Una rassegna di giurisprudenza in materia di espropriazione di pubblica utilità

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1) Premesse. 2) La normativa di riferimento. 3) Cons. di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 6 del 9/4/2021: il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente preclude l’esercizio di altre azioni sul bene. 4) Cons. di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 5 del 18/2/2020: il giudicato restitutorio inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù. 5) Cons. di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 2 del 20/1/2020, sentenza n. 3 del 20/1/2020, sentenza n. 4 del 20/1/2020: per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata. 6) Cons. di Stato, Sezione II, sentenza n. 705 del 28/01/2020: la cessione volontaria dell’immobile può essere ricondotta al genus dei c.d. contratti ad oggetto pubblico

1) Premesse

Alcune recenti pronunce delineano i tratti dell’espropriazione di pubblica utilità, chiarendo il peculiare rapporto che intercorre tra la Pubblica Amministrazione ed il privato, giungendo a negare l’ammissibilità di alcuni istituti in materia, evidenziando come il procedimento espropriativo D.P.R. n.327/2001 regoli in modo tipico, esaustivo e tassativo il procedimento di composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale.

2) La normativa di riferimento

L’espropriazione per pubblica utilità è il provvedimento ablatorio con cui viene sottratto un bene ad un privato per ragioni di pubblica utilità. Tale istituto trova fondamento nell’articolo 42 della Costituzione, il quale stabilisce che la proprietà privata può essere, nei casi previsti dalla legge e salvo indennizzo, espropriata per motivi di interesse generale.

Per quanto attiene al procedimento di espropriazione l’articolo 8 T.U.Es. stabilisce che il decreto di esproprio può essere emanato qualora “a) l’opera da realizzare sia prevista nello strumento urbanistico generale, o in un atto di natura ed efficacia equivalente, e sul bene da espropriare sia stato apposto il vincolo preordinato all’esproprio; b) vi sia stata la dichiarazione di pubblica utilità; c) sia stata determinata, anche se in via provvisoria, l’indennità di esproprio”.  Il vincolo preordinato all’esproprio è la prima fase del procedimento, viene apposto attraverso uno strumento urbanistico, ed ha una durata di 5 anni. Al termine dei cinque anni deve essere intervenuta la dichiarazione di pubblica utilità. Tuttavia, è possibile al termine dei 5 anni reiterare il vicolo per altrettanto periodo con idonea motivazione. La dichiarazione per pubblica utilità è disciplinata dall’articolo 13 T.U.Es. il quale ne fissa i contenuti. Inoltre, l’indennità di esproprio viene determinata nell’ambito di un sub-procedimento, deve essere calcolata nella misura del valore del bene ed accettata, salvo eccezioni, dal privato.

L’articolo 42bis del T.U.Es. prevede una forma semplificata di espropriazione nel caso di utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di interesse pubblico. In particolare, l’articolo 42 bis prevede che l’Autorità che utilizza sine titulo un bene immobile per scopi di interesse pubblico, dopo aver valutato, con un procedimento d’ufficio, gli interessi in conflitto, adotti un provvedimento conclusivo del procedimento con cui sceglie se acquisire il bene o restituirlo, al fine di adeguare la situazione di diritto a quella di fatto.

3) Cons. di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 6 del 9/4/2021: il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per equivalente preclude l’esercizio di altre azioni sul bene

La questione di diritto rimessa all’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato attiene alla rilevanza del giudicato civile di rigetto formatosi sulla domanda di risarcimento per equivalente ed alla efficacia dello stesso rispetto alla domanda di risarcimento in forma specifica, intentata successivamente dinanzi al giudice amministrativo.

