Arbitrato senza fini deflattivi

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1. Gli strumenti deflattivi del contenzioso giudiziario

Nel linguaggio, non solo giuridico, è entrato prepotentemente in uso il termine “degiurisdizionalizzazione” con riferimento alla possibilità di definire le controversie civili e commerciali ricorrendo a strumenti alternativi alla giurisdizione ordinaria.
Nell’intento di deflazionare il carico giudiziario, il legislatore si è oltremodo preoccupato di individuare meccanismi che, in via preventiva, potessero evitare l’insorgere del contenzioso piuttosto che ricercare o rafforzare strumenti già previsti nel nostro ordinamento per la definizione delle controversie civili e commerciali.
Dapprima, sulla scia della direttiva comunitaria n.2008/52/CE del 21.05.2008, (invero concepita per le sole controversie c.d. transfrontaliere), con il decreto legislativo 04.03.2010 n.28 è stato introdotto l’istituto della mediazione finalizzata alla conciliazione delle controversie civili e commerciali.
Una soluzione molto dibattuta, in particolare per la previsione della obbligatorietà.
Infatti, la Corte Costituzionale, con sentenza 6 dicembre 2012, n. 272, dichiarava l’illegittimità, per eccesso di delega legislativa, dell’art. 5, primo comma, del D.Lgs. 4 marzo 2010, n. 28, istitutivo della mediazione nelle controversie civili e commerciali, laddove si prevedeva il carattere obbligatorio della media-conciliazione (l’art.60 della legge-delega n. 69/2009, in attuazione della direttiva europea 52/2008, non parlava di obbligatorietà della mediazione, ma il Governo emanò il decreto legislativo n. 28/2010 prevedendone, appunto, l’obbligatorietà). L’obbligatorietà della mediazione è stata reintrodotta con il decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 (poi convertito dalla legge 9 agosto 2013, n. 98).
Invero l’istituto pare non abbia attecchito così come era nelle intenzioni del legislatore e permangono molte perplessità sulla efficacia della mediazione obbligatoria, avallata dalla recente giurisprudenza di merito che ne ha definito ulteriormente i contorni in relazione alla introduzione ed all’esperibilità effettiva inasprendone le conseguenze in termini di sanzioni processuali fino alla improcedibilità della domanda in sede giudiziale, come vedremo.
E’ indubbio che la mediazione imposta come condizione di procedibilità non ha portato ai risultati che il legislatore si aspettava, come si può agevolmente riscontrare dalle relazioni redatte dalle Corti di Appello in occasione dell’inaugurazione dell’anno giudiziario 2017.
Le incertezze sulla diffusione e sull’applicazione dello strumento della media-conciliazione, spesso concepito come una mera formalità, peraltro dilatoria rispetto alla sede “naturale” per far valere i diritti, avrebbero dovuto indurre il legislatore a rivisitare l’istituto, quanto meno riesaminando la questione l’obbligatorietà.
Non a caso l’art.5 comma 1 bis del decreto legislativo n.28 del 2010, introdotto con l’intervento legislativo del 2013 di cui si è detto, aveva previsto una efficacia temporale di quattro anni della disposizione sulla condizione di procedibilità della mediazione per le materie considerate (condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con
altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari).
Su iniziativa del Ministero della Giustizia si sarebbe dovuto effettuare un monitoraggio biennale sugli esiti della sperimentazione della mediazione obbligatoria per deciderne le sorti.
Nonostante l’esito non certo positivo dello strumento, nella relazione redatta dalla Commissione nominata dal Ministero della Giustizia per il monitoraggio quadriennale, vengono proposte modifiche dirette ad imporre sempre di più l’istituto della mediaconciliazione: ad esempio, si vuole introdurre la c.d. clausola multistep con cui le parti si obbligano, in caso di controversia futura, ad esperire la mediazione ed, in caso di esito negativo, la procedura arbitrale; si vuole estendere l’obbligatorietà della mediazione ad altre materie come i contratti di subfornitura di franchising, di leasing mobiliare non finanziario, rapporti sociali inerenti le società di persone. Si vuole altresì, tra l’altro, procrastinare la efficacia temporale della disposizione concernente l’obbligatorietà al 21 settembre 2023, aumentare le spese di avvio a scaglioni, introdurre il patrocinio a spese dello stato.
