La proposta di modifica dell’articolo 609 bis del codice penale, attualmente al centro del dibattito politico e giuridico, impone una riflessione approfondita sulle conseguenze criminologiche, sistematiche e applicative del nuovo paradigma normativo. L’intervento legislativo, dichiaratamente orientato a valorizzare la centralità del consenso quale perno della fattispecie incriminatrice, sembra infatti incidere non solo sulla struttura del reato di violenza sessuale, ma anche sui criteri di accertamento giudiziario e sugli equilibri probatori del processo penale. L’analisi che segue si propone di ricostruire l’evoluzione storica della disciplina, valutare le novità introdotte dal progetto di riforma e mettere in luce le possibili derive interpretative e applicative che potrebbero emergere nella prassi giudiziaria. L’obiettivo è offrire una lettura critica e sistematica della novella, evidenziandone tanto le potenzialità quanto i rischi connaturati alla nuova impostazione normativa. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025“, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon
Indice
1. Breve excursus storico-giuridico
La prima codificazione post-unitaria in materia penale risale al regio decreto 6133 del 1889, familiarmente nota come “codice Zanardelli”, dal nome del proprio estensore.
Le principali norme incriminatrici che qui interessano sono contenute nel “TITOLO VIII. DEI DELITTI CONTRO IL BUON COSTUME E L’ORDINE DELLE FAMIGLIE. CAPO I. DELLA VIOLENZA CARNALE, DELLA CORRUZIONE DI MINORENNI E DELL’OLTRAGGIO AL PUDORE.“, in particolare agli articoli 331 e 333.
La prima norma dispone che “chiunque, con violenza o minaccia, costringe una persona dell’uno o dell’altro sesso a congiunzione carnale è punito con la reclusione da tre a dieci anni.(…)”; mentre la seconda norma stabilisce che “chiunque, usando dei mezzi o profittando delle condizioni o delle circostanze indicate nell’articolo 331, commette su persona dell’uno o dell’altro sesso atti di libidine, che non siano diretti al delitto preveduto in detto articolo, è punito con la reclusione da uno a sette anni.(…)”.
È opportuno evidenziare tre punti:
- la topologia delle disposizioni, ambedue incluse nei delitti contro il buon costume e l’ordine delle famiglie, anziché racchiuse nei reati contro la persona;
- l’articolo 331 punisce l’atto sessuale penetrativo coatto;
- l’articolo 333 è norma residuale e punisce l’atto sessuale non penetrativo coatto.
Il legislatore fascista, con l’adozione del regio decreto 1398 del 1930 (‘codice Rocco’) provvede a riformare parzialmente i costrutti penali. Anzitutto, ricollocando le norme entro il “TITOLO NONO – DEI DELITTI CONTRO LA MORALITÀ PUBBLICA E IL BUON COSTUME – CAPO I – Dei delitti contro la libertà sessuale“. Resta invariata la scelta di limitare l’offensività dei delitti alla sfera sociale anziché a quella individuale. Difatti, i reati descritti agli articoli 519 e 521, dedicati rispettivamente alla violenza carnale e agli atti di libidine violenti, riproducono sostanzialmente la struttura normativa del precedente codice Zanardelli.
Solo con la legge 66 del 1996 si completa la riconfigurazione complessiva del paradigma criminologico in materia. In primo luogo, la fattispecie di violenza sessuale risulta inserita nel “Titolo XII – Dei delitti contro la persona – Capo III – Dei delitti contro la libertà individuale – Sezione II – Dei delitti contro la libertà personale“. La rivoluzione giuridica è esplicita: da una prospettiva vittimologica funzionale alla morale collettiva e familiare si giunge ad una qualificazione della vittima come titolare della libertà sessuale individuale.
La formulazione originaria dell’art. 609 bis c.p. afferma che “chiunque, con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o subire atti sessuali è punito con la reclusione da cinque a dieci anni (…)”.
