Colpevole di estorsione il datore di lavoro che impone ai dipendenti stipendi più bassi di quelli che risultano in busta paga

Redazione 07/08/12
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A deciderlo è stata una recente sentenza della Cassazione (n. 31535 del 3 agosto 2012) che ha confermato la pena detentiva e quella accessoria dell’interdizione dai pubblici uffici nei confronti dell’uomo, che invano tentava di giustificare la prassi con la necessità di salvare posti di lavoro in tempo di crisi.

L’imputato, titolare di una azienda, imponeva stipendi più bassi e in generale condizioni contrattuali contrarie alla legge e ai contratti collettivi, sotto minaccia di licenziamento, per la verità non esplicita, bensì ‘larvata’, ma comunque indicativa di un comportamento scorretto di chi si avvale delle attuali condizioni del mercato del lavoro, dove l’offerta prevale sulla domanda.

Non serve addurre a giustificazione della propria condotta l’intento di disapplicare i contratti collettivi per evitare il rischio di chiusura dell’azienda e la conseguente perdita per i dipendenti del posto di lavoro: a maggior ragione integra il reato ex art. 629 del codice penale il comportamento del datore perpetrato in presenza di cicli economici di alti tassi di disoccupazione, come quello attuale, e in contesti di grave crisi occupazionale, come sono spesso ampi settori dell’Italia meridionale, luogo in cui si è svolta la vicenda.

Inutile, ancora, invocare una sorta di ‘complicità’ dei lavoratori, i quali sarebbero stati d’accordo con le pratiche scorrette attuate in azienda pur di non essere licenziati.

Per i giudici di legittimità anche questa è una forma, sia pure lieve, di minaccia idonea ad integrare i presupposti del reato di estorsione: l’individuazione degli estremi della estorsione, infatti, sta nella condotta dell’imprenditore che, approfittando della situazione di mercato di lavoro a lui favorevole, costringe i lavoratori, con la minaccia larvata di licenziamento, ad accettare la corresponsione di trattamenti retributivi deteriori e non adeguati alle prestazioni effettuate.

La situazione critica del mercato del lavoro confermata dal rischio di chiusura dell’azienda, è indubbiamente una condizione propizia per coartare la volontà dei dipendenti, e di essa il datore di lavoro ha approfittato. Per questi motivi non riesce ad evitare la condanna, anche se parte dei reati risulta prescritta e la Corte d’appello dovrà procedere ad una nuova determinazione della pena.   

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