè, applicando il principio della retrodatazione, alla data di esecuzione della seconda ordinanza (23 ottobre 2019), doveva ritenersi già esaurito il pertinente termine di fase.

 

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

 

La Quarta Sezione Penale, cui il ricorso era stato assegnato, ne rimetteva la trattazione alle Sezioni Unite.

La Sezione rimettente, in particolare, segnalava il contrasto emerso nella giurisprudenza di legittimità in ordine alle modalità con le quali operare la retrodatazione della decorrenza dei termini della custodia cautelare prevista dall’art. 297 c.p.p., comma 3, rilevando che, secondo l’orientamento più risalente, cui nel caso di specie aveva aderito il tribunale del riesame, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare impone, per il computo dei termini di fase, di frazionare la durata globale della custodia cautelare, imputando solo i periodi relativi a fasi omogenee rilevando al contempo come a tale orientamento si fosse contrapposto, consapevolmente, un indirizzo interpretativo minoritario secondo cui, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, non deve essere effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare, bensì computando l’intera custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee.

Ciò posto, veniva altresì osservato come tale questione fosse stata già oggetto di rimessione alle Sezioni Unite ma tuttavia, in quel caso, era stata dichiarata l’inammissibilità del ricorso (Sez. U, n. 48109 del 19 luglio 2018) sicchè la Quarta Sezione aveva ritenuto necessario, sulla base del rilevato contrasto, rimettere di nuovo alle Sezioni Unite la medesima questione.

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

 

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione, procedevano alla sua delimitazione nei seguenti termini: “Se, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, deve essere effettuata frazionando la durata globale della custodia cautelare, ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee, oppure computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee“.

Premesso ciò, veniva osservato come correttamente la Sezione rimettente avesse registrato un contrasto interpretativo in ordine alle modalità di calcolo dei termini di custodia cautelare allorchè, per effetto della cosiddetta “contestazione a catena“, si renda necessario operare la retrodatazione della loro decorrenza ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3.

In particolare, veniva osservato che, secondo la più risalente tesi maggioritaria, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, andrebbe eseguita frazionando la durata globale della custodia relativa alla prima misura ed imputando alla seconda solo i periodi relativi a fasi omogenee in tal modo pervenendosi al computo dei termini di fase ed alla conseguente valutazione circa l’avvenuto decorso del termine massimo (Sez. 6, n. 15736 del 06/02/2013; Sez. fer., n. 47581 del 21/08/2014; Sez. 6, n. 50761 del 12/11/2014).

Detto questo, si evidenziava al contempo che le pronunce adesive a tale orientamento sottolineano concordemente che i termini di durata delle misure cautelari si articolano in base ad una ripartizione per fasi procedimentali e non sarebbe quindi consentito cumulare periodi di custodia cautelare afferenti a fasi disomogenee.

A fronte di ciò, argomentando in tal senso, si sostiene che, in caso di contestazioni a catena ai sensi dell’art. 297 c.p.p., comma 3, la retrodatazione dei termini di custodia cautelare della seconda ordinanza andrebbe necessariamente operata sommando al periodo di custodia già subito dall’indagato solo quello sofferto in base alla prima ordinanza nella medesima fase.
Tale sistema di calcolo, definito anche come modalità “a scomputo” (Sez. 6, n. 15736 del 06/02/2013), a sua volta, implicherebbe che, per verificare l’avvenuta scadenza del termine di fase relativo alla seconda misura, occorrerebbe in primo luogo calcolare la durata della custodia cautelare subita nella medesima fase nel corso del primo procedimento e, a tale periodo, andrebbe poi sommato il tempo di custodia subito in relazione alla seconda misura cautelare per poi verificare se la somma dei due periodi determini o meno il superamento del termine di fase relativo a tale ultima misura.

A fronte dell’orientamento maggioritario, le più recenti pronunce di legittimità intervenute in argomento hanno recepito una diversa soluzione.

Così, la Sez. 6, n. 3058 del 28/12/2016, dep. 2017, si è consapevolmente discostata dal criterio del computo dei termini per fasi omogenee ed ha affermato l’opposto principio secondo cui “in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, non deve essere effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee”.

