Una definizione estensiva di pubblica amministrazione offerta dall’interpretazione della giurisdizione amministrativa in ordine ai margini di applicabilità dell’articolo 202 del D.P.R. n. 3 del 1957 (Testo Unico degli impiegati civili dello Stato).

Sgueo Gianluca 02/11/06
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1. Il fenomeno del publicness puzzle: la gestione delle linee decisionali sul pubblico interesse affidate a soggetti giuridici privati – 2.1 Il caso: l’interpretazione dell’articolo 202 del D.P.R. n. 3 del 1957 offerta dal T.A.R. – 2.2 L’interpretazione del Consiglio di Stato – 3. Conclusioni: verso un nuovo modello di amministrazione.

 

1. Il fenomeno del publicness puzzle: la gestione delle linee decisionali sul pubblico interesse affidate a soggetti giuridici privati

L’evoluzione dei modelli gestionali del pubblico interesse sviluppatesi negli ultimi anni ha comportato il passaggio da un’impostazione tradizionale propensa a negare che soggetti diversi dall’amministrazione in senso stretto potessero esercitare tale potere, ad una caratterizzata dal cd. “publicness puzzle”[1].

In altre parole, con l’ampliarsi delle funzioni amministrative e dei servizi pubblici correlati e con la necessità di perseguire un’operato efficiente ed autonomo in ragione degli stringenti limiti derivanti dall’appartenenza alla Comunità Europea si fanno sempre più frequenti le circostanze nelle quali sono soggetti aventi personalità giuridica di diritto privato a svolgere attività di interesse pubblico. Ciò, al di là del fenomeno tradizionale della concessione, crea problemi di natura interpretativa sul concetto di Pubblica Amministrazione che, per forza di cose, dev’essere oggetto di una rivisitazione complessiva.

 

2.1 Il caso: l’interpretazione dell’articolo 202 del D.P.R. n. 3 del 1957 offerta dal T.A.R.

Il caso in esame rappresenta in modo adeguato il problema appena esposto, avendo riguardo appunto al concetto di pubblica amministrazione inteso in senso tradizionale o innovativo. Si tratta del ricorso svolto da un dipendente della Banca d’Italia nei confronti del Ministero della giustizia e vertente in ordine all’applicabilità dell’articolo 202 del Testo Unico degli impiegati civili dello Stato, il D.P.R. n. 3 del 1957. Tale disposizione afferma che, nel passaggio da un’amministrazione all’altra, qualora il nuovo impiego preveda una retribuzione inferiore a quello precedentemente svolto, lo si debba integrare con la parte residua per garantire la percezione del medesimo importo. Dunque, alla luce di questa disposizione, il lavoratore, risultato vincitore al concorso per la posizione di referendario presso il T.A.R., ne chiede l’applicazione alla propria posizione. L’amministrazione ministeriale invece nega che questa possa trovare accoglimento perché la norma si riferirebbe esclusivamente all’amministrazione centrale, ovvero quella dei singoli ministeri, e non anche agli enti pubblici.

Si pronuncia sulla questione il T.A.R. della Basilicata con la sentenza n. 421 del 1987, che accoglie le richieste del ricorrente. Il giudice articola le proprie conclusioni sulla base di tre motivazioni distinte. Anzitutto l’estensione del principio regolato dall’articolo 202 ad opera del legislatore ordinario in un’ampia serie di casi[2]; in secondo luogo in virtù della rilevanza pubblicistica delle funzioni svolte dalla Banca d’Italia (soprattutto per ciò che attiene il ruolo di vigilanza e difesa del credito e del risparmio, nonché l’attività di tesoreria per conto dello Stato). Infine, considerando l’articolo 14 della legge n. 1034 del 1971, che equipara i dipendenti degli enti pubblici a carattere nazionale agli altri dipendenti dello Stato ai fini del concorso a referendario del T.A.R.

