A proposito di Cass. 3 giugno – 29 settembre 2008, n. 37026

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Due appaiono i passaggi fondamentali di questa pronunzia della Suprema Corte.
 
A) Il primo risulta concernere una dinamica processuale e cioè la utilizzabilità nella sede del giudizio indennitario ex art. 314 c.p.p. di prove alle quali non sia stata attribuita valore ed efficacia delibativa nell’ambito del processo dei cognizione.
La Corte – prendendo spunto dalla circostanza che (nella fattispecie) la sopravvenuta inutilizzabilità di talune chiamate in reità, rivolte nei confronti dell’interessato, si sarebbe posta come situazione ostativa, all’accertamento della responsabilità dell’imputato – ribadisce la distinzione fra le categorie della “inutilizzabilità patologica” e della “inutilizzabilità fisiologica”.
La nozione di inutilizzabilità della prova si ricava dall’art. 191 c.p.p. che recita testualmente sotto la rubrica “Prove illegittimamente acquisite.”
1. Le prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge non possono essere utilizzate.
2. L‘inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del procedimento.
Il concetto di inutilizzabilità viene, quindi, introdotto nel nostro ordinamento processualpenalistico attraverso il combinato disposto dai due commi della citata norma.
Esso configura una categoria di sanzione processuale che viene a coprire quel vuoto che il sistema giuridico previgente accusava, attesa l’insufficienza dell’istituto della nullità (artt. 177 e segg. c.p.p.) a ricomprendere nella propria previsione tutti le possibili ipotesi di inosservanza delle disposizioni stabilite per gli atti del procedimento.
Tale situazione trovava la propria causa nell’esplicita applicazione del principio di tassatività dei casi di nullità.
Se da un lato, infatti, siffatta scelta appariva offrire, indubbiamente, certezza in ordine alle ipotesi di operatività delle norme e della sanzioni procedimentali richiamate codicisticamente, dall’altro, però, essa manteneva al di fuori dello steccato, così costruito, situazioni di carattere border line, che pur non rientrando strisctu sensu nella nozione di nullità, apparivano ed appaiono, comunque, difformi dai precetti normativi vigenti.
Soprattutto (ma non solo) in materia di prove, questa categoria ha avuto modo di esplicare la propria vocazione – al contempo – suppletiva e complementare rispetto al regime delle  nullità.
Si è, pertanto, individuata sotto le vestigia della cd. inutilizzabilità fisiologica della prova, quella situazione che impedisce al giudice l’utilizzo di prove, che pure siano state assunte "secundum legem", ma che, per esempio, possano differire da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento secondo l’articolo 526 del c.p.p., con i correlati divieti di lettura di cui all’articolo 514 dello stesso codice.
Sotto la specie sanzionatoria della cd. inutilizzabilità patologica della prova, invece, sono stati fatti rientrare tutti gli atti probatori assunti “contra legem”, che, dunque, tamquam non esset.
Si tratta di attività, la cui utilizzazione è, dunque, vietata in modo assoluto in tutte le altre fasi del procedimento, comprese quelle delle indagini preliminari e dell’udienza preliminare, nonché le procedure incidentali cautelari e quelle di merito.
La rilevanza delle due categorie si è, indi, prepotentemente appalesata in relazione alle tematiche concernenti il giudizio abbreviato, posto che la natura di rito a carattere negoziale-abdicativo, che connota lo stesso ha imposto una ricognizione approfondita circa i poteri che rimangono, una volta, operata detta scelta, nella sfera di disponibilità della parte privata, riguardo la deducibilità di vizi concernenti le prove che possano essere poste a fondamento della decisione[1].
Ulteriore recente autorevole chiarimento, sullo specifico tema della patologia dell’inutilizzabilità, è derivato dalla pronunzia del giudice di legittimità Sez. II Sent., 27 marzo 2008, n. 1587[2], che ha affermato che “L’art. 191, comma primo, cod. proc. pen., il quale sancisce la inutilizzabilità delle prove "acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge", va interpretato nel senso che tale inutilizzabilità può derivare, in difetto di espressa, specifica previsione, soltanto dalla illegittimità in sè della prova stessa, desumibile dalla norma o dal complesso di norme che la disciplinano, e non invece soltanto dal fatto che la prova sia stata acquisita irritualmente”.
Dalle premesse di cui alla massima è derivata la conclusione che la categoria delle “prove illegittimamente acquisite" (dunque contra legem) ricomprende solo quelle che non si sarebbero potute acquisire proprio a cagione dell’esistenza di un espresso o implicito divieto.
Nel caso che ci occupa la Corte ha ritenuto che non potesse operare un effetto preclusivo, versando in ipotesi di inutilizzabilità fisiologica, posto che si trattava di prove già assunte, ergo, appartenenti all’alveo del principio di tassatività e, al contempo, munite del carattere proprio della legalità.
La loro inidoneità, quindi, non derivava affatto da una contrarietà originaria delle stesse a norme imperative e, quindi, esse avrebbero potuto formare oggetto di rinnovazione, ove per la natura dell’atto o del mezzo di ricerca della prova, tale volontà fosse stata possibile a realizzarsi.
 
