Abuso di diritto, l’esterovestizione societaria potrebbe costituire reato

Redazione 01/03/12
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Lilla Laperuta

Nuovo giro di vite sulle condotte antieleusive dei contribuenti. Questa volta a finire nella restrittiva lente degli ermellini è il fenomeno della esterovestizione, in uso presso numerose realtà imprenditoriali, e consistente nella localizzazione fittizia della residenza fiscale di un soggetto residente (persona fisica o giuridica) al di fuori del territorio nazionale, anche se la residenza effettiva continua a trovarsi in Italia, per ottenere un vantaggio tributario altrimenti non ottenibile.

Sia chiaro, la scelta di costituire una società deputata alla gestione delle partecipazioni di gruppo, dei marchi, dei brevetti o quant’altro, di per sé è del tutto legittima, anche quando l’obiettivo primario sia quello di diminuire il carico fiscale del gruppo sfruttando le legislazioni estere più favorevoli.
La questione diviene fiscalmente rilevante nell’ipotesi, piuttosto frequente nella prassi, in cui la società costituita all’estero sia, di fatto, amministrata in Italia. Infatti, secondo quanto dispone l’articolo 73 del Testo unico delle imposte sui redditi (Tuir), “ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato”.

Ebbene, con l’innovativa sentenza n. 7739 del 28 febbraio 2012, la Suprema Corte ha colto l’occasione per arginare i profili antielusivi del fenomeno connotandolo, sia pure entro certi limiti, come penalmente rilevante, e pervenendo così alla riapertura del processo penale a carico dei noti stilisti Dolce&Gabbana che avevano ceduto il marchio a una società lussemburghese.

Il principio asserito è che l’elusione fiscale diventa anche un reato se il contribuente ha violato le specifiche norme antielusive sancite dall’articolo 37-bis del D.P.R. n. 600/1973. In punto di diritto si legge: «se le fattispecie criminose sono incentrate sul momento della dichiarazione fiscale e si concretizzano nell’infedeltà dichiarativa, il comportamento elusivo non può essere considerato tout court penalmente irrilevante. Se il bene tutelato dal nuovo regime fiscale è la corretta percezione del tributo, l’ambito di applicazione delle norme incriminatrici ben può coinvolgere quelle condotte che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile».

Per concretarsi la realizzazione della fattispecie penale, tuttavia, «occorre che sia raggiunta la relativa soglia di punibilità minima per l’imposta evasa» e la determinazione di tale soglia quantitativa compete esclusivamente al giudice penale, che potrebbe arrivare a conclusioni diverse da quelle alle quali è pervenuta l’amministrazione finanziaria». Deve essere inoltre positivamente riscontrato l’elemento psicologico del reato, costituito dal fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto.

In definitiva la valutazione del giudice penale, sostengono gli ermellini, può non coincidere con quella effettuata in sede tributaria, in conseguenza del principio della reciproca indipendenza che caratterizza i rapporti fra accertamento e contenzioso fiscale da una parte e processo penale dall’altra (art. 20 D.Lgs. 74/2000 e art. 64 c.p.p.).

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