La Sezione rimettente formula a riguardo i seguenti quesiti:

a) se – in caso di occupazione illegittima, a fronte di un giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, formatosi con una sentenza emessa quando vi era la prassi nazionale che dava rilievo alla ‘occupazione appropriativa’ o ‘accessione invertita’ – sia precluso l’esercizio attuale dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica attraverso il rilascio dei terreni, previa rimessione in pristino;

b) in caso positivo, se l’effetto preclusivo derivante dal giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno, per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato, sia subordinato alla sussistenza in tale pronuncia (e nel dispositivo) della formale, chiara e univoca statuizione costitutiva sul trasferimento del bene in favore dell’Amministrazione in base alla ‘occupazione appropriativa’ ovvero se a tali fini sia sufficiente che – in motivazione – la pronuncia abbia unicamente (eventualmente anche per implicito) fatto riferimento a tale istituto per giungere al rigetto della domanda risarcitoria;

c) come possa influire sull’esito del giudizio il principio, per il quale – nel caso di occupazione senza titolo del terreno occupato dall’amministrazione – si applica sul piano sostanziale l’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001, con la conseguente possibilità ormai riconosciuta dalla giurisprudenza di disporre la conversione della domanda nel corso del giudizio, e dunque di ritenere ammissibile il rimedio di tutela da esso previsto, basato sulla diversità della causa petendi e del petitum (riferibili a posizioni di interesse legittimo correlativo al potere di acquisizione) rispetto alle domande di risarcimento o di restituzione (riferibili alla tutela del diritto di proprietà in quanto tale);

d) per il caso in cui ritenga che gli appellanti sono ancora proprietari del bene (aventi pertanto titolo a chiedere l’emanazione del provvedimento discrezionale previsto dall’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001), se – nel caso di emanazione dell’atto di acquisizione – l’Autorità debba disporre unicamente il pagamento del controvalore del terreno e non anche ulteriori importi a titolo di risarcimento del danno, in considerazione del giudicato civile, che a suo tempo ha respinto la domanda risarcitoria (sia pure per equivalente).

La Sezione evidenzia, peraltro, come sulla questione siano emersi due contrastanti orientamenti in seno al Consiglio di Stato e alla giurisprudenza amministrativa.

Secondo un primo orientamento (compendiato nelle sentenze Cons. Stato, Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1466; id. 29 aprile 2014, n. 2232; id., 4 febbraio 2008, n. 303) non potrebbe essere accolta una domanda che – a fronte della sussistenza di un giudicato in senso tecnico in ordine all’avvenuto concretarsi del fenomeno acquisitivo a titolo originario dell’area in favore dell’amministrazione – intenda ottenere l’applicazione ‘ora per allora’ di un diverso orientamento giurisprudenziale, successivamente affermatosi sotto la spinta della Corte EDU, e di un antitetico quadro legislativo introdotto dal legislatore nazionale, appunto, per conformarsi ai precetti della Corte (Cons. Stato, Sez. IV, 13 aprile 2016, n. 1466). 

Un diverso orientamento sarebbe invece evincibile dalla sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 16 novembre 2007, n. 5830, la quale aveva escluso la configurabilità di un giudicato preclusivo dell’azionato diritto alla restituzione delle aree illegittimamente espropriate per la mancata adozione del decreto di esproprio e dell’annullamento di quello adottato in sanatoria. In quel caso, erano intervenuti sia un giudicato civile, con cui era stata respinta la domanda di risarcimento dei danni per l’occupazione dei terreni in assenza dell’approvazione del piano di zona e la conseguente mancanza della dichiarazione di pubblica utilità, ritenuta infondata a fronte della sussistenza di idonei provvedimenti legittimanti l’occupazione d’urgenza, sia un giudicato amministrativo, con cui erano stati annullati tutti gli atti che le amministrazioni avevano emesso ‘a sanatoria’ tra il 1993 e il 1996 per adeguare la situazione di fatto a quella di diritto. Altro precedente richiamato nell’ordinanza di rimessione quale espressione del secondo orientamento giurisprudenziale è costituito dalla sentenza Cons. Stato, Sez. IV, 13 marzo 2020, n. 1827.

