L’integrale falsificazione della polizza e del contrassegno assicurativo, per effetto dell’abrogazione dell’art. 485 c.p., è ancora sanzionabile penalmente?

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Come è noto, la Cassazione ha affermato in diverse pronunce che, in “tema di reato di frode in assicurazione, l’integrale falsificazione della polizza e del contrassegno assicurativo, siccome impedisce l’instaurazione del rapporto tra l’autore della condotta tipica e la compagnia di assicurazione, rende l’azione inidonea a ledere il bene protetto dalla norma incriminatrice, potendosi però configurare, in ordine a tale condotta, il delitto di falsità in scrittura privata”[1]. In particolare, la Corte è addivenuta a formulare siffatto principio di diritto in quanto se il reato di cui all’art. 642 c.p. richiede che “tra le parti sussista o sia almeno sussistito (come si può supporre in ipotesi di alterazione della data di scadenza) un valido rapporto contrattuale”[2], nel caso appena menzionato, invece, “non esiste un contratto di assicurazione, perchè l’integrale falsificazione della polizza e del contrassegno non ha determinato alcun rapporto tra l’autore (o l’utilizzatore) del documento falsificato e la compagnia di assicurazione, il reato in parola non è configurabile, per l’inidoneità dell’azione a ledere il bene protetto”[3]. Pertanto, “il vantaggio, che finalisticamente è collegato all’azione della falsificazione, è quello derivante dalla circolazione senza copertura assicurativa (cfr. in senso conforme, sia pure per la diversa contestazione di tentata truffa, Cass. Sez. 2, 3-12.10.2006 n. 34179) e quindi del tutto eccentrico rispetto a quello preso in considerazione dal legislatore, che lo collega all’esistenza di un contratto di assicurazione (perchè il vantaggio deve essere “derivante” da un contratto di assicurazione)”[4].

 

Il problema di una diversa qualificazione giuridica penale per effetto dell’abrogazione dell’art. 485 c.p.

Orbene, posto ciò, si pone il problema di capire se tale fattispecie possa assurgere ancora al rango di fatto penalmente rilevante dopo che l’art. 485 c.p. è stato abrogato per effetto dell’art. 1 del d.lg. 15 gennaio 2016, n. 7. Il tema è dunque di capire se un fatto di questo genere possa essere soggetto ad una diversa qualificazione giuridica che consenta di considerarlo ancora un illecito penale.

 

Uso di atto falso – ricettazione

Va innanzitutto osservato come non si potrebbe utilizzare la previsione incriminatrice di cui all’art. 489 c.p. dato che non è più vigente, sempre per effetto del decreto legislativo summenzionato, il comma secondo di questo articolo il quale prevedeva che, qualorasi tratti di scritture private, chi commette il fatto è punibile soltanto se ha agito al fine di procurare a sé o ad altri un vantaggio o di recare ad altri un danno”. Tra l’altro, non potrebbe ricorrersi al primo comma che, come è risaputo, statuisce che chiunque, “senza essere concorso nella falsità, fa uso di un atto falso soggiace alle pene stabilite negli articoli precedenti, ridotte di un terzo” giacchè, ad avviso di chi scrive, detta norma si riferisce alle falsità penalmente rilevanti. Quanto appena esposto trova difatti conferma, da un lato, alla luce del principio di tassatività e il divieto di analogia dato che interpretare diversamente questo dettato normativo comporterebbe una sua applicazione che travalicherebbe i margini interpretativi che contraddistinguono questo precetto di legge il quale, stante il suo chiaro tenore letterale, richiede che il soggetto non abbia concorso nella falsità vale a dire che questi non abbia partecipato, a norma dell’art. 110 c.p., alla commissione di un illecito penale, dall’altro, in virtù di quell’orientamento nomofilattico che, nell’affermare che non risponde di questo delitto colui che abbia commesso il reato di falsità[5], lascia chiaramente intendere, argomentando a contrario, che risponde di uso di atto falso solo chi non ha commesso un reato di falso e non un illecito civile, seppur inerente ad un analogo fatto. Lo stesso ragionamento giuridico dovrebbe ricorrere anche per il delitto di ricettazione. Infatti, anche per questa ipotesi delittuosa, non vi sarebbe più una cosa proveniente da delitto; del resto, anche in precedenza, la Cassazione aveva espressamente affermato che la “falsificazione materiale del contrassegno assicurativo relativo alla responsabilità civile degli autoveicoli commessa da un soggetto privato che ne faccia uso mediante esibizione sull’autovettura, integra gli estremi del reato di falsità in scrittura privata, ma non quello di ricettazione”[6].

