Indice:
- Il fatto
- I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
- Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
- Conclusioni
Il fatto
La Corte di Appello di Brescia confermava uuna sentenza del Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Bergamo con la quale l’imputato era stato condannato, alla pena di anni uno e mesi quattro di reclusione, in relazione al reato di cui all’art. 5 d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 nonché del reato di cui all’art. 10-quater d.lgs 10 marzo 2000, n. 74.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso il provvedimento summenzionato era proposto ricorso per Cassazione con il quale venivano dedotti i seguenti motivi: 1) violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’affermazione della responsabilità penale per il capo A), erronea applicazione di legge e vizio di motivazione in punto accertamento del reddito di impresa e della conseguente imposta evasa che sarebbe stata dimostrata ricorrendo a generiche ed inattendibili presunzioni ammesse nel settore fiscale, ma non compatibili con le garanzie del sistema penale; 2) violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) ed e) cod. proc. pen. in relazione all’illogicità della motivazione sulla mancata detrazione di costi, ai fini della determinazione della base imponibile dell’Iva, in violazione della giurisprudenza della Corte di Cassazione che ha affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione, l’amministrazione deve anche in via induttiva determinare i maggiori costi relativi ai maggiori ricavi accertati; 3) violazione di cui all’art. 606 comma 1 lett. b) cod. proc. pen., inosservanza ed erronea applicazione della legge penale in relazione alla mancata applicazione del principio del “favor rei” nella successione di leggi penali nel tempo.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il ricorso era stimato inammissibile per le seguenti ragioni.
Quanto al primo motivo, si osservava come vi sia un indirizzo interpretativo, consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui, nei reati tributari, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta e non versata in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria (Sez. 3, n. 50157 del 27/09/2018), rilevandosi al contempo come sempre la giurisprudenza di legittimità abbia altresì affermato che, per il principio di atipicità dei mezzi di prova, di cui è espressione l’art. 189 cod. proc. pen., il giudice può avvalersi dell’accertamento induttivo, compiuto mediante gli studi di settore dagli Uffici finanziari, per la determinazione dell’imposta dovuta, ferma restando l’autonoma valutazione degli elementi emersi secondo i criteri generali previsti dall’art. 192, comma 1, cod. proc. pen. (Sez. 3, n. 36207 del 17/04/2019) e, quanto alla verifica del superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000, il giudice penale può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo, mediante gli studi di settore, compiuto dagli Uffici finanziari per la determinazione dell’imponibile (Sez. 3, n. 40992 del 14/05/2013).
Nel rammentare che gli studi di settore sono posti a base di un procedimento di accertamento disciplinato dal diritto tributario che consente il contraddittorio del contribuente, la giurisprudenza della Corte di legittimità, invero, proprio per quanto attiene all’ambito di rilevanza penale, ha affermato il principio che, ai fini di verificare il superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 del D.Lgs. n. 74 del 2000, il giudice può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo dell’imponibile compiuto dagli uffici finanziari (Sez. 3, Sentenza n. 40992 del 14/05/2013; Sez. 3, n. 24811 del 28/4/2011).
Orbene, declinando tali criteri ermeneutici rispetto al caso di specie, gli Ermellini notavano come la sentenza impugnata, in continuità con quella di primo grado, fosse pervenuta alla determinazione della imposta evasa attraverso un procedimento induttivo valorizzando plurimi elementi di prova, come l’esito dell’accertamento disposto dall’Agenzia delle Entrate, l’elenco delle fatture attive tratte dallo Spesometro integrato, il resoconto degli accertamenti bancari, il mancato deposito di bilanci, la mancata allegazione di concreti elementi a confutazione della prospettazione dell’Amministrazione finanziaria e a documentare eventuali costi, e, sulla scorta di ciò, costoro erano giunti a ritenere dimostrato il superamento della soglia di rilevanza penale con riguardo all’Iva, mentre con riguardo all’Ires, l’imposta evasa non superava la soglia di punibilità dell’art. 5 cit..
Ciò posto, quanto alla seconda doglianza, i giudici di legittimità ordinaria rilevavano come la censura proposta fosse manifestatamente infondata poiché, in tema di reati tributari, il giudice, per determinare l’ammontare dell’imposta evasa, deve effettuare una verifica che, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale e dalle regole che lo governano, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza (Sez. 5, n. 40412 del 13/06/2019; Sez. 3, n. 8700 del 16/01/2019) fermo restando che, quanto, poi, alla configurabilità dei reati in materia di Iva, che rilevava nel caso concreto, è stato precisato che la determinazione della base imponibile, e della relativa imposta evasa, deve avvenire solo sulla base dei costi effettivamente documentati, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza (quanto meno) di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o comunque il ragionevole dubbio della loro esistenza, mentre è possibile tenere conto di questi ultimi nelle ipotesi di reati concernenti le imposte dirette che, quanto al caso in esame, non rileva essendo solo stata contestata l’omessa dichiarazione Iva, essendo l’imposta sul valore aggiunto collocata in un sistema chiuso di rilevanza sovranazionale, che prevede la tracciabilità di tutte le fatture, attive e passive, emesse nei traffici commerciali, a nulla rilevando l’eventuale sussistenza di costi effettivi non registrati che, invece, possono essere considerati con riferimento alle imposte dirette, non vincolate al rispetto di stringenti oneri documentali.