L’Adunanza Plenaria, sentenza n. 6 del 9/4/2021 premette che la soluzione delle questioni non può che passare attraverso l’interpretazione della sentenza civile n. 2860/2006 del Tribunale ordinario di Cagliari e l’individuazione dei limiti oggettivi del giudicato formatosi su tale sentenza, rimasta inoppugnata e quindi divenuta irrevocabile.  Pertanto, si tratta di risolvere la questione, se e in presenza di quali presupposti il giudicato civile di rigetto, per intervenuta prescrizione del diritto fatto valere in giudizio, di una domanda di risarcimento (per equivalente) dei danni da perdita della proprietà sul suolo per effetto dell’occupazione illegittima e della trasformazione irreversibile del bene da parte della pubblica amministrazione, in applicazione dell’istituto (ormai superato) di creazione giurisprudenziale della cd. occupazione acquisitiva, precluda l’esercizio di un’azione di risarcimento in forma specifica diretta alla restituzione dell’eadem res previa rimessione in pristino. Ulteriore tematica da affrontare è se tale giudicato civile precluda, o meno, l’esercizio di un’azione reale di rivendicazione del bene, oppure, ancora, l’esercizio di un’azione ex artt. 31 e 117 cod. proc. amm. avverso il silenzio dell’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001. Analizzando la sentenza civile in questione l’Adunanza Plenaria evidenzia che in motivazione la statuizione di rigetto della domanda di risarcimento per equivalente del danno da perdita della proprietà, per intervenuta prescrizione quinquennale, si fonda sulla ricostruzione della fattispecie dedotta in giudizio a sostegno della pretesa risarcitoria in termini di cd. occupazione acquisitiva. Per tale motivo, deve ritenersi che in tal caso il giudicato civile si sia formato sia sull’inesistenza del diritto al risarcimento dei danni perché estinto per prescrizione, sia sul regime proprietario del bene conseguente all’accertato perfezionamento della cd. occupazione acquisitiva.

L’Adunanza Plenaria formula i seguenti principi di diritto, chiarendo che  il giudicato civile di rigetto della domanda di risarcimento del danno per l’equivalente del valore di mercato del bene illegittimamente occupato dalla pubblica amministrazione, formatosi su una sentenza irrevocabile con cui è accertato il perfezionamento dell’occupazione acquisitiva, preclude alle parti, ai loro eredi o aventi causa il successivo esercizio, in relazione al medesimo bene, dell’azione di risarcimento del danno in forma specifica, dell’azione di rivendicazione e dell’azione avverso il silenzio serbato dall’amministrazione sull’istanza di provvedere ai sensi dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327 del 2001. In particolare, ai fini di tale effetto preclusivo è sufficiente che dall’interpretazione della sentenza si possa ravvisare un accertamento, anche implicito, del perfezionamento della fattispecie dell’occupazione acquisitiva e dei relativi effetti sul regime proprietario del bene, purché si tratti di accertamento effettivo e costituente un necessario antecedente logico della statuizione finale di rigetto.

4) Cons. di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 5 del 18/2/2020: il giudicato restitutorio inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù

L’articolo 42 bis si applica ogni volta che, in assenza di decreto di esproprio o dichiarativo di pubblica utilità, un bene immobile altrui sia utilizzato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico.

L’Adunanza Plenaria afferma che perché possa prodursi l’effetto preclusivo derivante dal giudicato restitutorio, occorre che: la sentenza preveda espressamente la condanna dell’amministrazione alla restituzione del bene; l’effetto preclusivo si realizzi con riguardo al provvedimento ex art. 42 bis, co. 2, comportante l’acquisizione dello stesso alla proprietà pubblica. Pertanto, tali presupposti non possono fermare anche l’adozione del diverso provvedimento di imposizione di servitù, di cui al successivo comma 6. Quanto a questo secondo aspetto, la sentenza coperta da giudicato in senso sostanziale, ex art. 2909 c.c., fa stato tra le parti, i loro eredi ed aventi causa, nei limiti oggettivi costituiti dai suoi elementi costitutivi, ovvero il titolo della stessa azione (causa petendi) e il bene della vita che ne forma oggetto (cd. petitum mediato).

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, sentenza n. 5 del 18/02/2020 enuncia i seguenti principi di diritto:

A)L’art. 42 bis del DPR 8 giugno 2001 n. 327 si applica a tutte le ipotesi in cui un bene immobile altrui sia utilizzato e modificato dall’amministrazione per scopi di interesse pubblico, in assenza di un valido ed efficace provvedimento di esproprio o dichiarativo della pubblica utilità, e dunque quale che sia la ragione che abbia determinato l’assenza di titolo che legittima alla disponibilità del bene. 