 

2.2 L’interpretazione del Consiglio di Stato

Alla sentenza summenzionata si appella il Ministero, insistendo sulla circostanza che la disposizione non troverebbe applicazione se non nei confronti dei dipendenti dell’amministrazione centrale. A decidere sull’appello è la quarta sezione del Consiglio di Stato che, nella sentenza n. 499 del 1989[3], nega le motivazioni dell’appellante e conferma le argomentazioni addotte dal giudice di primo grado.

È significativo riscontrare la circostanza per cui il giudice di secondo grado, fa espressa menzione ad una significativa distinzione tra Stato-amministrazione e Stato-ordinamento. Nel primo ambito concettuale andrebbero ricondotte le diverse formazioni organizzative riconducibili allo Stato centrale (ovvero le strutture ministeriali), nel secondo invece si riporterebbero quei soggetti che, come la Banca d’Italia, pur non potendo considerarsi parte delle strutture portanti dello Stato, sono pur sempre volte a garantire l’esercizio della pubblica azione, e che dunque godono dell’applicazione delle medesime disposizioni.

A fronte dell’orientamento restrittivo perseguito dall’amministrazione appellante, viene preferito quello innovativo, in ragione delle motivazioni esposte nel corso dei due gradi di giudizio ed in particolare della necessità di offrire un’interpretazione al passo con le modifiche strutturali che andavano delineandosi nel corso di quegli anni e che si sono confermate nel periodo successivo.

 

3. Conclusioni: verso un nuovo modello di amministrazione.

Le due sentenze di cui s’è dato conto costituiscono un esempio evidente di come la giustizia amministrativa abbia saputo recepire le trasformazioni in atto nell’amministrazione ed adeguare in via interpretativa l’impianto normativo ad esse. L’evoluzione che tali strutture hanno subito negli ultimi anni ha confermato pienamente la bontà di questo indirizzo interpretativo, offrendo una vasta gamma di esempio nei quali la cura e la gestione dell’interesse pubblico è affidata a soggetti giuridici che non sono ascrivibili alla disciplina pubblicistica. Si pensi, in particolare, alle società di capitali che erogano servizi pubblici di importanza essenziale.

Queste circostanze dimostrano che, a differenza di quanto accadeva in passato, venuti meno i vincoli interpretativi ad una concezione “allargata” di pubblica amministrazione, quella che oggi risulta favorito non è la soggettività in sé (ossia l’elemento formale), quanto piuttosto la tipologia di attività svolte e la capacità a svolgerle (dunque, l’elemeno sostanziale).

 
 
 
 
 


[1] La definizione è di Bozeman B, Bretschneider S., The publicness puzzle in organization theory, a test of alternative explanations of difference between public and private organizations, in Journal of public administration research and theory, IV, 1994, pagg. 197 ss., in cui si sostiene che “Publicness is defined as a characteristic of an organizationwhich reflects the extent the organization is influenced bypolitical authority. The concept, operationalized as a seriesof interval measures, is placed in direct competition with thetraditional core definition of publicness as ownership (i.e.,formal legal status). Using a sample of research and developmentlaboratories, the two approaches are compared in terms of theirability to explain organizational outputs and process in thecontext of an explanatory model. The results suggest that bothapproaches tap unique characteristics of publicness and contributeto a more complete understanding of the role of publicness inthe study of organizations”.

[2] In particolare si prendono ad esempio le ipotesi di passaggio da giudice costituzionale a magistrato ordinario (secondo quanto previsto dall’articolo 2, comma 2, della legge n. 265 del 1958), ovvero il passaggio da impiegato civile ad insegnante universitario (in ragione del contenuto degli articoli 36 e 38 del DPR n. 382 del 1980), o, ancora, l’ipotesi del passaggio da sottoufficiale ad impiegato civile (disciplinato dall’art. 3 della l. 751 del 1957).

[3] È possibile rinvenire una sintetica esposizione di questa e della precedente sentenza in Cassese S., Fiorentino L., Sandulli A., Casi e materiali di diritto amministrativo, Bologna, 2001, pagg. 23 ss.

Sgueo Gianluca

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