In motivazione, la pronuncia in esame ha sottolineato come l’istituto della “retrodatazione” vada letto alla stregua dei principi – più volte ribaditi dalla Corte costituzionale, in particolare con le sentenze n. 233 del 2011 e n. 293 del 2013 – secondo cui la “retrodatazione” mira ad evitare, in perfetta aderenza con i valori di certezza e di “durata minima” della custodia cautelare che la rigorosa predeterminazione dei termini di durata massima delle misure cautelari possa essere elusa tramite la diluizione nel tempo di più provvedimenti restrittivi nei confronti della stessa persona con il conseguente impedimento al contemporaneo decorso dei termini relativi a plurimi titoli custodiali nei confronti del medesimo soggetto.

In particolare, mediante il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza cautelare ed in assenza del correttivo previsto dall’art. 297 c.p.p., comma 3, si determinerebbe l’indebita espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato, tramite il “cumulo materiale” – totale o parziale – dei periodi di custodia afferenti a ciascun reato ossia un effetto che non si verificherebbe, invece, qualora l’indagato, pur versando nella medesima situazione sostanziale, fosse stato raggiunto da provvedimenti cautelari coevi.

Sostiene per di più la Sesta Sezione che, poichè la finalità della retrodatazione consiste nel riallineare fattispecie cautelari che, pur dovendo nascere in un unico contesto temporale, si sono sviluppate in tempi successivi, tale risultato non sarebbe ottenuto ove si procedesse solo alla sommatoria dei termini decorsi in fasi omogenee e ciò avrebbe per effetto che il periodo di custodia cautelare maturato nella fase delle indagini preliminari per la seconda misura potrebbe cumularsi soltanto a quello trascorso nella medesima fase per la prima misura, in tal modo potendosi determinare, mediante frazionati passaggi di fase dei procedimenti, un’indebita protrazione dei termini di durata della compressione della libertà personale oltre i limiti che sarebbero conseguiti all’adozione congiunta dei due titoli custodiali.

Successive pronunce hanno condiviso il principio per cui solo computando l’intera durata della custodia cautelare disposta per prima e prescindendo, quindi, dal frazionamento per fasi omogenee, si realizza l’effettiva retrodatazione del termine di durata relativo alla seconda misura cautelare e si attua la fondamentale garanzia della libertà personale alla quale l’istituto è finalizzato (Sez. 6, n. 20305 del 30/03/2017; Sez. 4, n. 36088 del 6/06/2017; Sez. 6, n. 21177 del 12/2/2019).

Orbene, rispetto agli orientamenti sopra esposti, veniva però osservato che si distinguono, per la specificità delle argomentazioni svolte, alcune sentenze, incentrate non tanto sul profilo concernente le modalità della “retrodatazione” e del computo dei termini di custodia cautelare che ne consegue, bensì sull’effetto che determina sulla seconda ordinanza il passaggio di fase verificatosi nel procedimento in cui è stata adottata la prima (Sez. 4, n. 21999 del 18/04/2013; Sez. 5, n. 17071 del 5/02/2014; Sez. 4, n. 18111 del 2/03/2017; Sez. 6, n. 22571 del 11/04/2017).

Infatti, pur aderendo al principio secondo cui ai fini del calcolo della “retrodatazione” occorre frazionare la durata globale della custodia cautelare, imputando alla misura adottata per seconda i soli periodi relativi a fasi omogenee, queste pronunce hanno tuttavia ritenuto che tale sistema di calcolo sarebbe applicabile unicamente allorchè entrambi i procedimenti nell’ambito dei quali le misure cautelari sono state emesse versino nella medesima fase.

Laddove il procedimento in cui è stata emessa la prima misura cautelare sia passato a una fase successiva in costanza dell’efficacia di tale misura, la ratio dell’istituto della contestazione a catena implicherebbe dunque che la misura da ultimo applicata non perda di efficacia quand’anche il procedimento cui essa accede versi ancora nella fase antecedente.

La misura custodiale applicata per prima ed ancora efficace in conseguenza del nuovo termine di fase, impedirebbe difatti di dichiarare l’inefficacia della misura cautelare applicata per seconda in quanto “l’effetto della retrodatazione conduce alla assimilazione della misura cautelare retrodatata alla primigenia, come se fosse stata emessa coevamente ad essa (così da eliminare il pregiudizio dell’indagato della contestazione a catena, che lo avrebbe sottoposto ad un ingiusto aggiramento dei termini massimi di custodia cautelare)” (così, testualmente, Sez. 4).