B) Il giudicato restitutorio (amministrativo o civile), inerente all’obbligo di restituire un’area al proprietario da parte dell’Amministrazione occupante sine titulo, non preclude l’emanazione di un atto di imposizione di una servitù, in esercizio del potere ex art. 42 bis, comma 6, DPR 8 giugno 2001 n. 327, poiché questo presuppone il mantenimento del diritto di proprietà in capo al suo titolare.

5) Cons. di Stato, Adunanza Plenaria, sentenza n. 2 del 20/1/2020, sentenza n. 3 del 20/1/2020, sentenza n. 4 del 20/1/2020: per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata

Dottrina e Giurisprudenza si sono a lungo interrogate sulla possibilità di riconoscere la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A. in seguito all’irreversibile trasformazione del fondo occupato.

La rinuncia abdicativa è un negozio giuridico unilaterale non recettizio che consente al titolare di una facoltà di legge di rinunciarvi, senza con ciò trasferire tale diritto ad un altro soggetto.

Tale negozio giuridico unilaterale, pur essendo riconducibile alle obbligazioni di cui all’art. 1173 c.c. e, precisamente, alle obbligazioni derivanti “da ogni altro atto o fatto idoneo a produrle in conformità dell’ordinamento giuridico”, non risulta disciplinato da alcuna specifica norma di legge.

Tuttavia, la prevalente dottrina è concorde nel riconoscerne l’ammissibilità, così come la S.C. di Cassazione ne ha più volte confermato la validità nel diritto civile.

Anche nella materia degli espropri, la rinuncia abdicativa è stata ammessa dalla giurisprudenza della Corte di Cassazione, per i casi devoluti alla giurisdizione del giudice civile, nei giudizi instaurati prima della entrata in vigore della legge n. 205 del 2000, che ha previsto la giurisdizione amministrativa esclusiva.

Tuttavia, l’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato non condivide la possibilità di configurare la rinuncia abdicativa, trattandosi di un istituto privo di uno specifico fondamento normativo nell’ambito della materia delle espropriazioni per p.u.

Il principio di diritto enunciato dalla sentenza n. 2 del 20/01/2020 è il seguente:

“[…] per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.”

La disciplina del procedimento espropriativo ex art. 42 bis d.P.R. n.327/2001 non sembra contemplare la rinuncia abdicativa. Pertanto, il Consiglio di Stato, V Sezione, nell’ordinanza di rimessione alla Plenaria n. 5391 del 30 luglio 2019 dubita che nel sistema previsto dal testo unico sugli espropri sia concepibile una rinuncia abdicativa. L’ordinanza, nella quale i giudici si esprimono con formula dubitativa, giunge a sostenere chela ‘rinuncia abdicativa’, salve le questioni concernenti le controversie all’esame del giudice civile, non può essere ravvisata quando sia applicabile l’art. 42 bis. L’art. 42 bis, in definitiva, avrebbe esaurito la disciplina della fattispecie, con una normativa completa ed autosufficiente, rispetto alla quale non dovrebbero rilevare prassi ulteriori, limitative dell’applicazione della legge.

Le tre Plenarie del 20/01/2020 contestano l’ammissibilità della rinuncia abdicativa nel sistema espropri.

L’Adunanza Plenaria, sentenza n.2 del 20/01/2020 ritiene che la rinuncia abdicativa nell’atto di proposizione in giudizio della richiesta di risarcimento del danno per perdita della proprietà illecitamente occupata dalla P.A. non possa essere condivisa, rilevando un triplice ordine di obiezioni.

La rinuncia abdicativa potrebbe comportare astrattamente la perdita della proprietà privata. Tuttavia, la rinuncia da parte del privato non trasla tale diritto su altri.  Pertanto, la rinuncia abdicativa non costituisce titolo idoneo per il trasferimento della proprietà in capo all’Autorità espropriante.