I punti salienti da segnalare sono:
- la nozione di “atti sessuali” supera la previgente dicotomia tra ‘congiunzione carnale’ e ‘atti di libidine’, comprendendo in un’unica fattispecie penale una pluralità eterogenea di azioni erogene lesive della libertà sessuale del soggetto;
- la costrizione può riguardare sia comportamenti passivi che attivi;
- in aggiunta alle categorie tradizionali della violenza e della minaccia, si ammette anche l’abuso di autorità quale condotta idonea a perfezionare la fattispecie;
- la vittima, da oggetto del reato diviene soggetto titolare del diritto fondamentale alla sessualità;
- si effettua una ‘smaterializzazione‘ del reato di violenza sessuale. Mentre nei codici del 1889 e del 1930 la violenza e la minaccia si rappresentavano in termini di mera fisicità, ora il disvalore giuridico si estende alla dimensione morale della violazione penale, costruendosi quindi in rapporto alla ‘psicologizzazione‘ del corpo quale bene giuridico tutelato.
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2. La novella del 2025: prospettive de lege ferenda sull’art. 609 bis c.p.
Il nucleo normativo del nuovo testo dell’art. 609 bis c.p., secondo l’intenzione dei promotori, si ricava dall’enunciato del primo comma:
“Chiunque compie o fa compiere o subire atti sessuali ad un’altra persona senza il consenso libero e attuale di quest’ultima è punito con la reclusione da sei a dodici anni.“
Da cui si desume:
- sussiste una stretta simmetria tra la tripartizione originaria delle condotte incriminatrici (violenza, minaccia e abuso di autorità) con le azioni descritte di “compiere“, “far compiere” e “subire” atti sessuali. In tal evenienza, pare che la preoccupazione primaria del legislatore sia quella di affievolire il tasso di tecnicalità della fattispecie, rimodulando in termini profani e agentivi le nozioni giuridiche di violenza, minaccia e abuso di autorità. La supposizione è suffragata dal proseguo dell’articolo di riforma il quale, nella tipizzazione di alcune casistiche speciali, fornisce expresse un richiamo alla normativa tuttora vigente, laddove dispone che “(…) alla stessa pena soggiace chi costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità (…)”. Si noti ancora la perfetta sovrapposizione tra la lettera di questo secondo comma con quanto già previsto nella L. 66/1996 sopra menzionata, nonché con le tre perlocuzioni poc’anzi esaminate;
- si introduce la coppia endiadica “consenso libero e attuale”. Qui corre l’obbligo di sollevare perplessità in merito alla dicitura legislativa avanzata. In primo luogo, l’aggiunta in sé della doppia aggettivazione risulta costruttivamente pleonastica. Difatti, la categoria giuridica della costrizione implica necesse assenza o compressione di libertà attuale, dunque l’espressione è ridondante e tautologica. Inoltre, la scelta della congiuntiva ‘e’ comporta, sul versante probatorio, la dimostrazione di ambedue gli elementi fattispecifici. Per terzo, si valuti che la verifica processuale di tale formulazione nel singolo caso concreto è verosimile che produca:
a) processo personale anziché fattuale;
b) vittimizzazione secondaria derivante da un inevitabile uso energico della cross-examination;
c) inversione dell’onere probatorio costituzionale;
d) incertezza della pena;
e) espansione della vis persuasiva di periti e consulenti tecnici;
f) rafforzamento del principio del libero convincimento del giudicante con conseguente soggettivismo giudiziario;
g) frammentarietà delle pronunce di merito;
h) potenziamento del ruolo suppletivo della giurisprudenza di legittimità volto a colmare l’ambiguità stipulativa della disposizione. - la cornice edittale resta invariata rispetto all’incremento conseguente all’approvazione della L. 69/2019 (c.d. “codice rosso”) che aveva modificato le precedenti soglie di pena, innalzando i limiti di reclusione minimi e massimi, rispettivamente da cinque a sei e da dieci a dodici anni.
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3. Chine scivolose e bias giudiziari: una sinossi
All’interno di questa sezione si vuole focalizzare l’attenzione sui possibili risvolti prassistici della novella legislativa in corso di definizione.
Anzitutto giova rilevare come non possa qualificarsi ‘libero’ un consenso che non sia altresì sufficientemente ‘informato’. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’accordo preliminare tra i copulanti circa le concrete modalità consumatorie del successivo rapporto sessuale (si veda, su tutti, il fenomeno dello ‘stealthing‘); o, sotto altra astrazione, all’assenza, opacità o carenza di informazioni relative alle qualità personali del partner. Si rifletta, poi, sull’eventuale difficoltà di determinazione della persona offesa, la quale in ipotesi potrebbe non appartenere alla compagine femminile. A meno che non si intenda incorporare nel costrutto penalistico un discutibile, e alquanto pericoloso, bias di genere.