Oltre a ciò, era inoltre fatto presente, una volta evidenziato che, in tema di determinazione dell’IVA evasa, «La regola di giudizio sul punto è fornita, in termini generali, dall’art. 19, d.P.R. n. 633 del 1972, il cui primo comma così recita: «per la determinazione dell’imposta dovuta (…) o dell’eccedenza di cui al secondo comma dell’art. 30, è detraibile dall’ammontare dell’imposta relativa alle operazioni effettuate, quello dell’imposta assolta o dovuta dal soggetto passivo o a lui addebitata a titolo di rivalsa in relazione ai beni ed ai servizi importati o acquistati nell’esercizio dell’impresa, arte o professione. Il diritto alla detrazione dell’imposta relativa ai beni e servizi acquistati o importati sorge nel momento in cui l’imposta diviene esigibile e può essere esercitato, al più tardi, con la dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto ed alle condizioni esistenti al momento della nascita del diritto medesimo» – come il fatto, che il contribuente non abbia presentato la dichiarazione IVA, non fosse di per sé ostativo al riconoscimento del credito di imposta, così come non lo era, in termini generali, il mancato assolvimento degli obblighi formali inerenti la registrazione in contabilità delle fatture passive stante il fatto che il contribuente può sempre dimostrare il diritto alla detrazione mediante la produzione delle fatture passive e del registro in cui devono essere annotate o, in caso di incolpevole impossibilità di produrre tali documenti, mediante l’acquisizione di copia delle fatture presso i fornitori dei beni o dei servizi ovvero mediante altri mezzi di prova testimoniali nei limiti consentiti dall’art. 2724, n. 3, cod. civ. (Sez. 6-5 civ., n. 9611 del 13/04/2017; Sez. 6-5 civ., n. 23331 del 16/11/2016; Sez. 3 civ., n. 21233 del 29/09/2006), tenuto conto altresì della circostanza in base alla quale la giurisprudenza delle Sezioni civili insegna che la neutralità dell’imposizione armonizzata sul valore aggiunto comporta che, pur in mancanza di dichiarazione annuale per il periodo di maturazione, l’eccedenza d’imposta, che risulti da dichiarazioni periodiche e regolari versamenti per un anno e sia dedotta entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione relativa al secondo anno successivo a quello in cui il diritto è sorto, va riconosciuta dal giudice tributario se il contribuente abbia rispettato tutti i requisiti sostanziali per la detrazione, sicché, in tal caso, nel giudizio d’impugnazione della cartella emessa dal fisco a seguito di controllo formale automatizzato non può essere negato il diritto alla detrazione se sia dimostrato in concreto, ovvero non sia controverso, che si tratti di acquisti compiuti da un soggetto passivo d’imposta, assoggettati ad IVA e finalizzati ad operazioni imponibili (Sez. U. civ., n. 17757 del 08/09/2016, Rv. 640943 – 01)».
Pur tuttavia, ad avviso del Supremo Consesso, nel caso di specie, nulla era stato allegato a sostegno della detrazione dei costi non contabilizzati.
Tutto ciò premesso, quindi, per la Suprema Corte, la pronuncia impugnata aveva fatto una corretta applicazione dello ius receptum e, rilevando che l’imputato non aveva documentato costi sostenuti, aveva, del tutto correttamente, calcolato la base imponibile e l’imposta evasa che era risultata superiore alla soglia di punibilità.
Infine, osservava il Collegio come il ricorrente, nel reiterare la medesima doglianza già devoluta ai giudici dell’impugnazione, avesse richiamato alcune pronunce della giurisprudenza tributaria secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel caso di omessa dichiarazione da parte del contribuente, l’Amministrazione finanziaria, deve, comunque, determinare, sia pure induttivamente, i costi relativi ai maggiori ricavi accertati, pena la lesione del parametro costituzionale della capacità contributiva, senza che possano operare le limitazioni previste dall’art. 75 (ora 109) del d.P.R. n. 917 del 1986 in tema di accertamento dei costi, disciplinando però tale norma la diversa ipotesi in cui una dichiarazione dei redditi, ancorché infedele, sia comunque sussistente (Sez. 5, ord. n. 13119 del 2020, Sez. 5, n. 19191 del 17/7/2019; conformi, n. 1506 del 20/01/2017; n. n. 28028 del 25.11.2008; Sez. civ. 5, 19/02/2009 n. 3995), che non sono applicabili nel caso in scrutinio nel quale si verte in materia di evasione dell’Iva e non delle imposte sui redditi.