La rinuncia abdicativa viene ricostruita quale atto implicito, senza tuttavia avere le caratteristiche essenziali del provvedimento implicito ovvero la manifestazione chiara di volontà dell’organo competente
e la non equivocità di una specifica volontà provvedimentale.

In particolare, la Plenaria afferma che la rinuncia abdicativa non è provvista di base legale in un ambito, quello dell’espropriazione, dove il rispetto del principio di legalità è richiamato sia dalla Costituzione (art. 42 Cost.), sia dal diritto europeo.

Inoltre, ammettere la rinuncia abdicativa significherebbe reintrodurre una forma di espropriazione indiretta non contemplata dalla norma, riproducendosi una problematica analoga a quella passata relativa all’istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”. Come noto, l’istituto, che pure rispondeva all’esigenza pratica di definire l’assetto proprietario di un bene illegittimamente occupato, risultava privo di base legale ed è stato pertanto ritenuto illegittimo dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

L’Adunanza Plenaria con la sentenza n. 2 del 20/01/2020 non ammette la rinuncia abdicativa nella materia degli espropri ed enuncia il seguente principio di diritto: “[…] per le fattispecie disciplinate dall’art. 42-bis TUEs., l’illecito permanente dell’Autorità viene meno nei casi da esso previsti (l’acquisizione del bene o la sua restituzione), salva la conclusione di un contratto traslativo tra le parti, di natura transattiva e la rinuncia abdicativa non può essere ravvisata.”

L’Adunanza Plenaria, sentenza n. 3 del 20/01/2020 non ammette la rinuncia abdicativa nel sistema espropri.

Chiarisce come la scelta di acquisizione o restituzione del bene sia effettuata esclusivamente dall’Amministrazione o dal commissario ad acta nominato dal giudice. Pertanto, il compimento della scelta non spetta né al privato né al giudice.

Inoltre, precisa come una domanda solo risarcitoria, può essere accolta dal giudice, tuttavia tale accoglimento consiste necessariamente nell’accertamento della illegittimità della procedura espropriativa
e nella scelta da parte del privato di uno dei rimedi dati dalla legge. Infatti, è la legge ad indicare gli effetti dell’accertata illegittimità. In tal caso non si realizza il trasferimento, ed il bene va restituito, tuttavia l’amministrazione in tal caso è tenuta, nell’esercizio di un suo dovere, di una sua funzione, a valutare se procedere alla restituzione del bene previa riduzione in pristino o ad acquisire il bene nel rispetto dei dettami dell’articolo 42 bis T.U.Es..

L’Adunanza Plenaria, sentenza n. 4 del 20/01/2020 negando l’ammissibilità della rinuncia abdicativa
in materia espropriativa, in particolare, sottolinea come la trasposizione della figura negoziale della rinuncia abdicativa dall’ambito privatistico al settore dell’espropriazione per pubblica utilità, come rimedio per il privato spogliato del suo bene, genera a ben vedere un’irrazionalità amministrativa in quanto lascia irrisolta la questione dell’effetto acquisitivo in favore della pubblica amministrazione, non potendosi ricondurre all’articolo 827 c.c., il quale prevede l’acquisto (a titolo originario) dei beni vacanti da parte dello Stato.

Peraltro, anche la giurisprudenza a favore dell’ammissibilità della rinuncia abdicativa nella materia espropriativa, non ha individuato una soluzione in ordine all’individuazione del titulus e del modus adquirendi del diritto di proprietà in capo all’amministrazione occupante obbligata al risarcimento dei danni.

Pertanto, l’Adunanza Plenaria n. 4 del 2020 formula il seguente principio di diritto «Per le fattispecie rientranti nell’ambito di applicazione dell’art. 42-bis d.P.R. n. 327/2001 la rinuncia abdicativa del proprietario del bene occupato sine titulo dalla pubblica amministrazione, anche a non voler considerare i profili attinenti alla forma, non costituisce causa di cessazione dell’illecito permanente dell’occupazione senza titolo».

