L’attuazione della partecipazione gestionale dei lavoratori all’impresa: il ruolo della contrattazione collettiva

La legge n. 76/2025 ha introdotto un quadro normativo disciplinante la partecipazione dei lavoratori alla vita, alla gestione e agli utili delle imprese.

A cura di Avv. Davide Maria Testa c/o DLA Piper – diritto del lavoro, relazioni industriali e riorganizzazioni aziendali
Il 26 maggio scorso è stata pubblicata la legge n. 76/2025 che ha introdotto un nuovo quadro normativo disciplinante la partecipazione dei lavoratori alla vita, alla gestione e agli utili delle imprese. Le nuove disposizioni sono entrate in vigore a far data dal 10 giugno 2025.
Tale iniziativa legislativa – di impulso popolare (CISL) – si pone l’obiettivo primario di dare piena attuazione all’art. 46 della Costituzione[1] (nel rispetto dei princìpi e dei vincoli derivanti dagli ordinamenti sovranazionali), disciplinando la parteci­pazione gestionale, economica e finanziaria, organizzativa e consultiva dei lavoratori alla gestione, all’organizzazione, ai profitti e ai risultati nonché alla proprietà delle aziende ed individuandone le relative modalità.
L’ulteriore ratio sottostante all’iniziativa legislativa, ancor valevole dal punto di vista sociale, è rappresentata dall’intento di “rafforzare la collaborazione tra i datori di la­voro e i lavoratori, di preservare e incremen­tare i livelli occupazionali e di valorizzare il lavoro sul piano economico e sociale”.
Diverse sono dunque le forme di partecipazione dei lavoratori previste. Vediamone i tratti principali.

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Indice

1. Partecipazione gestionale


Nelle imprese il cui l’amministrazione e il controllo siano affidati a un consiglio di gestione e ad un consiglio di sorveglianza (sistema dualistico ex art. 2409-octies, ss. cc.), gli statuti possono prevedere, qualora disciplinata dai contratti collettivi, la partecipazione di uno o più rappresentanti dei lavoratori dipendenti ai suddetti organi; allo stesso modo, nelle imprese che non adottano tale sistema dualistico, gli statuti possono prevedere, qualora disciplinata dai contratti collettivi, la partecipazione al CdA di uno o più rappresentanti gli interessi dei lavoratori di­pendenti. Tali rappresentanti saranno individuati dai lavoratori dipendenti della società sulla base delle procedure de­finite dai contratti collettivi e dovranno, chiaramente, essere in pos­sesso dei necessari requisiti di indipendenza nonché di onorabilità e professionalità previsti dallo statuto della so­cietà.

2. Partecipazione economica e finanziaria


L’art. 5 della legge in commento prevede che, per l’anno 2025[2], in caso di distribuzione ai lavoratori dipendenti di una quota degli utili di impresa non inferiore al 10% degli utili complessivi, effet­tuata in esecuzione di contratti collettivi aziendali o territoriali di cui all’art. 51, d.lgs. n. 81/2015, il limite dell’importo complessivo soggetto all’imposta sostitutiva è elevato a € 5.000 lordi (in luogo dei € 3.000). In aggiunta, nelle medesime imprese possono essere previsti piani di partecipazione finanziaria dei dipendenti che individuino, oltre agli strumenti di partecipazione dei lavora­tori al capitale della società, anche l’at­tribuzione di azioni in sostituzione di premi di risultato (per l’anno 2025, i dividendi corrisposti ai lavo­ratori e derivanti dalle azioni attribuite in so­stituzione di premi di risultato, per un importo non superiore a € 1.500 annui, sono esenti dalle impo­ste sui redditi in misura parti al 50% del loro ammontare).

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3. Partecipazione organizzativa


Le aziende possono promuovere l’istituzione di commissioni pa­ritetiche, composte in eguale numero da rap­presentanti dell’impresa e dei lavoratori, fi­nalizzate alla predisposizione di proposte di piani di miglioramento e di innovazione dei prodotti, dei processi produttivi, dei servizi e dell’organizzazione del lavoro. Inoltre, le imprese possono proprio prevedere in organigramma figure referenti per tematiche legate alla formazione, al welfare, poli­tiche retributive, qualità dei luoghi di lavoro, tematiche legate alla genitoria­lità nonché alle di­versità ed all’inclusione.