B) Il secondo attiene alla specifica posizione che il soggetto viene a rivestire nella sequenza ricostruttiva dei fatti di causa, in dipendenza della propria condizione di tossicodipendente.
In buona sostanza, il giudice di legittimità osserva che, funzionalmente alla possibilità di riconoscere il diritto all’indennizzo richiesto ex art. 314 c.p.p., deve assumere valore decisivo, la valutazione dell’incidenza del comportamento, che il singolo ha tenuto, rispetto alla dinamica dei fatti di causa.
E’ questo, principio astrattamente pacifico, se è vero che è approdo giurisprudenzialmente accolto e costante quello per cui si deve, infatti, esaminare se l’imputazione sia stata elevata erroneamente a carico del cittadino incolpevole, oppure se costui abbia – oggettivamente – indotto in errore il magistrato, in forza di un comportamento improntato alla “colpa grave”.
Sia consentito allo scrivente dissentire da una simile impostazione che troppo spesso ha formato un commodus discessus per trovare giustificazione ad errori anche grossolani di magistrati inquirenti.
Costoro – quasi fossero ragazzini imberbi ed inesperti – verrebbero sistematicamente, infatti, “indotti” in errore da comportamenti equivocamente interpretabili ascrivibili agli indagati/imputati. 
Nella pratica, però, la posizione assunta dal giudice di legittimità, pur se in linea di principio e per le ragioni sovraesposte, non può non suscitare fondate e meditate perplessità.
Si deve, infatti, distinguere due momenti particolari di questa parte della sentenza in commento.
Da un lato, condividendo l’orientamento del giudice di merito, la Suprema Corte afferma, infatti, la statuizione che uno stato di tossicodipendenza, presa in sé come condizione personale del singolo, oppure valutata come atteggiamento “inerte” – in quanto privo di conclamati collegamenti con il mondo dello spaccio – non pare configurare quella “colpa grave”, che è elemento di ostacolo alla riparazione pecuniaria di cui all’art. 314 c.p.p. .
Sino a questo punto, dunque, non pare ravvisabile alcun problema interpretativo, proprio per l’assenza in radice di elemento che possano apparire idonei ad ingenerare confusione nel giudicante.
La questione viene, però, a complicarsi all’atto dell’affermazione secondo la quale, “ben può riconoscersi, invece, siffatta connotazione (la colpa grave n.d.a.) nel comportamento del tossicodipendente che si attivi al fine di reperire sostanze stupefacenti; allorché, come nella fattispecie, ricorrano elementi ulteriori che possano ragionevolmente indurre a ritenere che si tratti di attività finalizzata non solo al consumo personale, ma anche allo spaccio (Cass. pen., sez. IV, n. 37644 del 2004; Cass. pen. sez. IV, udienza 29 febbrario 2008 D’***********)”.
Or bene, è evidente che al di là della forma sintattica utilizzata, che non pare delle più felici  atteso l’uso di un equivoco punto e virgola che spezza il significato complessivo delle due locuzioni (e non è questa certo una critica dettata da esasperata ricerca di purezza del linguaggio), è importante sottolineare che – allo stato attuale – troppe volte la convinzione che lo stupefacente sia destinato a fini differenti dall’uso personale viene ricavata solo sulla scorta di personalissime e singolari convinzioni dei giudicanti.
La centralità del concetto di punibilità o meno della detenzione di stupefacenti, quindi, emerge prepotentemente, come nodo centrale propedeutico e logico antecedente, onde valutare la fondatezza della richiesta di indennizzo da parte di chi sia stato prosciolto nel merito.
Va, infatti, sottolineato che se si dovesse accedere alla tesi che configuri la “colpa grave” nel comportamento del tossicodipendente inteso come generico tentativo di reperire sostanze stupefacenti, ci troveremmo dinanzi ad una contraddizione in termini.
E’, infatti, naturale, che una persona tossicomane od assuntrice di droghe, cerchi di acquisire la dose che intende assumere, finalizzando l’acquisto a bisogni privati.
E’, però, altrettanto importante che ci si imponga un rigore interpretativo assoluto, posto che l’acquisto a fini personali è azione totalmente differente da quello a scopo di ulteriore (in toto od in parte) a terzi.
Se, dunque, non è revocabile in dubbio l’esistenza di un evidente discrimen che intercorre fra le due condotte, atteso il diverso trattamento sanzionatorio previsto in relazione alle stesse dal T.U. 309/90, è fondamentale, però, che la giurisprudenza – sempre più – affini l’individuazione di quei criteri ermeneutici che possano superare mere presunzioni, spesso utilizzate a proposito e contra reo, sulla scorta di pregiudizi e forse per acquietarsi la coscienza.
 