Da ciò conseguirebbe che la seconda ordinanza segue esattamente le sorti procedimentali della prima e, dunque, intanto potrà essere dichiarata la perenzione della ordinanza retrodatata in quanto i termini massimi di custodia cautelare afferenti all’altra ordinanza siano effettivamente scaduti.
Tale indirizzo, dal canto suo, si distingue rispetto ai due orientamenti in precedenza esaminati perchè affronta il problema della retrodatazione seguendo un percorso alternativo, che non focalizza l’istituto sugli effetti meramente temporali derivanti dalla anticipazione del termine di efficacia della misura adottata per ultima, ma propone una totale assimilazione della seconda ordinanza alla prima, al punto che ad entrambe si applicherebbero i termini – necessariamente più estesi – relativi al procedimento per il quale si è già avuto il passaggio dalla fase delle indagini a quella successiva.

Ciò posto, terminato di illustrare questo excursus giurisprudenziale, le Sezioni Unite affermavano di ritenere condivisibile la soluzione prospettata dall’indirizzo giurisprudenziale più recente e attualmente minoritario secondo il quale, in ipotesi di pluralità di ordinanze applicative di misure cautelari per fatti connessi, la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare prevista all’art. 297 c.p.p., comma 3, non deve essere effettuata frazionando la globale durata della custodia cautelare ed imputandovi solo i periodi relativi a fasi omogenee ritenendosi come propendesse in tal senso, in primo luogo, il dato testuale.

La disposizione di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, è infatti chiara e recisa nell’affermare che, in presenza delle condizioni ivi descritte, “i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave”.

La norma è in sè compiuta, esclusivamente focalizzata sulla decorrenza dei termini di custodia relativi alla seconda misura cautelare e suscettibile al riguardo di immediata e autonoma applicazione ma non contiene alcuna indicazione circa la necessità di procedere a ulteriori calcoli finalizzati alla sommatoria dei periodi di custodia cautelare subiti in riferimento a ciascuna misura cautelare, nè pone alcuna preclusione circa l’imputazione di periodi di custodia relativi a fasi processuali diverse, nè tantomeno essa prevede o suggerisce che la retrodatazione debba operare secondo modalità analoghe allo scomputo dalla pena detentiva del periodo di custodia cautelare presofferto mentre, al contrario, essa descrive un meccanismo basato sull’anticipazione, mediante una fictio iuris, del termine iniziale di durata della seconda misura e ciò che del resto risulta perfettamente conforme alla nozione di “retrodatazione” nella quale viene, per consuetudine, icasticamente riassunto il fenomeno in esame.

In definitiva, l’art. 297 c.p.p., comma 3, delinea un sistema che si sostanzia nella mera sostituzione del termine iniziale di durata della misura adottata per ultima sicchè, per calcolare il relativo termine di fase, sarà sufficiente, per il Supremo Consesso, far riferimento al dies a quo della prima misura il che non comporta una sommatoria dei periodi di custodia afferenti alle due misure e non richiede una loro distinta considerazione a seconda delle fasi processuali in cui la conseguente privazione di libertà si è prodotta trattandosi di un dato testuale che traccia con chiarezza la struttura stessa dell’istituto essendo significativo, a tal fine, la stessa sentenza delle Sezioni Unite Librato la quale pure sottolinea la differenza concettuale che connota il fenomeno della retrodatazione nelle situazioni relative alla successione di ordinanze cautelari adottate nello stesso procedimento rispetto a quelle relative a procedimenti connessi e conclude nel senso che, anche nelle fattispecie diverse da quella tipica, in cui si verifica una vera e propria sovrapposizione delle misure cautelari, si determinano i medesimi effetti e si rende pertanto necessaria la rimodulazione della durata di quella successiva mediante la regressione del suo termine iniziale.

Corretta e del tutto condivisibile deve pertanto ritenersi per la Suprema Corte l’indicazione, proveniente dalla più recente giurisprudenza di legittimità e dalla più attenta dottrina, secondo cui la retrodatazione consiste nel “riallineamento” tra misure cautelari che, pur dovendo essere coeve, sono state separatamente adottate, ovvero in uno “slittamento all’indietro” della data di esecuzione del provvedimento cautelare successivo fino alla data di esecuzione di quello iniziale.