4. Altre osservazioni sul provvedimento


In aggiunta a quanto sopra, v’è anche un ulteriore rafforzamento delle funzioni consultive preventive già diffusamente previste – sia dalla legge sia dai CCNL– in capo ai rappresentanti dei lavoratori in relazione a numerose tematiche afferenti alle scelte e visioni aziendali. Ciò attraverso commissioni paritetiche le cui modalità di composizione (nonché le regole attinenti alle consultazioni ed al raggio d’azione) sono affidate ai contratti collettivi.
Stante quanto sopra, assistiamo con grande interesse anche all’introduzione di obblighi formativi specifici per coloro che saranno i (lavoratori) rappresentanti delle commissioni paritetiche, dei consigli di sorveglianza e amministrazione, con l’obiettivo di consentire lo sviluppo di competenze tecniche e specialistiche connesse con i relativi ruoli partecipativi (in merito, la legge prevede che debbano esser sostenuti percorsi formativi di durata non inferiore a 10 ore annue).
In chiosa finale, anche nel testo di legge, viene istituita una commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori presso il CNEL volta ad offrire un ruolo di sorveglianza e supporto in relazione al sistema di partecipazione dei lavoratori in corso d’istituzione.
L’intero impianto normativo è stato – sin da subito – al centro di dibattiti e riflessioni. La maggior parte dei commenti hanno evidenziato gli aspetti negativi della novella, i quali sono correlati in gran parte all’inesigibilità (o “imprescrittibilità” giuridica) diretta degli obblighi previsti (si noti, infatti, che per ogni forma di partecipazione v’è rimando ad uno strumento istitutivo diverso – dalla legge – da concretizzarsi ad opera delle parti, come le previsioni di statuti e CCNL).
In ogni caso, vi sono stati anche commenti (molto interessanti a parer di chi scrive) che hanno guardato la novella legislativa da una prospettiva diversa, meno tecnica e maggiormente focalizzata sulla sua portata culturale e politica. Ed infatti, il senso è quello di ridare forza alla partecipazione, attraverso stimoli concertativi (i.e. attraverso le relazioni industriali) che possano supportare le parti sociali nel rimettere al centro il lavoro ed il sistema impresa.
E di certo, la partecipazione o, per meglio dire, l’interesse dei lavoratori non si può imporre per legge. Ciò che si può fare, ed è stato in parte fatto, è offrire alle parti tutti (o quasi) gli strumenti per far si che un sistema partecipativo possa essere attuato in concreto.
E seguendo tale filo conduttore, ci troviamo dinanzi a un quadro normativo tutto caratterizzato da un comune denominatore: la valorizzazione e l’affidamento di un ruolo assolutamente primario alla contrattazione collettiva.
A quest’ultima, infatti, è rimesso l’onere (ed il potere) di disciplinare nello specifico, ad esempio, le regole per (i) prevedere specifiche norme partecipative all’interno degli statuti aziendali o per l’individuazione dei rappresentanti dei lavoratori, (ii) la composizione delle commissioni, (iii) consultazioni preventive, etc.

5. Quali sono i contratti collettivi di riferimento?


Per rispondere a tale quesito ci viene in aiuto l’art. 2 della legge in commento ove si specifica che per contratti collettivi, s’intendono “i contratti collettivi nazionali, territoriali o aziendali stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale e i contratti collettivi aziendali stipulati dalle loro rappresentanze sindacali aziendali ovvero dalla rappresentanza sindacale unitaria, ai sensi dell’articolo 51 del decreto legislativo 15 giugno 2015, n. 81“.
Dunque, anche alla luce della “sensibile” potenza delle previsioni partecipative nel contesto economico-sociale, suscettibili di solcare financo un vero e proprio canale di partecipazione gestoria dei lavoratori al sistema impresa (sovvertendo o, per meglio dire, eliminando il netto confine tracciato sul tavolo economico e separante le due parti: imprenditore e lavoratore), dovrebbero ritenersi escluse altre forme di regolamentazione attuativa (come regolamenti/policy aziendali) al di fuori del perimetro di contrattazione collettiva come specificamente tracciato dalla norma.
Spetterà a questo livello (in senso giuridico) di contrattazione collettiva l’arduo compito di rendere concretamente applicabile quanto teorizzato dalla legge in commento, ad esempio, introducendo previsioni che abbiano una maggiore esigibilità e che invitino le imprese ad introdurre – ed arricchire – i propri statuti societari con forme di partecipazione dei lavoratori etc.
In merito, in assenza di alcuna esperienza pratica ad oggi, ci si domanda se vi sarà l’effettiva possibilità di imporre alle imprese di modificare (o strutturare in un determinato modo) gli statuti societari attraverso la sola norma di derivazione collettiva. Inoltre, prendendo spunto dall’annoso dibattito sulla compatibilità tra i ruoli di amministratore e dipendente in capo al medesimo soggetto (ed i relativi limiti dell’uno e dell’altro ruolo), s’intravede – sul piano operativo – l’esigenza prospettica di definire meglio il ruolo di rappresentanti dei lavoratori nell’ambito degli assetti gestori (e.g. CdA), quali saranno i poteri (e i loro limiti), i diritti e quali saranno le tutele per garantire l’effettività del ruolo ricoperto.
In ogni caso, ispirandosi al modello tedesco (ove i lavoratori hanno da tempo un’influenza diretta sulle decisioni aziendali), la legge in commento offre una rilevante opportunità ai protagonisti del mondo del lavoro (i.e. imprese, lavoratori, organizzazioni sindacali etc.) per avviare una nuova fase di relazioni industriali dagli alti contenuti e dalle grandi responsabilità.
Il tutto, anche nell’ottica di affrontare e governare le nuove sfide del lavoro che il progresso (soprattutto tecnologico) sta ponendo agli operatori.

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Davide Maria Testa

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