Dopo la media-conciliazione, il decreto legge 12.09.2014 n.132, intitolato “misure urgenti di  degiurisdizionalizzazione ed altri interventi per la definizione dell’arretrato in materia di processo civile”, convertito con modificazioni nella legge 10.11.2014 n.162, ha introdotto l’istituto della negoziazione assistita che è stato un passo in avanti rispetto alla mediazione esaltando il ruolo degli avvocati nella fase pregiudiziale.
In quest’ultimo provvedimento, il legislatore, tra le misure dirette alla degiurisdizionalizzazione del  contenzioso ha ricompreso anche l’istituto dell’arbitrato, già disciplinato nel titolo VIII del libro IV del codice di procedura civile agli artt. 806 e seguenti.
L’istituto, però, è stato considerato al solo e precipuo fine di eliminare l’arretrato del contenzioso in sede giurisdizionale mediante trasferimento delle controversie in sede arbitrale.
L’arbitrato è stato utilizzato dal legislatore come una sorta di rimedio residuale che le parti, in accordo tra loro, avrebbero potuto utilizzare, finanche in appello.
Lo strumento, così concepito, ha avuto scarso appeal perché difficilmente le parti in causa, dopo anni di contenzioso giudiziario ed esborsi ingenti per spese processuali, avrebbero optato per l’arbitrato, strumento di per sé già oltremodo costoso.
L’intento deflattivo del legislatore attraverso l’utilizzazione dell’arbitrato è fallito.
I positivi risultati in termini di riduzione dell’arretrato nel civile, laddove raggiunti, sono stati ottenuti nella impostazione del lavoro degli uffici giudiziari con criteri di calendarizzazione delle cause da decidere quali quello della assoluta priorità per i procedimenti di più risalente iscrizione, con il c.d. piano “Strasburgo 2”, e non certo per l’introduzione della possibilità di trasferire in sede arbitrale le controversie giudiziarie pendenti, come risulta dalla relazione sull’amministrazione della giustizia dell’anno 2015 sul sito web del
ministero.

2. L’arbitrato procedimento della giurisdizione ordinaria

Il legislatore ha voluto inserire in chiave alternativa e deflattiva rispetto alla giurisdizione, l’arbitrato che, invero, non può essere annoverato tra le c.d. adr (alternative dispute resolution) avendo una sua autonoma qualificazione giuridica ed una diversa funzione.
L’arbitrato non nasce dall’emergenza e non appare un istituto alternativo rispetto alla giurisdizione ordinaria.
C’è una ragione di carattere sistematico ed è la collocazione dell’arbitrato nel libro quarto del codice di procedura civile tra i procedimenti speciali.
I titoli del libro quarto del codice di procedura civile concernono procedimenti che sono speciali rispetto al giudizio di cognizione ordinaria ma che rientrano tutti nell’esercizio della giurisdizione.
Tra i procedimenti speciali il titolo VIII del Libro IV del codice di procedura civile prevede l’arbitrato rituale.
Occorre ricondurre l’istituto dell’arbitrato alla sua funzione originaria evitando di accomunarlo ad altri strumenti aventi esclusivamente finalità deflattive della giurisdizione.
L’arbitrato costituisce non una alternativa ma un procedimento della giurisdizione nel momento in cui matura il contenzioso.
La mediazione e la negoziazione attengono, invece, ad una fase preliminare che è comune e comunque, laddove obbligatoria, necessariamente prodromica rispetto al contenzioso giurisdizionale tra cui rientra anche quello arbitrale.
L’arbitrato rituale condivide con la giurisdizione il tratto peculiare del “giudicare”: la lite viene decisa ed il lodo, alla pari della sentenza, è un atto riferibile ad un terzo quale esercizio di un giudizio che diventa vincolante per le parti compromittenti.
In questo senso, il procedimento arbitrale è equiparabile e rientra nella giurisdizione ordinaria.
La Corte costituzionale, nel riconoscere agli arbitri rituali la possibilità di sollevare questioni di legittimità costituzionale, aveva descritto l’arbitrato come «procedimento previsto e disciplinato dal codice di procedura civile per l’applicazione obiettiva del diritto nel caso concreto, ai fini della risoluzione di una controversia, con le garanzie di contraddittorio e di imparzialità tipiche della giurisdizione civile ordinaria», concludendo nel senso che – sotto questo punto di vista – «il giudizio arbitrale non si differenzia da quello che si svolge davanti agli organi statali della giurisdizione» (Corte cost., 28 novembre 2001, n. 376).