 

Truffa

Esclusa le ipotesi di reato appena esaminate, un’altra norma incriminatrice, che potrebbe essere presa ipoteticamente in considerazione, è l’art. 640 c.p. che, come è risaputo, prevede il delitto di truffa. La possibilità, che un inquadramento giuridico di questo tipo sia configurabile, appare possibile sebbene difficilmente configurabile da un punto di vista pratico, oltre che teorico.

 

La falsità come artificio nel delitto di truffa

Nel tentare di configurare un tale comportamento come reato di truffa, non dovrebbe innanzitutto ritenersi fattore ostativo il fatto che si tratti di un falso ben potendo la falsificazione costituire un artificio per commettere la truffa[7]. Residuerebbe l’ipotesi di falso grossolano che impedirebbe la configurabilità di questo delitto dato che, allorchè “l’agente si proponga di realizzare una truffa attraverso la produzione di atti falsificati, solo in presenza di un falso grossolano – ontologicamente inidoneo a svolgere erga omnes una qualsivoglia funzione decettiva – può dirsi sussistente la inidoneità assoluta, ex ante, dell’atto a trarre in inganno e realizzare, quindi, la frode cui il falso era preordinato”[8]. Tuttavia, dato che la massima menzionata in precedenza allude ai soli casi di falsità integrale e non a quelli di falsi grossolani, nulla esclude, ad avviso di chi scrive, che, almeno in linea teorica, una falsità integrale possa rilevare, a norma dell’art. 640 c.p., nella misura in cui non sia per l’appunto grossolana.

 