 
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Suprema Corte Di Cassazione
Sezione IV Penale
 
Sentenza 3 giugno – 29 settembre 2008, n. 37026
 
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Lette le conclusioni del Procuratore generale presso la Corte di cassazione, che ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso
 
Motivi della decisione
 
1.1 Con ordinanza dell’11 novembre 2005 la Corte d’appello di Firenze rigettava l’istanza di riparazione proposta da B. M. in relazione alla detenzione dallo stesso patita dal 17 marzo 1997 al 3 luglio 2000, nell’ambito del processo penale che lo aveva visto indagato di detenzione e vendita di notevoli quantitativi di sostanze stupefacenti di tipo eroina e cocaina; imputazioni dalle quali era stato assolto in sede di rinvio, a seguito di annullamento pronunciato dalla Suprema Corte, con la formula «perché il fatto non sussiste».
In motivazione il giudicante, premesso che il B. era stato assolto a seguito della dichiarata inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da due testi decisivi che non era più stato possibile riassumere nel rinvio di giudizio, ed escluso che le regole di acquisizione delle prove valevoli nel giudizio penale potessero condizionare la valutazione del giudice della riparazione, osservava che l’attività di trafficante di quantitativi anche ingenti di sostanze stupefacenti, risultante da quelle deposizioni, peraltro riscontrate dalle ammissioni dello stesso indagato, integravano un comportamento doloso, che aveva dato causa al provvedimento restrittivo e che, come tale, escludeva il diritto dell’istante alla riparazione.
1.2 Avverso detta pronuncia ha proposto ricorso per cassazione, per mezzo del suo difensore, B. M., chiedendone l’annullamento per i seguenti motivi:
– violazione dell’art. 314 cod. proc. pen., mancanza e contraddittorietà della motivazione, per avere la Corte d’appello rigettato la domanda di riparazione senza considerare che il coinvolgimento del B. nel processo penale era conseguito alle accuse formulate nei suoi confronti da soggetti terzi, e cioè da un comportamento di altri, «testi imputati, ex art. 210 cod. proc. pen., e testi». In particolare il decidente non avrebbe in alcun modo esplicitato il contributo attivo dato dal B. all’adozione del provvedimento restrittivo. Né la dettagliata ricostruzione dell’iter processuale effettuata dal giudice di merito si presterebbe a colmare l’insufficienza di siffatto approccio, neppure essendo chiaro se l’ammissione dell’istante di avere frequentato il campo nomadi e di avere colà acquistato sostanze stupefacenti, era stata considerata dal decidente come condotta dolosa o gravemente colposa, ostativa al riconoscimento del beneficio.
1.3 Il Procuratore generale presso la Corte di cassazione ha chiesto di dichiarare inammissibile il ricorso.
 