L’equipollenza del risultato porta a valorizzare l’autonomia delle parti, libere di scegliere uno strumento per la risoluzione del loro conflitto nell’ambito della giurisdizione mediante l’arbitrato che è un procedimento speciale del codice di procedura civile.
Il legislatore, con l’art.23 del d.lgs. 2.2.2006 n.40, ha inserito nel codice di procedura civile l’art. 824-bis, che ha riconosciuto al lodo «dalla data della sua ultima sottoscrizione tutti gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria», salvo quelli della esecutorietà a dichiararsi invece dal tribunale ai sensi e per gli effetti dell’art.825 c.p.c..
Questa norma rappresenta, forse, l’aspetto più innovativo di tutta la riforma dell’arbitrato poiché ha sostituito l’art. 823, ult. co., dando attuazione alla legge delega che conteneva una precisa direttiva a favore della equiparazione del lodo alla decisione del giudice ordinario.
Per poter comprendere al meglio la portata innovativa dell’art. 824 bis bisogna ripercorrere la disciplina previgente.
L’articolo 2 della legge 09.02.1983 n. 28, allo scopo di facilitare il riconoscimento dei lodi italiani all’estero, aveva eliminato la necessità della previa omologazione in Italia e nel contempo aveva aggiunto un nuovo comma all’art. 823 che riconosceva al lodo efficacia vincolante tra le parti dalla data dell’ultima sottoscrizione. Allo stesso tempo veniva abrogata la norma che prevedeva l’obbligo degli arbitri di depositare il lodo nel termine perentorio di cinque giorni dalla sottoscrizione, stabilendo al contrario che al
deposito si poteva procedere nel termine perentorio di un anno dalla consegna.
La nuova disciplina portò a far discutere in ordine al significato da attribuire alle parole «efficacia vincolante tra le parti » del lodo.
A tal proposito, la giurisprudenza individuava nel lodo, non munito del decreto di esecutività, un negozio stipulato tra le parti.
A tale opinione si contrapponeva una parte della dottrina, che ravvisava nel lodo arbitrale non omologato gli stessi effetti di accertamento ed eventualmente costituitivi, propri della decisione giudiziaria.
Successivamente, interveniva la L. 5.1.1994, n. 25, la quale abrogava la disposizione secondo cui il decreto di esecutorietà conferiva al lodo «efficacia di sentenza», eliminando altresì la previsione di un termine per il deposito.
Conseguentemente, l’efficacia vincolante riconosciuta al lodo sin dal giorno della sua ultima sottoscrizione non era destinata a cambiare per effetto dell’esecutorietà.
La riforma del 1994 faceva sorgere in dottrina il problema se equiparare l’efficacia vincolante riconosciuta al lodo ab origine a quello di una sentenza, ovvero a quella di un negozio.
L’art.824 bis c.p.c., aggiunto dall’art.23 del d.lgs. n.40/2006 ha chiarito definitivamente il principio che «salvo quanto disposto dall’articolo 825, il lodo ha dalla data della sua ultima sottoscrizione gli effetti della sentenza pronunciata dall’autorità giudiziaria»
sgomberando il campo da ogni equivoco.
In questo senso si sono recentemente espresse le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, le quali hanno ritenuto che l’arbitrato abbia natura giurisdizionale e sostitutiva della funzione del giudice ordinario (Ordinanza Cass. Civ. SS.UU. 25.10.2013 n. 24153).
Di recente la Cassazione si è espressa in tal senso specificando ulteriormente che gli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta dinanzi al giudice statale, in caso incompetenza di quest’ultimo, si conservano dinanzi all’organo arbitrale (Cassazione 21.01.2015 n.1101).
Anche la Corte costituzionale ha dichiarato l’illegittimità dell’art. 819-ter nella parte in cui non consente la salvezza degli effetti sostanziali e processuali della domanda proposta al giudice o all’arbitro in caso di declinatoria di competenza con conseguente necessità di introdurre il giudizio di fronte all’organo munito di “potestas iudicandi” (Corte costituzionale 19 luglio 2013, n. 223).