In una diversa prospettiva, emerge tuttavia con altrettanta evidenza la difficoltà di accertamento dell’esatto tempus commissi delicti, se parametrato al momento di cessazione o revoca dell’ulteriore elemento costitutivo della fattispecie: l’attualità. Difatti, l’invalidazione del consenso inizialmente prestato può avvenire mediante tre differenti modalità: esplicita, tacita o implicita. Al riguardo, l’impianto probatorio dovrà incentrarsi inesorabilmente sulla parentesi temporale del perceptum sensuum e del perceptum animi. Nello specifico, ciò si presta ad una infinità plurisenso. Anzitutto, conviene osservare che la negazione del consenso originario può avvenire sia in forma verbale che comportamentale. Si desume che la corretta interpretazione di espressioni di rifiuto, quali ad esempio: “no”, “basta”, “fermati” et similia sia fortemente condizionata dal contesto interattivo all’interno del quale vengono comunicate. Parimenti, segnali non verbali o paraverbali di dissenso alla prosecuzione del rapporto sessuale (silenzio prolungato, irrigidimento corporeo, breve pianto, allontanamento fisico parziale, lamenti, ecc.) dipendono altresì da fattori situazionali inintenzionali, ovvero non integralmente controllabili o deliberabili. A tacere, infine, degli scenari intrinsecamente equivoci, indefiniti, contraddittori. In ordine a tale configurazione, si esamini il caso paradigmatico di:
- accettazione iniziale esplicita seguita da passività totale nel corso dell’atto sessuale;
- contraddizione tra elemento verbale e comportamento effettivo;
- segnali non verbali di disagio (tremore, immobilità, sguardo basso, gesti respingenti), suscettibili di una varietà eterogenea e conflittuale di significati in funzione dell’ambiente culturale o della dinamica relazionale contingente;
- revoca espressa con tono ironico o scherzoso;
- condotte successive contraddittorie rispetto alla rinuncia precedente.
L’architettura normativa così congegnata pone al vertice dell’attenzione degli attori processuali la ricostruzione narrativa dell’evento e la prova digitale, incrementando il fattore stocastico del decisum. Invero, il quadro fattispecifico disegnato non rende né agevole né inoffensivo il compito dei soggetti istituzionali coinvolti.
4. Conclusione
L’aggettivo ‘libero’, nel codice penale vigente, compare una sola volta (art. 416-bis c.p.); qualora la proposta di modifica dell’art. 609 bis venisse accolta si tratterebbe, quindi, di un’opzione prescrittivo-linguistica assai rara. Ciò dovrebbe indurre il legislatore a ripensare in modo più accorto alla tecnica nomopoietica implementata. Preme poi sottolineare ulteriori profili atipici e critici della norma in esame.
In primo luogo si assiste ad una contaminazione di elementi e categorie giusprivatistiche verso un settore speciale di diritto pubblico. Il principio consensualistico, nonché le proprietà e gli strumenti giuridici da esso derivati, trasposto nell’ambito del diritto penale può generare gravi problemi di rigetto difficilmente ricomponibili per via esegetica.
In second’ordine, la disposizione potrà essere oggetto di censura di incostituzionalità omologa a quella che dichiarò illegittimo il reato di plagio (art. 603 c.p.). Per un approfondimento sul punto si rinvia alla pronuncia 96/1981 della Corte Costituzionale italiana. Si noti, raptim, che nel medesimo anno venne abrogato il c.d. delitto d’onore (art. 587 c.p.), del quale la norma in discussione sembra quasi rappresentare un contrappasso storico-giuridico.
Inoltre, l’ordinamento giuridico italiano fissa in via generale, ancorché non esclusiva, nei 14 anni la c.d. età del consenso (art. 609 quater c.p.). Da ciò potrebbe scaturire un’antinomia con il testo di riforma, a causa di una malcelata illogicità giuridica del riformando enunciato normativo.
Prosegue, perciò, l’uso distorto, caricaturale, improprio e seduttivo della politica del diritto criminale. L’antico brocardo “vis cara puellae” non viene scalfito o aggredito dalla novella dell’art. 609 bis c.p., poiché a ben vedere tale destrutturazione legale era già stata ultimata dal codiceZanardelli del 1889. Sarebbe invece urgente insistere sui cofattori criminogenetici di matrice extragiuridica, i quali spaziano dalla responsabilizzazione educativa e scolastica alle politiche di informazione e prevenzione.
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