Breve commento a Cassazione , Sez. I, sentenza 4 maggio 2005, n. 9253 in materia di assegnazione della casa coniugale in assenza di figli.

Scorza Paola 18/05/06
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Cass. Sez. I, sentenza  4 maggio 2005,  n. 9253
 
Il Giudice della separazione non ha il potere di disporre l’assegnazione della casa in base all’art. 155 comma 4 c.c. a favore del coniuge che non sia affidatario dei figli.
Il provvedimento di assegnazione emanato dal Giudice della separazione al di fuori di tali presupposti costituisce un provvedimento specifico di autorizzazione ad abitare che non può essere opposto a colui che, già titolare di un diritto reale sull’immobile, lo aveva concesso a titolo di comodato.
 
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La decisione offre lo spunto per tornare su uno degli argomenti più discussi e discutibili tra quelli collegati al tema della separazione e del divorzio che probabilmente, sarà oggetto di altro contenzioso alla luce della recente normativa prevista dalla legge 8 febbraio 2006, n. 54.
E’ noto che l’art. 155 c.c. al comma 4, prima della riforma dettata dalla citata legge prevedeva che “l’abitazione nella casa  familiare spetta di preferenza, e ove sia   possibile, al coniuge cui vengono affidati i figli”, mentre il sesto comma dell’art. 6 L. 898/1970 prevede “l’abitazione nella casa familiare spetta di preferenza al genitore cui vengono affidati i figli o con il quale i figli convivono oltre la maggiore età.  In ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole”.
E, altresì, noto che la giurisprudenza, partita  da una interpretazione ampia,  che consentiva l’assegnazione della casa familiare anche al coniuge privo della prole che apparisse come   “più debole” economicamente,  è venuta elaborando una giurisprudenza   più rigorosa   secondo la quale l’assegnazione è   esclusivamente prevista in vista dell’intesse della prole a conservare il proprio ambiente di vita, nel momento della disgregazione della famiglia,  sicchè tutte le volte che detto interesse difetti, il Giudice non ha il  potere di decidere in ordine alla casa familiare.
Alla stregua di quest’ultimo orientamento, dunque, se  al termine dell’udienza presidenziale è possibile procedere all’assegnazione della casa familiare, preferendo chi ha un titolo per restare nell’immobile od anche al coniuge “più debole” motivando che l’adozione del provvedimento mira a consentire la custodia della casa in cui, qualora non si giunga alla separazione, i coniugi  torneranno a convivere, in sede di decisione definitiva, assai raramente, ormai da lungo tempo,  la giurisprudenza di merito provvede all’assegnazione della casa.
La sentenza che si annota, rappresenta, pertanto, un momento culminante di detta evoluzione giurisprudenziale e risulta  in linea con altre decisioni  secondo le quali se è “vero che l’assegnazione della casa familiare, comporta anche riflessi economici particolarmente valorizzati dall’art. 6 comma 6 della legge sul divorzio, nondimeno il beneficio non può essere disposto al fine di sopperire alle esigenze economiche del coniuge più debole, a garanzia del quale è unicamente destinato l’assegno di divorzio” ( Cass. Sez. I 10.6.2005, n. 12295).
Pur essendo apprezzabile e condivisibile  siffatta giurisprudenza soprattutto perché idonea a ridurre se non ad eliminare la conflittualità  che si incentra sul provvedimento dell’assegnazione della casa familiare,  la sentenza in commento sembra consentire due osservazioni.
 La prima è che  essa        non appare del tutto in linea con quanto affermato dalle sezioni unite ( Cass. SS.UU.civili, sentenza 7.9.2004, n. 13603) secondo le quali la destinazione a casa familiare comporterebbe un vincolo di destinazione   che anche un terzo, quale il comodante, dovrebbe rispettare fino al punto che per rientrare in possesso del proprio immobile, anche dopo la separazione, dovrebbe provare la sopravvenienza di un urgente ed imprevedibile bisogno, ai sensi dell’ art. 1809 comma 2 c.c..
Ma, a prescindere da altre considerazioni, ammettendo     la rilevanza di un siffatto vincolo di destinazione e, di conseguenza, la facoltà di poterlo opporre a terzi rende poi assai difficile negare alla radice il potere del giudice di decidere in ordine alla casa familiare, ogni volta che manchi la prole, atteso che “casa familiare”, a tutti gli effetti, è anche l’immobile in cui vivono i coniugi indipendentemente dall’esistenza dei figli.