La configurabilità dell’arbitrato rituale come procedimento speciale della giurisdizione, rientrante tra quelli di cui al libro IV del codice di procedura civile, dovrebbe portare ad escludere la obbligatorietà della media-conciliazione o della negoziazione assistita per tutte le controversie che vengano compromesse in arbitri.
La peculiarità dello strumento arbitrale e la composizione dell’organo giudicante fuori dall’apparato giudiziario sono elementi che il legislatore non può trascurare anche e soprattutto nell’ottica deflattiva dei provvedimenti emergenziali di questi ultimi anni.
Non ha senso, quindi, imporre la media-conciliazione o la negoziazione assistita come condizione di procedibilità per le controversie compromettibili in arbitri.
Nel momento in cui le parti litiganti convengono per la risoluzione arbitrale della controversia, l’effetto deflattivo del carico giudiziario è in re ipsa già nella scelta dello strumento.
Piuttosto la esclusione della condizione di procedibilità per le controversie arbitrali potrebbe avere l’effetto di incentivare il ricorso allo strumento arbitrale che sarebbe “alternativo” in questo senso.
Si può, in definitiva, affermare che l’arbitrato può essere visto in funzione sostitutiva piuttosto che alternativa rispetto alla giurisdizione ordinaria, come confermato dalla recente giurisprudenza della Cassazione.
Anche secondo la dottrina più autorevole l’arbitrato costituisce uno strumento sostituivo alla giurisdizione ordinaria, ancora di più dopo le riforme, apportate all’istituto, del 1983 e del 1994, ed ora ancora maggiormente in seguito alla riforma del 2006.
Infatti in seguito a tale modifiche l’atto con cui si introduce il giudizio di arbitrato è totalmente equiparato all’atto di citazione introduttivo del processo ordinario e lo stesso lodo, come già detto, è equiparato, quanto all’efficacia, alla sentenza.

3. Arbitrato e mediazione

Una problematica che vale la pena di affrontare anche in questa sede concerne il rapporto tra la mediazione e l’arbitrato.
Nelle materie concernenti condominio, diritti reali, divisione, successioni ereditarie, patti di famiglia, locazione, comodato, affitto di aziende, risarcimento del danno derivante da responsabilità medica e sanitaria e da diffamazione con il mezzo della stampa o con altro mezzo di pubblicità, contratti assicurativi, bancari e finanziari, nel caso di controversia, ove si voglia esercitare in giudizio la relativa azione, in virtù di quanto previsto dall’art.5 co.1 e co.1 bis del decreto legislativo 04.03.2010 n.28, è necessario
preliminarmente ed obbligatoriamente esperire la media-conciliazione?
Come si può agevolmente rilevare, non vi è alcun riferimento all’arbitrato.
Sia il comma 1 che il comma 1 bis dell’art.5 del d.lgs. n.28/2010 prevedono espressamente che “l’esperimento del procedimento di mediazione è condizione di procedibilità della domanda giudiziale” e non del procedimento arbitrale.
Entrambi i commi poi disciplinano i termini per eccepire l’improcedibilità dinanzi al giudice (e non  all’arbitro) ed i poteri del giudice medesimo che rimette le parti dinanzi all’organismo di mediazione rinviando l’udienza per consentire alle parti l’espletamento del tentativo di mediazione.
Per le materie indicate al comma 1 ed al comma 1 bis, quindi, la condizione di procedibilità vale solo per il caso in cui si eserciti l’azione giudiziaria e non il procedimento arbitrale.
Nel comma 5 dell’art.5 del d.lgs. n.28/2010 viene stabilito che “fermo quanto previsto dal comma 1 bis e salvo quanto disposto dai commi 3 e 4, se il contratto, lo statuto ovvero l’atto costitutivo dell’ente prevedono una clausola di mediazione o conciliazione e il tentativo non risulta esperito, il giudice o l’arbitro, su eccezione di parte, proposta nella prima difesa, assegna alle parti il termine di quindici giorni per la presentazione della domanda di mediazione e fissa la successiva udienza dopo la scadenza del termine di cui
all’articolo 6. Allo stesso modo il giudice o l’arbitro fissa la successiva udienza quando la mediazione o il tentativo di conciliazione sono iniziati, ma non conclusi”.
