Cassazione: è violenza privata costringere il dipendente a partecipare alla riunione

Redazione 09/09/13
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Lucia Nacciarone

A deciderlo è la quinta sezione penale della Cassazione con la sentenza n. 32463 del 6 settembre 2013.

Il dirigente del Comune che ha imposto all’impiegata di riprendere la riunione interrotta è stato quindi condannato a quattro mesi di reclusione, nonché al risarcimento del danno alla vittima costituitasi parte civile. E ciò, nonostante l’imputato sia stato assolto in precedenza: non è necessario, avvisano i giudici, riaprire l’istruttoria, se alla riforma della sentenza precedentemente emessa si giunge lasciando inalterata la ricostruzione compiuta dal primo giudice, compresa la sostanziale ammissione dei fatti da parte dell’imputato.

Il quale non aveva avuto remore nell’ammettere di aver inseguito la donna, ‘fuggita’ durante la riunione di lavoro che per lei si stava mettendo male, per costringerla a rimettersi a sedere alla scrivania, il tutto per ‘concludere il discorso’.

Il punto è che nel nostro ordinamento non vi è disposizione alcuna che autorizzi o tolleri una pretesa al corretto adempimento della prestazione lavorativa, soprattutto attraverso l’utilizzo della forza fisica.

Non rileva la circostanza che la destinataria del comportamento dell’agente sia un sottoposto, la cui condotta ribelle risulta peraltro giustificata dalla concitazione del momento: il dirigente avrebbe dovuto irrogare una sanzione disciplinare, ma non usare mezzi sproporzionati come invece ha fatto.

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