L’atto di disposizione patrimoniale – l’ingiusto profitto con l’altrui danno

Anche a voler ritenere risolto tale primo profilo di criticità, ve ne sarebbe un altro da affrontare, ossia quello inerente l’atto di disposizione patrimoniale. Infatti, la Corte di Cassazione ha evidenziato che “nella struttura della truffa, secondo il suo schema tradizionale, sarebbe presente, come requisito implicito, quello dell’atto di disposizione patrimoniale, quale elemento intermedio derivante dall’errore e causa dell’ingiusto profitto con altrui danno”[9] e quindi, ove un’autorità amministrativa applichi una penalità amministrativa, “l’autorità che irroga la sanzione in nessun modo compie un atto che possa essere riguardato come disposizione di carattere negoziale incidente sul patrimonio della amministrazione rappresentata, nè, tantomeno, sul patrimonio del trasgressore, ma pone in essere un atto autoritativo di tipo “ablatorio” che costituisce manifestazione tipica dell’esercizio di uno specifico e tipizzato munus, quale è quello di applicare sanzioni”[10]. Si potrebbe però fornire, seppur con tutte le difficoltà interpretative del caso, una diversa chiave di lettura della fattispecie qui considerata e di conseguenza rivalutare, escludendo la sua applicabilità nella fattispecie in esame, questo approdo ermeneutico. Se infatti in quell’occasione venne affermato questo principio di diritto alla luce del fatto che il “delitto di truffa esige un atto di disposizione patrimoniale, che manca nelle ipotesi in cui gli artifici o i raggiri siano posti in essere al fine di evitare una sanzione amministrativa”[11] dato che non vi è una frode che ha “la conseguenza di indurre il soggetto passivo a compiere un atto di disposizione patrimoniale di natura privatistica”[12], si potrebbe però sostenere che gli artifici e i raggiri possono essere intensi non solo, e non tanto, per eludere una sanzione amministrativa, ma anche e soprattutto per evitare di pagare il canone assicurativo ove la polizza assicurativa, e il relativo contrassegno, fossero stati invece veritieri e fosse stato pertanto stipulato un regolare contratto di assicurazione. In questo caso, però, si porrebbe l’ulteriore problema di capire se e come sia rintracciabile un atto dispositivo che ad una prima analisi sembra essere del tutto insussistente. A questo riguardo, si potrebbe provare a sostenere come la condotta della vittima, non debba essere necessariamente commissiva, ma anche omissiva. In altri termini, si potrebbe affermare che il danno potrebbe essere ravvisato nel fatto che taluno, usando un contrassegno assicurativo falso, abbia potuto circolare liberamente, senza però provvedere a pagare il canone che avrebbe dovuto effettuare se invece si fosse davvero assicurato. In effetti, la Cassazione ha postulato che, nel “delitto di truffa il danno della vittima può realizzarsi non soltanto per effetto di una condotta commissiva, bensì anche per effetto di un suo comportamento omissivo, nel senso che essa, indotta in errore, ometta di compiere quelle attività intese a far acquisire al proprio patrimonio una concreta utilità economica, alla quale ha diritto e che rimane invece acquisita al patrimonio altrui”[13]. Di conseguenza se “il senso riposto dell’atto di disposizione è che il danno deve potersi imputare ad un’azione che viene svolta all’interno della sfera patrimoniale aggredita, causata da errore e produttiva di danno e ingiusto profitto, il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione della vittima non deve necessariamente riposare nella sua qualificabilità in termini di atto negoziale e neppure di atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a produrre danno”[14]. Nel caso di specie, sembra essere evidente l’idoneità dei un contrassegno assicurativo falso ad arrecare un danno alla compagnia assicurativa consistente, come già esposto prima, nel mancato pagamento del canone assicurato che sarebbe spettato a questa società se questo contrassegno fosse stato vero e il contestuale guadagno che l’autore del falso ha conseguito risparmiando quanto avrebbe dovuto invece versare. A questo proposito, si ritiene come dovrebbe essere necessario appurare se il contrassegno assicurativo falso utilizzato sia corrispondente a quello usualmente adottato dalla compagine assicurativa “truffata” dato che non potrà essere addotto un danno da questa società ove non sia stato utilizzato un marchio eguale o molto simile a quello di cui essa usualmente si avvale. Venendo meno infatti tale corrispondenza, non si potrebbe nemmeno “parlare” di un danno patito in quanto non sarebbe più lesa una compagnia assicurativa; né potrebbe considerarsi il comparto assicurativo in sé e per sé considerato (e quindi l’associazione in cui fanno parte singole società assicurative) atteso che non vi sarebbe un effettivo danno patrimoniale salvo che un fenomeno di questo genere raggiungesse una vastità tale da mettere in crisi le società assicurative considerate nel loro complesso.

 