6) Cons. di Stato, Sezione II, sentenza n. 705 del 28/01/2020: la cessione volontaria dell’immobile può essere ricondotta al genus dei c.d. contratti ad oggetto pubblico

La disciplina del procedimento espropriativo D.P.R. n.327/2001 regola in modo tipico, esaustivo e tassativo il procedimento di composizione del contrasto tra l’interesse privato del proprietario e l’interesse generale.  Pertanto, la scelta, la ponderazione di interessi, può avvenire soltanto attraverso il procedimento delineato dal legislatore nel T.U.Es. Il privato può partecipare al procedimento o concludere con l’Amministrazione un contratto traslativo ma tale contratto ha un essenziale collegamento con il procedimento amministrativo, distinguendosi per questo dai contratti di diritto privato.

Il Consiglio di Stato, Sezione II, sentenza n. 705 del 28/01/2020 ha affermato che la cessione volontaria dell’immobile può essere ricondotta al genus dei c.d. contratti ad oggetto pubblico, che si diversifica dai normali contratti di compravendita di diritto privato.

In primo luogo, quello che caratterizza la cessione volontaria dell’immobile consiste nell’inserimento del negozio nell’ambito di un procedimento di espropriazione per pubblica utilità. In particolare, la cessione assolve alla peculiare funzione dell’acquisizione del bene da parte dell’espropriante, quale strumento alternativo all’ablazione d’autorità mediante decreto di esproprio.

Inoltre, altro aspetto caratterizzante la cessione volontaria consiste nella preesistenza di una dichiarazione di pubblica utilità e di un subprocedimento di determinazione dell’indennità e delle relative offerte ed accettazione, con la sequenza e le modalità previste dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971.

Infine, il prezzo di trasferimento volontario non è retto dai principi di autonomia contrattuale ma è necessariamente correlato ai parametri di legge stabiliti, inderogabilmente, per la determinazione dell’indennità di espropriazione.

Il Consiglio di Stato, Sez. IV, sentenza n.7445 del 30/10/2019 ha affermato che laddove non siano riscontrabili tutti i requisiti al negozio traslativo non possono collegarsi gli effetti tipici della cessione volontaria disciplinata dall’art. 12 della legge n. 865 del 1971, ossia l’estinzione dei diritti reali o personali gravanti sul bene acquisito dall’amministrazione.

Presupposto necessario perché si possa configurare la cessione volontaria, e perché si possano produrre i suoi effetti tipici, è dunque il collegamento tra il rapporto contrattuale ed il procedimento amministrativo di espropriazione per pubblica utilità che vi ha dato origine, il quale funge da essenziale momento genetico e fondamentale presupposto del trasferimento immobiliar.eLa causa del contratto pubblicistico di cessione va quindi ricondotta a tale modalità alternativa di realizzazione del procedimento espropriativo mediante l’utilizzo di uno strumento privatistico, peraltro soggetto per taluni aspetti – tra cui la determinazione del prezzo di cessione – alla disciplina contenuta in norme di legge imperative.

La Corte costituzionale, sentenza n. 191 del 2006 ha chiarito che l’utilizzo dello strumento degli accordi presuppone l’esistenza in capo alla p.a. di un potere autoritativo: l’accordo sostituisce l’atto unilaterale, ma non può essere utilizzato se non in sostituzione di un provvedimento espressione di potere autoritativo. Da qui l’impossibilità di ricondurre sic et simpliciter l’accordo allo schema del contratto di diritto privato e la conseguente giustificazione dell’assegnazione al giudice amministrativo della giurisdizione esclusiva anche per quelle controversie che attengono alla sua esecuzione. In definitiva, attraendo la cessione volontaria nella famiglia dell’accordo sostitutivo o integrativo di provvedimento, sia pure nei limiti della tipicità dei provvedimenti autoritativi che va a sostituire, in ragione del riconosciuto mantenimento della sua connotazione di atto autoritativo, caratterizzato semplicemente dalla confluenza in un unico testo di provvedimento e negozio, si può affermare che le controversie relative alla sua esecuzione, diverse da quelle in tema di indennità, ricadono nella giurisdizione del giudice amministrativo.

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Dott.ssa Laura Facondini

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