Ciò posto, il Supremo Consesso riteneva come su tale dato testuale dovesse innestarsi una prima riflessione in ordine alla questione devoluta nel senso che, al principio ermeneutico di non attribuire alla legge altro significato che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse (art. 12 disp. gen., comma 1), non può, nella specie, che attribuirsi specifico rilievo atteso che l’analisi delle pronunce di legittimità che sostengono l’opposto e maggioritario indirizzo, favorevole alla tesi del computo per fasi omogenee dei periodi di custodia rilevanti a fini di retrodatazione delle misure cautelari, rivela infatti che esse fanno sostanzialmente leva su richiami reciproci e motivazioni fondate unicamente sulla forza dei precedenti conformi limitandosi a sottolineare, senza particolare presa sulla questione oggetto di contrasto, che i termini di durata delle misure cautelari si articolano essenzialmente in una ripartizione per fasi processuali e da ciò deducendo, in modo tanto automatico quanto apodittico, l’impossibilità del computo di periodi custodiali relativi a fasi non omogenee.

A fronte di ciò, si notava al contempo come l’orientamento giurisprudenziale minoritario apparisse inoltre l’unico compatibile con i plurimi pronunciamenti della Corte costituzionale che hanno chiaramente delineato ratio e finalità del meccanismo della retrodatazione.

Già, con la sentenza n. 89 del 1996, difatti, la Corte costituzionale aveva evidenziato come lo scopo dell’istituto in esame sia quello di “comprimere entro spazi sicuri il termine di durata massima delle misure cautelari, in perfetta aderenza con quanto previsto dall’art. 13 Cost., u.c.”, al fine di impedire “la diluizione dei termini in ragione dell’episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari” tenuto conto altresì del fatto che, in quell’occasione, la Corte costituzionale non mancò di rilevare come l’ancoraggio della retrodatazione ad ipotesi che presentano “elementi di correlazione contenutistica” – quali sono l’identità del fatto cautelare o i casi di connessione qualificata delineati all’art. 297 c.p.p., comma 3, – risponde “alla avvertita esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale e ciò con particolare riferimento alla fase delle indagini preliminari, la quale, per essere affidata alle iniziative investigative del pubblico ministero, mal si presta a controlli successivi sul sempre opinabile terreno della tempestività delle relative acquisizioni”.

Ebbene, tale indifferibile esigenza di garanzia in merito alla certezza della durata della custodia cautelare, ad avviso dei giudici di piazza Cavour, rappresenta del resto il motivo conduttore della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di contestazioni a catena e retrodatazione.