L’induzione in errore

Un altro profilo di criticità ermeneutica potrebbe consistere nel fatto che colui, che potrebbe essere indotto in errore, non sarebbe, perlomeno in sede di accertamento del fatto, la Compagnia assicurativa frodata, quanto piuttosto l’agente operante che eventualmente non si accorgesse di tale falso. Anche a voler considerare ipotizzabile un’argomentazione giuridica di questo genere, potrebbe però obiettarsi come vi sia un orientamento consolidato secondo il quale, viceversa, il “delitto di truffa è configurabile anche quando il soggetto passivo del raggiro è diverso dal soggetto passivo del danno, ed in difetto di contatti diretti tra il truffatore ed il truffato, sempre che tra i raggiri od artifizi posti in essere dal truffatore per indurre in errore il terzo, il profitto tratto dallo stesso truffatore ed il danno patrimoniale patito dal truffato sussista un nesso di causalità”[15]. Nulla escluderebbe, dunque, che l’agente operante indotto in errore non possa considerarsi quello effettivamente leso nella misura in cui il danno, come conseguenza dei raggiri, e il contestuale profitto ricavato da questo illecito penale, siano eziologicamente collegati l’uno all’altro. Su tale aspetto, potrebbe esserci un ulteriore aspetto giuridico che sembrerebbe impedire la sussunzione di tale condotta nell’alveo della previsione incriminatrice di cui all’art. 640 c.p.. Si tratta di quell’orientamento nomofilattico alla stregua del quale non “è configurabile il reato di truffa tutte le volte in cui gli artifizi o raggiri siano destinati ad incidere sulla determinazione di un organo che esercita un potere di natura pubblicistica, venendo a mancare l’elemento costitutivo del reato ossia l’atto di disposizione patrimoniale di natura privatistica”[16]. Tale criticità giuridica sembra però essere più apparente che reale dato che qui non si tratterebbe tanto di eludere il pagamento di una sanzione amministrativa (questione di ordine pubblicistico), quanto piuttosto quello di evitare il pagamento del canone di assicurazione che invece spetterebbe alla compagnia assicurativa frodata (questione di ordine privatistico).

Di conseguenza, gli artifizi e i raggiri non sono qui destinati tanto a incidere sulla determinazione di un organo che esercita un potere di natura pubblicistica, quanto piuttosto a impedire che l’organo, deputato a controllare eventuali infrazioni di natura pubblica, possa avvisare il privato che, a causa di tali infrazioni, abbia subito un danno mettendolo in condizione di potersi vedere risarcito.

 

Taluni profili procedurali

Posto ciò, sul versante procedurale, lo scrivente ritiene di fare tre brevi considerazioni. La prima, in merito alla querela, ritenendosi un delitto di truffa di questo tipo non procedibile d’ufficio, riguarda il fatto che colui deputato a presentarla potrebbe essere anche l’amministratore delegato della società assicurativa, e ciò sulla scorta di quell’indirizzo interpretativo secondo il quale “sussiste la legittimazione dell’amministratore delegato di una società di capitali – al quale sia conferita dallo statuto la legale rappresentanza della società e la facoltà di promuovere le istanze giudiziarie utili per il raggiungimento degli scopi sociali – all’esercizio del diritto di querela, considerato che la presentazione di una querela costituisce certamente atto funzionale al raggiungimento degli scopi della società e che essa rientra tra i compiti del legale rappresentante della società, senza necessità di specifico ed apposito mandato, in quanto gli amministratori che hanno la rappresentanza di una società di capitali possono, ai sensi dell’art. 2384 cc, compiere tutti gli atti che rientrano nell’oggetto sociale e quindi di compiere quell’attività economica che la società si propone per ritrarne un utile”[17]. Inoltre, sempre in punto di rito, è stato altresì evidenziato come non sia necessaria “la allegazione dello statuto aziendale (…) in quanto, in tema di querela proposta dal rappresentante legale di una società di capitali, l’onere relativo alla indicazione specifica della fonte dei poteri di rappresentanza è adempiuto con il semplice riferimento al possesso della relativa qualità, non necessitando, ai fini della efficacia dell’atto, alcuna ulteriore specificazione (Arg. Da Cass. Pen. Sez. V, 24.10.2005 n. 45329)”[18]. Per di più, per quanto attiene la competenza territoriale, dovrebbe ritenersi competente il giudice “del luogo di rispettivo accertamento, con la precisazione che tale luogo – in funzione del quale si radica la competenza per territorio – deve ritenersi individuato, per quel che attiene alla posizione del “destinatario-utilizzatore”, con quello di avvenuto sequestro dell’esemplare di “bollino” in possesso dello stesso, posto che anteriormente a tale momento, possono ritenersi sussistere a suo carico soltanto degli “indizi”, desunti dal risultato delle verifiche presso l’emittente, ma non certo conseguito il positivo “accertamento” della avvenuta commissione del reato anche da parte dell’utilizzatore, che ben potrebbe risultare insussistente per l’autonomia naturalistica dei due comportamenti incriminati. (Cfr. Cass. Pen. Sez. I, 10.2.1986)”. Infine, a nulla dovrebbe rilevare, da un punto di vista investigativo, che un reato di questo tipo sia procedibile a querela di parte. Come è noto, invero, l’art. 346 c.p.p. dispone che, fermo “quanto disposto dall’articolo 343, in mancanza di una condizione di procedibilità che può ancora sopravvenire, possono essere compiuti gli atti di indagine preliminare necessari ad assicurare le fonti di prova e, quando vi è pericolo nel ritardo, possono essere assunte le prove previste dall’articolo 392”.