Anche il secondo motivo di ricorso era, quindi, considerato manifestamente infondato.
Da ultimo, pure il terzo motivo era reputato inammissibile.
Si notava a tal riguardo – una volta fatto presente, da un lato, che, l’art. 10-quater del decreto legislativo n. 74 del 2000, è stato integralmente riscritto operando una scissione all’interno della precedente previsione, dall’altro, che, nel primo comma, la fattispecie originaria è confermata nella sostanza ma ridisegnata in maniera autonoma, eliminando il richiamo all’art. 10-bis e prevedendo che la sanzione della reclusione da sei mesi a due anni prevista per chi non versa le somme dovute, utilizzando in compensazione, ai sensi dell’articolo 17, del d. Igs. 9 luglio 1997, n. 241, crediti “non spettanti”, scatti solo al superamento – anche in questo caso – di una soglia di punibilità, determinata in cinquantamila euro, mentre, con il secondo comma, è invece punita più gravemente, con la reclusione da un anno e sei mesi a sei anni, la fattispecie, maggiormente offensiva, di utilizzo in compensazione, sempre ai sensi dell’articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, di crediti “inesistenti” per un importo annuo superiore ai cinquantamila euro – come vi sia continuità normativa con la vecchia disposizione dell’art. 10 quater d.lgs 10 marzo 2000, n. 74 che, puniva l’indebita compensazione senza distinzione tra crediti non spettanti e inesistenti.
Ebbene, a fronte di ciò, per la Corte di legittimità, quella territoriale aveva giustamente replicato sul punto osservando che “la condotta in esame rientrava compiutamente già nella previsione di reato preesistente” e “la soglia di punibilità era ed è tuttora fissata nell’importo di E. 50.000”.
Tal che, come appena scritto, se ne faceva discendere da ciò la manifesta infondatezza del motivo di ricorso.
Conclusioni
La decisione in esame è assai interessante essendo ivi chiarito a chi spetta, nei reati tributari, determinare l’ammontare dell’imposta evasa.
Difatti, in tale sentenza, sulla scorta di un pregresso orientamento nomofilattico, è postulato che, nei reati tributari, spetta esclusivamente al giudice penale il compito di determinare l’ammontare dell’imposta evasa, da intendersi come l’intera imposta dovuta e non versata in base a una verifica che può venire a sovrapporsi ed anche entrare in contraddizione con quella eventualmente effettuata dal giudice tributario, non essendo configurabile alcuna pregiudiziale tributaria fermo restando che, quanto alla verifica del superamento della soglia di punibilità di cui all’art. 5 D.Lgs. n. 74 del 2000[1], il giudice penale può legittimamente avvalersi dell’accertamento induttivo, mediante gli studi di settore, compiuto dagli Uffici finanziari per la determinazione dell’imponibile ma tale verifica, pur non potendo prescindere dalle specifiche regole stabilite dalla legislazione fiscale per quantificare l’imponibile, risente però delle limitazioni derivanti dalla diversa finalità dell’accertamento penale e dalle regole che lo governano, con la conseguenza che occorre tenere conto dei costi non contabilizzati solo in presenza, quanto meno, di allegazioni fattuali, da cui desumere la certezza o, comunque, il ragionevole dubbio della loro esistenza.
Tale provvedimento, quindi, deve essere preso nella dovuta considerazione anche al fine di comprendere come il giudice penale possa verificare l’ammontare dell’imposta evasa alla luce di quanto affermato dalla Cassazione in subiecta materia.
Il giudizio in ordine a quanto postulato in siffatta pronuncia, proprio perché contribuisce a fare chiarezza su cotale tematica giuridica, dunque, non può che essere positivo.
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Giorgio SpangherProfessore emerito di procedura penale presso l’Università di Roma “La Sapienza”.Marco ZincaniAvvocato patrocinatore in Cassazione, presidente e fondatore di Formazione Giuridica, scuola d’eccellenza nella preparazione all’esame forense presente su tutto il territorio nazionale. Docente e formatore in venti città italiane, Ph.D., autore di oltre quattrocento contributi diretti alla preparazione dell’Esame di Stato. È l’ideatore del sito wikilaw.it e del gestionale Desiderio, il più evoluto sistema di formazione a distanza per esami e concorsi pubblici. È Autore della collana Esame Forense.
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Note
[1]Ai sensi del quale: “1. E’ punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, non presenta, essendovi obbligato, una delle dichiarazioni relative a dette imposte, quando l’imposta evasa e’ superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte ad euro cinquantamila. 1-bis. E’ punito con la reclusione da due a cinque anni chiunque non presenta, essendovi obbligato, la dichiarazione di sostituto d’imposta, quando l’ammontare delle ritenute non versate e’ superiore ad euro cinquantamila. 2. Ai fini della disposizione prevista dai commi 1 e 1-bis non si considera omessa la dichiarazione presentata entro novanta giorni dalla scadenza del termine o non sottoscritta o non redatta su uno stampato conforme al modello prescritto”.
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