Una siffatta conclusione del resto,  trova un riscontro normativo preciso nella chiara e complessa previsione di cui all’art. 6 comma 6 legge divorzio, secondo la quale come già detto “in ogni caso ai fini dell’assegnazione il giudice dovrà valutare le condizioni economiche dei coniugi e le ragioni della decisione e favorire il coniuge più debole”.
L’aver previsto, infatti, la necessità di decidere “in ogni caso” e, quindi, anche nell’ipotesi di mancanza dell’interesse della prole da tutelare (in precedenza disciplinata) a provvedere secondo i criteri indicati, in merito all’assegnazione della casa familiare legittima dunque il dubbio che,  almeno in sede di divorzio esista un  precipuo dovere  del Giudice, cui pertanto non potrebbe essere negato il potere di decidere.
Da tale dubbio muove proprio la seconda considerazione relativa alla   difficoltà di comprendere il significato dell’espressione “provvedimento aspecifico” che si legge nella sentenza.
Se, infatti, l’ impossibilità di opporsi alla richiesta di restituzione dell’immobile poggia sul     rilievo che il Giudice non aveva il potere di emettere il provvedimento di assegnazione, perché nella fattispecie non vi era alcun interesse dei figli da tutelare,  è evidente che il provvedimento sarebbe illegittimo  e come tale, inopponibile   non soltanto al comodante, ma a tutti coloro che vantassero diritti sull’immobile.
E la ovvietà    di siffatta affermazione è tale che appare consentito affermare che  forse, aver definito “aspecifico”  anziché illegittimo il provvedimento, non è da ricollegarsi ad  una svista terminologica, ma al  disagio e alla difficoltà di giustificare la tesi dell’insussistenza del potere del Giudice  di decidere sempre in ordine all’assegnazione della casa familiare che la costringe di  volta in volta a  qualificazioni e conclusioni che sul piano  teorico si fa fatica a comprendere.
Ma ferme le precedenti riflessioni,  il problema non sembra attenuato, come già detto dalla recente modifica dell’art. 155 c.c..
L’art. 155-quater della L. 54/2006 testualmente recita: ”Il godimento della casa familiare è attribuito tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli. Dell’assegnazione il giudice tiene conto nella regolazione dei rapporti economici tra i genitori, considerato l’eventuale titolo di proprietà.Il diritto di godimento della casa familiare viene meno nel caso in cui l’assegnatario non abiti o cessi di abitare stabilmente nella casa familiare o conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
Nel caso in cui uno dei coniugi cambi la residenza o il domicilio può chiedere se il mutamento interferisce con le modalità dell’affidamento la ridefinizione degli accordi o dei provvedimenti adottati, ivi compresi quelli economici”.
Ad una semplice lettura la  norma   appare in parte    come una presa d’atto dello stato della giurisprudenza  in punto di regolamentazione della casa familiare e   in parte di non chiaro significato.
Se, infatti, nessun ha mai dubitato che qualora         l’assegnatario abbandonasse l’immobile, il provvedimento di assegnazione dovrebbe   essere revocato o che un cambiamento di residenza e di domicilio dei coniugi possa essere posto a fondamento di una richiesta di revisione delle condizioni della separazione e/o del divorzio e, soprattutto, che  del beneficio di utilizzare l’immobile costituente la casa familiare  si debba comunque, tener conto ai fini della disciplina dei rapporti economici tra    i coniugi, di assai incerto e vago significato risultano le ulteriori previsioni.
Ed invero, ad un legislatore che di certo non poteva ignorare le dispute che intorno all’argomento si sono accese e lo sforzo giurisprudenziale, cui in precedenza si è fatto cenno, non poteva sfuggire che anche una semplice modifica terminologica avrebbe potuto riaprire una problematica che, a torto o a ragione, si era appena  sopita.
Tale accortezza non sembra aver guidato l’ultimo legislatore.