Solo in quest’ultima disposizione, che si riferisce alle clausole di mediazione o conciliazione e non alla mediazione obbligatoria, compare la figura dell’arbitro e viene prevista la possibilità che anche quest’ultimo, su eccezione di parte (e non di ufficio) debba rinviare il procedimento per consentire l’espletamento del procedimento di mediazione.
Il legislatore, quindi, non ha previsto che la mediazione debba essere considerata obbligatoria e quindi condizione di procedibilità per l’espletamento del procedimento arbitrale se non nei casi in cui sorga controversia in ordine a rapporti derivanti da contratti, statuti o atti costitutivi contenenti clausole di mediazione, così intendendo graduare il ricorso agli strumenti di risoluzione alternativa.
Un argomento a favore della tesi appena esposta lo si deduce dalla circostanza che nel testo vigente dell’art. 5, Dlgs 28/2010 rispetto allo schema approvato alla fine di ottobre 2009 dal Consiglio dei Ministri, è stato stralciato il comma 7 in base al quale era previsto che “le disposizioni che precedono si applicano anche ai procedimenti davanti agli arbitri, in quanto compatibili”.
L’eliminazione del comma 7, condivisa anche da CNF e CSM nella stesura definitiva del decreto legislativo n.28/2010, è sintomatica della esclusione dell’applicabilità dell’art.5 all’arbitrato, quanto meno con riferimento ai commi 1 e 1 bis in cui non è espressamente richiamato.
Un ulteriore elemento di carattere testuale a dimostrazione della non applicabilità de plano delle disposizioni sulla mediazione all’arbitrato si rinviene dall’art.13, comma 3, del d.lgs. n.28/2010 che esclude che possa essere applicato ai procedimenti arbitrali il regime delle spese di giudizio che segue ad un mancato accordo in mediazione, salvo diverso accordo delle parti.
Ed, infine, va considerato un elemento di carattere sistematico che porterebbe ad escludere la applicabilità delle norme della mediazione di cui ai commi 1 e 1 bis dell’art.5 del d.lgs. n.28/2010 ai procedimenti arbitrali: il procedimento arbitrale rientra tra i procedimenti speciali di cui al libro IV del codice di procedura civile per i quali la mediazione viene esclusa dai commi 3 e 4 dello stesso art.5.
Un altro argomento a favore della tesi della non obbligatorietà della mediazione in caso di ricorso allo strumento arbitrale, si desume dal procedimento istituito in attuazione dell’art. 128-bis del testo unico delle leggi in materia bancaria e creditizia di cui al d.lgs. 385/1993.
Tali procedimenti di risoluzione delle controversie in materia bancaria e finanziaria, previsti innanzi all’Arbitro Bancario Finanziario (ABF) ed alla Camera di Conciliazione ed Arbitrato presso la Consob, vanno considerati come pienamente alternativi al procedimento di mediazione.

4. L’arbitrato immobiliare

Controversie condominiali.
La controversia in merito alla impugnazione della delibera assembleare puo essere oggetto di arbitrato?
L’istituto dell’arbitrato, disciplinato dagli artt. 806 e ss c.c., costituisce uno strumento privato di risoluzione delle controversie, alternativo rispetto alla giurisdizione ordinaria.
Come innanzi osservato, la Corte Costituzionale si è pronunciata sulla legittimità costituzionale dell’istituto escludendo una violazione dell’art. 102 Cost., che riserva ai magistrati ordinari la funzione giurisdizionale, per due ordini di ragioni: sia perché è sempre un giudice ordinario che conferisce alla pronuncia arbitrale (lodo) efficacia esecutiva uguale a quella di una sentenza (exequatur) sia perché la volontà concorde delle parti può derogare al monopolio statale della giustizia.
L’art.806 c.p.c., nell’individuare la fonte dell’arbitrato nel compromesso, nella clausola compromissoria e nella convenzione di arbitrato in materia non contrattuale, specifica come detto istituto possa essere utilizzato solo quando la controversia abbia ad oggetto diritti disponibili.
In particolare l’art. 808 c.p.c. rubricato “clausola compromisso-ria” prevede la possibilità per le parti contrattuali di inserire nel medesi-mo contratto o in un atto separato, una clausola al fine di impegnarsi in via preventiva, ad affidare ad arbitri la risoluzione delle eventuali controversie scaturenti dal contratto stesso.