Il Ministero dell’Economia e delle Finanze, costituitosi in giudizio, ha del pari chiesto di dichiararlo inammissibile o di rigettarlo.
2.1 Le doglianze sono infondate.
Non ha errato il giudice di merito nel porre a fondamento della sua decisione le dichiarazioni dei testi che avevano riferito sui traffici di sostanze stupefacenti posti in essere dall’istante, ancorché si trattasse di prove inutilizzabili nel processo penale.
All’uopo è sufficiente rilevare che tali deposizioni accusatorie non erano affette da inutilizzabilità patologica – nozione nella quale devono farsi rientrare, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte (cofr. Cass. pen., sez. un., 21 giugno 2000, n. 16; Cass. pen., sez. 3ª, 21 gennaio 2006, n. 6757; Cass. pen., sez. 6ª, 17 ottobre 2006, n. 4125) «gli attori probatori contra legem, il cui impiego è vietato in modo assoluto dall’art. 191 cod. proc. pen., non solo nel dibattimento, ma in qualsiasi altra fase del procedimento, ivi comprese le indagini preliminari, l’udienza preliminare, le procedure incidentali cautelari e quelle negoziali di merito», per essere la loro assunzione avvenuta in contrasto radicale con la normativa che li regola e con i principi fondamentali dell’ordinamento – ma da inutilizzabilità fisiologica, trattandosi di prove assunte, la cui acquisizione il giudice della cognizione cercò invano di reiterare e delle quali pertanto ben poteva e doveva tener conto quello della riparazione.
A ciò aggiungasi che il decidente ha altresì valorizzato, in chiave ostativa all’elargizione del beneficio, le ammissioni dello stesso istante in ordine alle sue frequentazioni del campo nomadi al fine di acquistarvi stupefacenti. Siffatto apprezzamento non merita censura: e invero questa Corte, con specifico riguardo proprio alle azioni sanzionate dal d.P.R. n. 309 del 1990, ha ripetutamente affermato che, se il mero stato di tossicodipendenza, senza altre concrete circostanze aggiuntive, non può da solo integrare la «colpa grave» ostativa all’insorgere del diritto alla riparazione, a norma dell’articolo 314, comma 1, cod. proc. pen., in quanto stato soggettivo inidoneo ex se a trarre in inganno il giudice della cautela in ordine alla realizzazione di una delle fattispecie penalmente rilevanti previste dall’articolo 73 d.P.R. 9 ottobre 1990 n. 309, ben può riconoscersi, invece, siffatta connotazione nel comportamento del tossicodipendente che si attivi al fine di reperire sostanze stupefacenti; allorché, come nella fattispecie, ricorrano elementi ulteriori che possano ragionevolmente indurre a ritenere che si tratti di attività finalizzata non solo al consumo personale, ma anche allo spaccio (Cass. pen., sez. IV, n. 37644 del 2004; Cass. pen. sez. IV, udienza 29 febbrario 2008 D’***********).
In tale contesto il ricorso deve essere rigettato.
Alla pronuncia segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali; mentre si ritiene opportuno dichiarare interamente compensate quelle tra le parti.
P.Q.M.
La Corte di cassazione rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali. Compensa le spese tra le parti del presente giudizio.


[1] Cfr. Cass. Sez. VI, 13-05-2004, n. 36234, Jasini, Guida al Diritto, 2004, 41, 68
[2] L.V.R., CED Cassazione, 2008 e www.leggiditalia.it

Zaina Carlo Alberto

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