La sentenza n. 408 del 2005 ha invero ribadito che, in una cornice normativa, quale è quella dianzi delineata, attenta a calibrare l’intera disciplina dei termini di durata delle misure limitative della libertà personale, e di quelle custodiali in particolare, sulla falsariga dei valori della adeguatezza e proporzionalità, nessuno spazio può residuare in capo agli organi titolari del “potere cautelare” di scegliere il momento a partire dal quale possono essere fatti decorrere i termini custodiali in caso di pluralità di titoli e di fatti reato cui esse si riferiscono e se dunque il legislatore, in perfetta aderenza con i valori di certezza e di “durata minima” della custodia cautelare (v. art. 13 Cost., comma 1 e u.c., nonchè art. 5, comma 3, Convenzione Europea dei diritti dell’uomo), ha ritenuto di dover stabilire… meccanismi legali di retrodatazione automatica dei termini, in presenza di certe condizioni, nel caso in cui tra i diversi titoli sussista l’indicato nesso di connessione qualificata, a fortiori l’identico regime di garanzia dovrà operare in tutti i casi in cui, pur potendo i diversi provvedimenti coercitivi essere adottati in un unico contesto temporale, per qualsiasi causa l’autorità giudiziaria abbia invece prescelto momenti diversi per l’adozione delle singole ordinanze, la durata della custodia viene così a dipendere non da un fatto obiettivo (rispettoso, dunque, del canone dell’eguaglianza e della ragionevolezza), quale quello degli elementi idonei e sufficienti per adottare i diversi elementi cautelari, ma da un’imponderabile valutazione soggettiva dei titolari del potere cautelare.
Il Collegio rilevava tra l’altro che i medesimi accenti si colgono del resto nella giurisprudenza della Corte EDU posto che la Corte di Strasburgo ha ripetutamente affermato che l’art. 5, p. 1 della Convenzione EDU (secondo cui “Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge”) ha primario rilievo tra i diritti fondamentali che proteggono la sicurezza fisica dell’individuo e che il suo scopo è quello di prevenire limitazioni della libertà arbitrarie e ingiuste (Corte EDU, 8/4/2004, Assanidze c. Georgia, p. 171; Ilascu e altri c. Moldavia e Russia, 8/7/2004, p. 461; Buzadji c. Moldavia, 5/7/2016, p. 84). Essa ha poi precisato che se l’espressione “nei modi previsti dalla legge” contenuta nell’art. 5 p. 1 della Convenzione EDU rinvia alle leggi nazionali e stabilisce l’obbligo di conformarsi ad esse cosicchè, di norma, spetta innanzitutto ai giudici nazionali interpretare e applicare la legge interna, tuttavia, la situazione è diversa ove il mancato rispetto della legge comporti di per sè una violazione della Convenzione. In tali casi, infatti, la Corte EDU deve verificare se la legge interna sia stata effettivamente osservata (Corte EDU, Baranowski c. Polonia, 28/3/2000, p. 50; Creang’à c. Romania, 23/2/2012, p. 101) e la detenzione deve considerarsi “arbitraria” tutte le volte in cui, nonostante essa appaia rispettosa della lettera della legge, vi sia stata mala fede o raggiro da parte delle autorità (Corte EDU, Bozano c. Francia, 18 dicembre 1986; donka c. Belgio, 5/2/2002; Saadi c. Regno Unito, 28/1/2008, p.p. 68 e 69; S., V. e A. c. Danimarca, 22 ottobre 2018, p. 76). Ipotesi questa che la Corte EDU ha da ultimo ritenuto integrata nella scelta del pubblico ministero il quale, essendo a conoscenza sin dalla prima iscrizione di tutte le condotte ascritte all’imputato – poste in essere nel medesimo contesto spazio-temporale e tra loro connesse – aveva dapprima tenuto separati i relativi procedimenti e, quindi, presentato una seconda richiesta cautelare alla scadenza del termine massimo di durata relativo alla prima misura, procedendo infine alla riunione di tutti i procedimenti a quello originario.

Secondo la Corte, inoltre, tale strumentale separazione dei procedimenti, posta in essere all’evidente scopo di prolungare il termine massimo di custodia stabilito dalla legge, costituisce prova di mala fede da parte delle autorità cosicchè il periodo di custodia successivo alla scadenza del termine massimo di durata relativo alla prima misura cautelare deve, secondo l’art. 5 p. 1 della Convenzione EDU, considerarsi arbitrario (Corte E.D.U., 26 maggio 2020, I.E. c. Moldavia).

Particolare rilievo, per gli Ermellini, assumono inoltre le considerazioni svolte dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 233 del 2011 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 297 c.p.p., comma 3, nella parte in cui non prevede che la retrodatazione operi anche qualora, per i fatti contestati con la prima ordinanza, l’imputato sia stato condannato con sentenza passata in giudicato anteriormente all’adozione della seconda misura.

Infatti, dopo aver constatato che il nucleo di disvalore del fenomeno delle “contestazioni a catena” risiede nell’impedimento del contemporaneo decorso dei termini di durata relativi a plurimi titoli custodiali emessi nei confronti del medesimo soggetto per lo stesso fatto o per fatti diversi commessi anteriormente all’emissione della prima ordinanza e tra loro avvinti da connessione qualificata, la Corte costituzionale ha sottolineato che, in mancanza dell’effetto correttivo della retrodatazione, il ritardo nell’adozione della seconda ordinanza cautelare determina l’espansione della restrizione complessiva della libertà personale dell’imputato per effetto del “cumulo materiale” dei periodi afferenti a ciascun reato e da ciò veniva fatta conseguire la sostanziale elusione dei termini di durata massima delle misure cautelari imposta dall’art. 13 Cost., u.c., e una posizione cautelare dell’interessato deteriore rispetto a quella che si sarebbe prodotta a seguito dell’adozione di provvedimenti custodiali coevi.