Pur con i limiti e i dubbi che derivano principalmente dal fatto che il breve tempo trascorso dall’entrata in vigore del nuovo testo  non ha consentito un esauriente esame e ancor meno pronunciamenti      giurisprudenziali,  assai rilevante risulta la disposta sostituzione della  “prudente” previsione secondo la quale “di preferenza e ove possibile” l’abitazione della casa familiare spetta al coniuge cui vengono affidati i figli, con la ben  più decisa nuova previsione che     “il godimento della casa familiare è attributo tenendo prioritariamente conto dell’interesse dei figli”.
Ed invero, se la prima, sia pure con qualche dubbio ha consentito di affermare che l’intento del legislatore era quello di tutelare l’interesse della prole, ove possibile, anche  mediante l’assegnazione della casa al genitore cui era affidato, la nuova norma sembra aver alquanto mutato il criterio che deve improntare l’attività del Giudice.
A parte la diversa lezione letterale, poiché   si potrebbe anche discutere se “prioritariamente” corrisponda in pieno al “di preferenza” non si puo’ con certezza escludere che con  questa espressione il legislatore abbia  voluto indicare che anche nel caso in cui non vi sia prole, ovvero quando in prima battuta non vi sia un suo   interesse  da tutelare, il  Giudice  sarebbe   ugualmente tenuto a procedere all’assegnazione della casa familiare all’uno o all’altro coniuge, con il solo obbligo di tenere conto di detto beneficio nella regolamentazione dei loro rapporti economici   e di considerare l’eventuale titolo di proprietà.
E, una siffatta interpretazione può risultare confortata dalla successiva disposizione che prevede il venir meno del diritto al godimento della casa familiare  nel caso che l’assegnatario conviva more uxorio o contragga nuovo matrimonio.
Rilevata appena la superfluità di quest’ultima situazione, atteso che nessuno poteva dubitare che in caso di nuovo matrimonio di uno degli ex coniugi l’altro, evidentemente, proprietario dell’immobile assegnato al primo ben poteva richiederne il rilascio, non sembra azzardato affermare che l’aver previsto espressamente che l’assegnazione    viene meno in caso di convivenza more uxorio, è fonte di gravi incertezze perché potrebbe essere interpretato con un vero e proprio capovolgimento dei principi generali affermatasi al riguardo.
La giurisprudenza, infatti, da tempo è ferma nell’affermare che la  presenza di un convivente  nella casa familiare  può essere fatta valere soltanto evidenziando che tale situazione è idonea a pregiudicare  la tranquillità e la crescita  materiale e morale dei figli, sempre escludendo  che in sé e per sé,  possa avere valore determinante anche ai fini del più pregnante problema  dell’affidamento della prole.
Conseguentemente, disporre che il diritto al godimento della casa debba cessare solo per la presenza di un partner nell’immobile, senza in alcun modo pretendere una verifica del rispetto dell’interesse dei figli, induce a ritenere che il nuovo legislatore abbia in tal modo ribadito  che rientra tra i compiti del giudice della separazione decidere in ordine alla casa familiare in ogni caso, anche laddove non vi sia un interesse della prole ma si tratti unicamente di disciplinare i rapporti economici tra i coniugi.
Non sarebbe più dunque ,l’interesse del minore a guidare e a legittimare il compito del Giudice di regolamentare la sorte della casa familiare, ma questa, in se e per sé, in quanto bene della famiglia,   che renderebbe necessario e giustificherebbe il potere di decisione del Giudice, in ogni ipotesi in cui esista.
Così ragionando si spiegherebbe perché si sia potuto affermare che “il diritto al godimento della casa si perde sol perché l’assegnatario cessi di abitare nella casa o, conviva more uxorio con altro soggetto
Una ulteriore conferma della possibilità che tale possa essere la volontà del legislatore si può rinvenire nel fatto che siffatta previsione  dovrà trovare applicazione anche nel divorzio   per espressa previsione dell’art. 4 della  più volte citata legge 54/2006, e di conseguenza  destinata a sostituire l’art. 6 comma 6 della legge798/1970 che, come  si è accennato, era formulata  proprio in modo da far risultare possibile l’assegnazione della casa familiare al coniuge più debole.
Se tale dovesse essere realmente la modifica apportata, all’interprete non resterebbe che prenderne atto,  ma  di certo si sarebbe venuti a vanificare un’opera altamente meritoria della giurisprudenza, potenziando un deleterio contenzioso.

Scorza Paola

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