In materia condominiale, atteso che il regolamento contrattuale è un atto che si perfeziona con il consenso o accettazione unanime di tutti i partecipanti al condominio, indipendentemente che l’iniziativa di predisporlo sia stata assunta dall’assemblea condominiale o costruttore-venditore, nulla vieta che possa contenere al suo interno una clausola compromissoria al fine di devolvere ad arbitri la soluzione di eventuali controversie condominiali.
Sebbene sul tema della legittimità della clausola compromissoria inserita in un regolamento contrattuale ci siano state in passato
pronunce di merito discordanti, i dubbi sono stati fugati dalla giurisprudenza di legittimità che in maniera unanime ha sottolineato come lo stesso art. 1137 c.c., secondo comma, c.c. nel riconoscere ad ogni condomino dissenziente la facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria avverso le deliberazioni dell’assemblea del condominio, non pone una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario e, quindi, non esclude la compromettibilità in arbitri di tali controversie, le quali d’altronde, non rientrano in alcuno
dei divieti sanciti dagli artt. 806 e 808 c.p.c..
Deve pertanto ritenersi valida la norma del regolamento condominiale relativa al deferimento ad arbitri del ricorso contro le deliberazioni assembleari viziate da nullità o annullabilità, senza che rilevi in contrario, in relazione alla tutela assicurata dall’ art. 1137 citato, l’impossibilità per gli arbitri di sospendere la esecuzione della delibera impugnata, sempre invocabile dinanzi al giudice ordinario, né la prevista rimessione della nomina di uno degli arbitri al condominio, la cui inerzia è superabile con ricorso al presidente del tribunale competente ex art. 810, 2° comma, c.p.c..
Sebbene il ricorso al giudizio arbitrale presenta incontestabili vantaggi sotto il profilo della celerità, della preparazione tecnica delle persone incaricate di decidere la controversia, e dell’accettazione della decisione emessa da tutte le parti (tenuto conto che sono proprio le parti a scegliere liberamente gli arbitri), esistono, tuttavia, inconvenienti legati agli eccessivi costi e la rischio di una non effettiva imparzialità del giudizio.
Il ricorso a strumenti di risoluzione alternativa delle controversie ed, in particolare alla negoziazione assistita ed all’arbitrato, che da ultimo hanno trovato collocazione anche nella legge di stabilità nella previsione del credito di imposta fino a 250 euro per i compensi pagati agli avvocati o agli arbitri, è auspicabile attese le difficoltà in cui versa la giurisdizione ordinaria, i cui costi sono sempre più proibitivi ed i tempi sempre più lunghi per arrivare alla decisione.
Una recente sentenza del Tribunale di Milano (n. 12843 del 16 novembre 2015) ribadisce che, se il  regolamento contrattuale di un condominio lo prevede, le controversie che insorgono fra condomini o tra essi e l’amministratore, devono essere sottoposte al giudizio di uno o più arbitri e non a quello del giudice ordinario.
Il tribunale di Milano ha dichiarato improponibile l’impugnativa avanzata da un condomino riguardante la richiesta di annullamento di una delibera assembleare avente per oggetto «l’approvazione del rendiconto consuntivo relativo al piano di ripartizione e saldi finali dei condomini”.
Nel caso specifico, risultava documentalmente provato che il regolamento condominiale predisposto dall’originario costruttore fosse di natura contrattuale, in quanto allegato al rogito d’acquisto, e prevedeva che tutte le controversie insorgenti tra i condomini e tra essi e l’amministratore, sia per l’interpretazione della legge che per il presente regolamento, dovevano essere sottoposte a uno o tre arbitri.
Era, pertanto, improponibile qualsiasi domanda formulata dinanzi alla magistratura ordinaria, se nel regolamento contrattuale (che a differenza di quello assembleare era approvato con il consenso unanime di tutti i proprietari) i condomini si erano impegnati a sottoporre le loro liti “al giudicato di un collegio di arbitri amichevoli”.
Il meccanismo alternativo dell’arbitrato, che si pone l’obiettivo di snellire il lavoro dei tribunali e velocizzare la risoluzione delle controversie, è previsto dall’articolo 806 del Codice di procedura civile e si rifà alla cosiddetta “clausola compromissoria”, che i condòmini possono, appunto, inserire nel regolamento contrattuale.