Orbene, proprio perchè il meccanismo della retrodatazione serve a garantire l’effettivo rispetto dei valori di certezza e “durata minima” della custodia cautelare a fronte del rischio di diluizione dei termini che potrebbe conseguire “dall’episodico concatenarsi di più fattispecie cautelari” o “da un’imponderabile valutazione soggettiva dei titolari del potere cautelare”, appare chiaro, per i giudici di legittimità ordinaria, che tale finalità può essere realizzata solo correlando il periodo di retrodatazione all’entità complessiva della custodia sofferta atteso che il risultato non sarebbe ottenuto, come perspicuamente rilevato dalle decisioni che si annoverano nel più recente e minoritario tra gli orientamenti giurisprudenziali in contrasto, ove la retrodatazione consistesse non già nella regressione del termine iniziale di durata della seconda misura a quello di esecuzione della prima, bensì nella mera sommatoria dei termini decorsi per entrambe le ordinanze cautelari in fasi omogenee. In tal modo, l’adozione frazionata delle ordinanze e l’accorta graduazione dei passaggi di fase dei relativi procedimenti renderebbe possibile un allungamento dei termini complessivi di custodia rispetto a quelli che sarebbero conseguiti alla coeva adozione dei provvedimenti cautelari.

Il meccanismo della retrodatazione risulterebbe così permeabile all’incidenza di fattori non predeterminati in ordine alla durata della custodia cautelare visto che sarebbe agevole aggirare il divieto di contestazioni a catena mediante il frazionamento delle iniziative cautelari e mirate scelte procedimentali del pubblico ministero. In particolare, l’adozione della prima misura cautelare in prossimità del passaggio di fase, così da far per essa decorrere un periodo custodiale “di fase” ridotto, e ciò impedirebbe il cumulo di termini non omogenei per la misura cautelare adottata per ultima, la cui durata verrebbe così artificiosamente prolungata.

Si produrrebbero pertanto per la Suprema Corte proprio i risultati elusivi dei termini di durata massima delle misure cautelari che l’istituto della retrodatazione – in piena aderenza ai principi costituzionali di certezza, predeterminazione per legge e “durata minima” della custodia cautelare – mira ad evitare sicchè la stessa finalità del meccanismo in esame verrebbe ad essere contraddetta e

negata.

Precisato questo, gli Ermellini rilevavano altresì come la sentenza della Corte costituzionale n. 233 del 2011 apparisse di rilevante interesse anche là dove afferma la compatibilità tra l’istituto della retrodatazione e il computo, previsto dall’art. 657 c.p.p., comma 1, della custodia cautelare subita per la prima misura ai fini della determinazione della pena detentiva da eseguire in conseguenza del passaggio in giudicato, anteriormente all’adozione del secondo provvedimento cautelare, della relativa sentenza.

In particolare, nel riferirsi alla decisione delle Sezioni Unite che aveva ritenuto la retrodatazione incompatibile col meccanismo di imputazione del presofferto cautelare alla pena detentiva da espiare (Sez. U, n. 20780 del 23/4/2009), la Corte costituzionale aveva infatti escluso che la “coesistenza tra le misure cautelari rappresenti, sul piano logico-giuridico, un presupposto necessario affinchè si producano le conseguenze lesive che il meccanismo della retrodatazione tende a scongiurare” ed aveva conseguentemente ritenuto che l’operatività del regime di garanzia è vieppiù necessaria “allorchè il secondo titolo – anzichè sovrapporsi, per un periodo più o meno lungo, al primo, confluendo così, almeno in parte, in un unico “periodo custodiale” – sia adottato quando il precedente ha già esaurito completamente le sue potenzialità, con conseguente cumulo integrale dei due periodi di privazione della libertà personale”.