 

Conclusioni

Al quesito proposto nel titolo di questo articolo, si può formulare una risposta positiva fermo restando i profili di criticità applicativa già evidenziati in precedenza (e a cui si rinvia).  

 


[1]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 22 maggio 2012 (dep. 11 giugno 2012), n. 22917, in Guida al diritto, 2012, 35, 96.

[2]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 16 maggio 2012 (dep. 12 giugno 2012), n. 22906, in CED Cassazione penale. 2012;
Archivio della circolazione e dei sinistri. 2012, 12, 1100; Cassazione Penale. 2013, 4, 1507.

[3]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 20 febbraio 2007 (dep. 22 marzo 2007), n. 12210, in Diritto e Giustizia online, 2007.

[4]Ibidem.

[5]In tal senso: Cass. pen., 16 aprile 1971, in Giust. Pen., II, 961.

[6]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 5 luglio 2011 (dep. 13 luglio 2011), n. 27413, in http://www.italgiure.giustizia.it/xway/application/nif/clean/hc.dll?verbo=attach&db=snpen&id=./20110714/snpen@s20@a2011@n27413@tS.clean.pdf.

[7]In tal senso: Cass. pen., sez. V, sentenza ud. 10 ottobre 2013 (dep. 15 novembre 2013), n. 45965, in CED Cassazione penale, 2014.

[8]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 4 ottobre 2012 (dep. 17 ottobre 2012), n. 40624, in Diritto e Giustizia online, 2012, 18 ottobre.

[9]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 30 aprile 2009 (dep. 30 giugno 2009), n. 23941, in CED Cass. pen., 2009 con nota di A. PANETTA, Una questione in tema di tentata truffa: l’esposizione del contrassegno assicurativo falso: un nodo non sciolto, Cass. pen., fasc.3, 2010, pag. 974.

[10]Ibidem.

[11]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 3 ottobre 2006 (dep. 12 ottobre 2006), n. 34179, in Cass. pen., 2007, 7-8, 2776 con nota di M. DE CRESCENZO, Nota a Cass. Pen., sez. II, 3 ottobre 2006 n.34179,  Responsabilita’ Civile e Previdenza, fasc.2, 2007, pag. 311.

[12]Cass. pen., sez. VI, sentenza ud. 25 giugno 2001 (dep. 17 ottobre 2001), n. 37409, in Cass. pen., 2002, 2783.

[13]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 29 maggio 2013 (dep. 30 agosto 2013), n. 35807, in Diritto e Giustizia online 2013, 4 settembre, con nota di A. J. DICANDIA, La «collaborazione» della vittima può anche essere passiva, Diritto e Giustizia online, fasc.0, 2013, pag. 1112.

[14]Ibidem.

[15]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 17 luglio 2013 (dep. 22 ottobre 2013), n. 43143, in Diritto & Giustizia 2013, 23 ottobre, Guida al diritto, 2014, 1, 58 con  nota di L. PIRAS, Truffa sì, anche senza contatti diretti con il truffato, Diritto & Giustizia, fasc.0, 2013, pag. 1572.

[16]Cass. pen., sez. II, sentenza ud. 13 febbraio 2015 (dep. 9 marzo 2015), n. 9951, in Foro it., 2015, 9, II, 493.

[17]Trib. Napoli, sez. IV, sentenza ud. 14 maggio 2010 (dep. 9 giugno 2010), n. 6992, in Redazione Giuffrè, 2010.

[18]Ibidem.

Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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