Basta manette facili, sentenzia la Cassazione

Redazione 21/06/16
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Non si può fare un uso disinvolto degli arresti, anche quando nella forma dei domiciliari.

Basta manette facili, ha sentenziato la Cassazione. Anche se una tale svolta più era già stata stabilita ormai un anno fa in realtà. Per l’esattezza, si tratta della legge 47 del 16 aprile 2015, approvata in Parlamento all’interno della riforma della custodia cautelare. Il principio secondo il quale il pericolo di reiterazione del reato deve essere «concreto» e «attuale» affinché un giudice possa infliggere all’indagato la carcerazione preventiva era già sancito dal codice ma prima del provvedimento, che lo ha rafforzato, non lo si era mai esplicitato in termini così netti. Per di più, i magistrati hanno continuato a seguire la vecchia logica, che sostiene che, se un profilo potenzialmente incline al delitto emerge dalle indagini, si deve dare per assodato che la persona in questione tornerà a delinquere. Non era nemmeno previsto di verificare che poi la persona avesse davvero nuove ed effettive occasioni di compiere lo stesso reato.

La leggerezza delle manette

Nella sentenza 24476, depositata due giorni fa, il presidente della sesta sezione della Suprema corte, Francesco Ippolito, ha annullato un’ordinanza con cui il Riesame di Roma confermava la misura cautelare, nel caso ai domiciliari, di un imprenditore marchigiano. La motivazione del tribunale è stata ritenuta carente dal collegio, proprio per quanto riguarda l’attualità del pericolo che il reato venga da nuovo commesso. Nei fatti, quella che la Cassazione ha censurato non è altro che la “leggerezza delle manette”. Nonostante gli arresti siano nella forma dei domiciliari, non è più possibile farne un uso disinvolto, ma ci vuole anzi un fondamento motivazionale solido e vicino nel tempo. Una pronuncia di questo tipo non è un caso isolato, tant’è che i giudici della Sesta sezione hanno citano ben due sentenze analoghe emesse dalla Suprema corte nei mesi successivi alla riforma del 2015. La svolta, l’elemento di novità si troverebbe però nel fatto che il collegio presieduto da Ippolito riassuma i principi già fissati nelle due precedenti occasioni e richiami i gip e i collegi del Riesame di tutta Italia a rispettare la legge recentemente approvata, appena 14 mesi fa.

Sforzo motivazionale

L’incisività della sentenza è dovuta dal fatto che riguardi una tipologia di reati, quelli legati alla pubblica amministrazione, in cui è meno possibile formulare l’ipotesi della reiterazione in modo automatico. Soprattutto, si tratta proprio delle questioni al centro del dibattito sulla giustizia, perché ruota attorno ai casi di presunte collusioni tra imprese e amministrazioni locali. Nello specifico, la sentenza emessa dalla sesta sezione esamina il caso dell’imprenditore Luca Tramannoni, accusato dalla Procura di Viterbo di turbativa d’appalti per due gare nel Viterbese, una nel 2015 per gli impianti termici di Grotte di Castro e l’altra nel 2014 per gli impianti di illuminazione di Civita Castellana. Tramannoni avrebbe manipolato i bandi, capitolati e disciplinari d’intesa con i funzionari dei due comuni, sostengono gli inquirenti, al fine di fare in modo che gli incarichi finissero alla sua azienda, la marchigiana “Cpm gestioni termiche”.  Il fatto che nella prima parte della sentenza i giudici della Cassazione diano effettivamente ragione al Riesame, e quindi indirettamente al gip e alla Procura di Viterbo è molto interessante. Eppure, nonostante le ordinanze abbiano ricostruito con «completezza» la «condotta del ricorrente» e quindi si sia in presenza di «gravi indizi di colpevolezza», la custodia cautelare può essere inflitta solo se il giudice fa «un maggiore e più compiuto sforzo motivazionale». Nel caso specifico, «il Tribunale del Riesame ha disatteso le doglianze difensive», bacchetta la Suprema corte, sostenendo che lo sforzo debba essere «ancora maggiore quanto più ampio sia lo spettro cronologico che divide i fatti contestati dal momento dell’adozione dell’ordinanza cautelare». Principi di cui il Riesame «non ha fatto buon governo», sancisce la sentenza. Chissà se tale “lezione” varrà una volta e per tutte?

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