La Corte costituzionale, con tale approccio ermeneutico, aveva quindi chiarito che l’espressa previsione dell’art. 297 c.p.p., comma 5, secondo periodo, secondo la quale “ai soli effetti del computo dei termini di durata massima, la custodia cautelare si considera compatibile con lo stato di detenzione per esecuzione di pena”, comporta che, dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il reato contestato con la prima ordinanza, nel computo del termine della custodia cautelare applicata con la seconda ordinanza, si deve comunque tenere conto anche del periodo nel quale la misura in questione si è sovrapposta all’esecuzione della pena per il primo reato atteso che tale disposizione “rende palese come, se la custodia cautelare riguarda un reato diverso da quello oggetto della condanna irrevocabile, il passaggio alla fase esecutiva – e dunque anche l’ipotizzato fenomeno di “trasformazione” della custodia già sofferta in espiazione di pena, a seguito della regola di detrazione prevista dall’art. 657 c.p.p., comma 1, – non precluda l’operatività dell’art. 303 c.p.p. e, quindi, la rilevanza del decorso dei termini da esso previsti – per il reato ancora da giudicare” sicchè “anche nell’evenienza considerata sussiste, dunque, l’esigenza di prevenire possibili fenomeni di aggiramento dei termini massimi di custodia”.

Ad avviso della Suprema Corte, d’altronde, pur non essendosi la Corte costituzionale pronunciata sul quesito sottoposto ad esame, appare peraltro evidente che, nel momento in cui la retrodatazione viene riferita alla data di esecuzione della misura cautelare adottata in un procedimento già definito con sentenza passata in giudicato, almeno parte del periodo di custodia relativo a tale prima misura possa essere stato subito nel corso del relativo giudizio e, quindi, in una fase diversa da quella in cui è stato adottato, dopo il passaggio in giudicato della sentenza relativa alla prima ordinanza, il secondo provvedimento cautelare.

Inoltre, essendo stata riconosciuta l’operatività della retrodatazione in riferimento a periodi di custodia cautelare suscettibili di essere scomputati – ai sensi dell’art. 657 c.p.p., comma 1, – dalla pena detentiva da eseguire, a maggior ragione la retrodatazione dovrebbe operare rispetto a periodi di custodia cautelare che, pur relativi a fasi procedimentali diverse, si collocano tutti a monte del giudicato.
Risulta dunque evidente, per il Supremo Consesso, la presa di distanza della Corte costituzionale dalla necessità, predicata dal più risalente degli orientamenti oggetto del segnalato contrasto, che il calcolo della retrodatazione rispetti l’omogeneità dei termini di fase.

Ad analoga conclusione, sempre secondo gli Ermellini, conducono le considerazioni sviluppate dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 229 del 2005 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 303 c.p.p., comma 2, nella parte in cui non consente di computare nei termini di durata massimi di fase di cui all’art. 304 c.p.p., comma 6, i periodi di custodia cautelare sofferti in fasi o in gradi diversi dalla fase o dal grado in cui il procedimento è regredito.

Di specifico rilievo per la soluzione della questione in esame deve, in particolare, ritenersi, per i giudici di piazza Cavour, il passaggio in cui la Corte costituzionale precisa che “proporzionalità e ragionevolezza stanno alla base del principio secondo cui, in ossequio al favor libertatis che ispira l’art. 13 Cost., deve comunque essere scelta la soluzione che comporta il minor sacrificio della libertà personale”, poichè “la tutela della libertà personale che si realizza attraverso i limiti massimi di custodia voluti dall’art. 13 Cost., comma 5, è… un valore unitario e indivisibile, che non può subire deroghe o eccezioni riferite a particolari e contingenti vicende processuali, ovvero desunte da una ricostruzione dell’attuale sistema processuale che non consenta di tenere conto, ai fini della garanzia del termine massimo finale di fase, dei periodi di custodia cautelare “comunque” sofferti nel corso del procedimento”.

Da un lato, dunque, osservavano le Sezioni Unite, la Corte costituzionale ribadisce che l’imprescindibile garanzia del rispetto dei termini massimi di durata della custodia cautelare e del “valore unitario” rappresentato dalla tutela della libertà personale richiede la valutazione di periodi di custodia cautelare sofferti in fasi non omogenee, a prescindere dalle contingenze processuali, dall’altro, la Consulta segnala con chiarezza che, tra più possibili opzioni interpretative, deve preferirsi quella che comporta il minor sacrificio della libertà personale e, di conseguenza, anche sotto questo profilo, l’orientamento giurisprudenziale minoritario e più recente deve ritenersi preferibile, poichè più favorevole per la persona soggetta a custodia e il solo in grado di fornire una ricostruzione dell’istituto della retrodatazione conforme al dettato costituzionale.