Attraverso soggetti terzi quali gli arbitri, le parti sottraggono al giudice ordinario la decisione su una determinata controversia, affidandola a privaticittadini che essi stessi hanno incaricato di risolvere la questione.
Anche il Tribunale di Taranto, con sentenza del 30.01.2014, aveva ribadito che, in materia di impugnativa di delibere condominiali potesse trovare applicazione la possibilità di deferire ad arbitri anche la controversia concernente l’impugnativa di delibere condominiali ex art. 1137 c.c., riprendendo il principio della Cassazione (sentenza n.3406 del 05.06.1984) secondo cui l’art. 1137 comma 2 c.c., nel riconoscere ad ogni condomino dissenziente la facoltà di ricorrere all’autorità giudiziaria avverso le deliberazioni dell’assemblea del condominio, non pone una riserva di competenza assoluta ed esclusiva del giudice ordinario e,
quindi, non esclude la compromettibilità in arbitri di tali controversie, le quali, d’altronde, non rientrano in alcuno dei divieti sanciti dagli art. 806 e 808 c.p.c..
Controversie in materia locatizia.
La materia locatizia può essere devoluta alla cognizione degli arbitri riguardando diritti disponibili, considerato altresì che l’arbitrato, rituale o irrituale, costituisce espressione dell’autonomia negoziale delle parti e rinviene il suo fondamento nel potere delle stesse parti di disporre dei diritti soggettivi rinunciando alla giurisdizione ed all’azione giudiziaria (Trib. Firenze, 25/05/2015).
La speciale sanatoria della morosità del conduttore, disciplinata dall’art. 55 della legge 27 luglio 1978, n. 392, per le sole locazioni abitative di immobili urbani, si applica, oltre che nel procedimento di convalida di sfratto, anche quando la domanda di risoluzione contrattuale sia stata introdotta in via ordinaria, ovvero sia stata deferita agli arbitri (Cass. civ. Sez. I, 15/10/2014, n. 21836).
Rinuncia implicitamente alla clausola compromissoria la parte che instaura un giudizio sommario finalizzato ad ottenere un’ordinanza di sfratto per morosità chiedendo contestualmente, nel merito, la risoluzione del contratto di locazione per inadempimento. Cass. civ. Sez. I, 07/07/2014, n. 15452
In mancanza di un’esplicita manifestazione di volontà a che il lodo produca effetti negoziali, anziché di sentenza, deve ritenersi che le parti abbiano inteso prevedere il residuale e generale deferimento all’arbitrato rituale. Quest’ultimo, mentre deve ritenersi inammissibile con riferimento alla fase sommaria del procedimento per convalida di sfratto (appartenente alla competenza inderogabile del tribunale) è, invece, applicabile alla fase di merito che consegue al mutamento del rito (Trib. Modena Sez. II Ord.,
19/03/2007).
In caso di cessione del contratto, la clausola compromissoria non si trasmette al cessionario se non con il consenso espresso di tutti e tre i soggetti coinvolti, poiché il negozio compromissorio è dotato di una propria autonomia rispetto al rapporto sostanziale. In mancanza di un accordo specifico né il cessionario né il ceduto possono invocare la suddetta clausola. Quando invece il contraente ceduto rimane estraneo al trasferimento della posizione contrattuale, come nel caso di cessione “ex lege” del contratto di locazione, questi può opporre la clausola compromissoria, analogamente a quanto accade per il debitore ceduto in tema di cessione del credito (Trib. Genova, 25/01/2006)
La dottrina in prevalenza, seguita da una giurisprudenza pressocché unanime, ritiene che il divieto per gli arbitri di conoscere in via sommaria a fini cautelari includa anche quello di provvedimenti volti alla anticipazione del risultato conseguibile altrimenti ad esito di un giudizio ordinario o tesi alla rapida formazione di titoli esecutivi. Gioca, nella definizione del limite negativo dell’arbitrato, anche la forma/contenuto del provvedimento, nel senso che l’equivalenza lodo/sentenza porterebbe ad escludere l’applicabilità della decisione arbitrale a procedimenti destinati a concludersi con provvedimenti diversi dalla sentenza, quindi ordinanze o decreti.

Alessandro Moscatelli

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