Oltre a ciò, veniva altresì ribadito che, nella verifica della scadenza dei termini di custodia per effetto della retrodatazione di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, permane, come testualmente affermato dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 233 del 2011, “l’assolutamente ovvia impossibilità di tenere conto del periodo nel quale il soggetto è tornato in libertà” trattandosi di una conclusione del tutto logica e compatibile con la descritta ratio della retrodatazione: se l’istituto è finalizzato a “riallineare” vicende cautelari che dovevano avere un contestuale avvio, non può ignorarsi che, nei periodi durante i quali, per qualsiasi ragione, si sia prodotta l’interruzione della custodia, l’indagato non ha subito alcun pregiudizio alla propria libertà personale e, quindi, viene meno la corrispondente esigenza di tutela [Sez. 2, n. 7227 del 11/1/2007; Sez. 1, n. 4719 del 28/10/2010 (dep. 2011)]

Orbene, a questo punto della disamina, si evidenziava infine che l’operata ricostruzione della struttura e della ratio dell’istituto della retrodatazione induce ad escludere la fondatezza dell’ulteriore indirizzo giurisprudenziale secondo il quale la misura custodiale applicata per prima, ed ancora efficace in conseguenza dell’intervenuto passaggio di fase, impedirebbe di dichiarare l’inefficacia della seconda misura dello stesso tipo, la retrodatazione comportando una completa assimilazione della misura retrodatata alla primigenia, come se entrambe fossero coeve ed emesse nel primo procedimento posto che tale orientamento non tiene conto che la struttura dell’istituto della retrodatazione consiste nel mero riallineamento del termine di efficacia della misura da retrodatare alla data di esecuzione o notificazione della prima ordinanza cautelare, e non già in una vera e propria unificazione dei due successivi titoli cautelari.

Le molteplici sentenze della Corte costituzionale e delle Sezioni Unite di cui si era dato conto in questa pronuncia, del resto, hanno sempre esaminato l’istituto della retrodatazione, insieme alla dottrina, mantenendo fermo il principio per cui le due ordinanze cautelari (e i relativi procedimenti) rimangono distinte e ciascuna segue la propria sorte, senza che la proroga dei termini dell’una possa influire sull’altra, se non in senso favorevole all’interessato mentre, diversamente opinando, l’effetto di garanzia dell’istituto sarebbe svuotato visto che di regola si applicherebbe alla misura da retrodatare un termine di fase più lungo, perchè relativo al dibattimento mentre la durata massima della seconda misura custodiale, lungi dall’essere fissata a termini certi e predeterminati per legge, rimarrebbe esposta alle “contingenti vicende” relative al primo procedimento.

La Suprema Corte, di conseguenza, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, enunciava il seguente principio di diritto: “La retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297 c.p.p., comma 3, deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare subita, anche se relativa a fasi non omogenee“.

 

Conclusioni

 

La decisione in questione è assai interessante nella parte in cui viene spiegato come deve essere effettuata la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297, c. 3, c.p.p. il quale, come è noto, stabilisce quanto segue: “Se nei confronti di un imputato sono emesse più ordinanze che dispongono la medesima misura per uno stesso fatto, benché diversamente circostanziato o qualificato, ovvero per fatti diversi commessi anteriormente alla emissione della prima ordinanza in relazione ai quali sussiste connessione ai sensi dell’articolo 12, comma 1, lettera b) e c), limitatamente ai casi di reati commessi per eseguire gli altri, i termini decorrono dal giorno in cui è stata eseguita o notificata la prima ordinanza e sono commisurati all’imputazione più grave. La disposizione non si applica relativamente alle ordinanze per fatti non desumibili dagli atti prima del rinvio a giudizio disposto per il fatto con il quale sussiste connessione ai sensi del presente comma”.

Difatti, in questa pronuncia, dirimendosi un pregresso contrasto giurisprudenziale, viene affermato che la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare di cui all’art. 297, c. 3, c.p.p. deve essere effettuata computando l’intera durata della custodia cautelare subita anche se relativa a fasi non omogenee.

Tale sentenza, dunque, deve essere presa nella dovuta considerazione al fine di verificare se la retrodatazione della decorrenza dei termini di custodia cautelare, secondo quanto previsto dall’art. 297, c. 3, c.p.p., sia correttamente eseguita o meno.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatto provvedimento, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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