Un freno alle regolarizzazioni di immigrati extra-comunitari da parte dell’Adunanza Plenaria: commento alla sentenza del Consiglio di Stato, Adunanza Plen., n. 4 del 31 marzo 2006.

Foresti Enrico 18/05/06
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Con il decreto-legge 9 settembre 2002, n. 195 (convertito dalla legge 9 ottobre 2002, n. 222) il Governo estese a tutti i lavoratori extra-comunitari clandestini la possibilità di regolarizzazione, che la legge 30 luglio 2002 n. 189 aveva previsto esclusivamente per i lavoratori domestici (colf e badanti).
La norma in questione prevedeva che “chiunque, nell’esercizio di un’attività di impresa…ha occupato, nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore del presente decreto, alle proprie dipendenze lavoratori extracomunitari in posizione irregolare, può denunciare, entro la data dell’11 novembre 2002, la sussistenza del rapporto di lavoro alla Prefettura – Ufficio territoriale del Governo competente per territorio, mediante la presentazione, a proprie spese, di apposita dichiarazione attraverso gli uffici postali”.
L’interpretazione della suddetta disposizione, nella parte in cui richiedeva che il lavoratore straniero fosse stato occupato “nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore” del decreto (ovverosia nel periodo dal 10 giugno 2002 al 10 settembre 2002), ha dato luogo a contrasti giurisprudenziali: l’orientamento prevalente formatosi nei TAR ha letto tale requisito in senso estensivo, ritenendo che fossero regolarizzabili i lavoratori che avessero prestato la loro opera nel trimestre considerato, anche se non in maniera continuativa[1]; il Consiglio di Stato, invece, con alcune decisioni rese in forma semplificata dalla Quarta Sezione[2], ha ritenuto presupposto necessario che lo straniero avesse lavorato continuativamente per tutti e tre i mesi precedenti l’entrata in vigore del decreto.
Con ordinanza depositata in data 15 novembre 2005 n. 6364 la Sezione Sesta del Consiglio di Stato, pur ritenendo di aderire all’orientamento maggioritario espresso dai Tribunali Amministrativi di primo grado, ha rimesso la questione all’Adunanza Plenaria, al fine di prevenire ulteriori contrasti giurisprudenziali.
La pronuncia in esame, n. 4 del 31 marzo 2006 (alla quale fa seguito la sentenza “gemella” n. 5 in pari data), sposa l’interpretazione restrittiva della norma, giungendo ad affermare che solo un’occupazione che si sia protratta continuativamente per tutto il periodo di tre mesi previsto dalla norma citata sia “idonea ad offrire un sufficiente affidamento per la esistenza di un serio impegno lavorativo e la effettiva prosecuzione e la possibile successiva stabilizzazione del rapporto, apparendo chiaramente estranea alle finalità delle norme in parola quella di assecondare iniziative concernenti situazioni le quali, per la scarsa durata e per la conseguente precarietà che le caratterizza, possono rappresentare la dissimulazione di un rapporto fittizio o sorto unicamente per la sola finalità della regolarizzazione”.
Se le conclusioni alle quali giungono i Giudici di Palazzo Spada sembrano, almeno nelle intenzioni, condivisibili, nella parte in cui intendono limitare la regolarizzazione ai soli rapporti lavorativi connotati da un minimum di certezza e stabilità, ciò che appare poco convincente è l’iter logico seguito e le motivazioni poste alla base della decisione.
Gli argomenti fondamentali a sostegno di siffatta interpretazione sono quattro: 1) il dato letterale della norma; 2) il versamento per i contributi previdenziali, che sarebbe commisurato alla durata dell’intero trimestre lavorativo; 3) la necessità di evitare elusioni fraudolente della legge; 4) la ratio perseguita dal legislatore con la norma in questione.
In aderenza a quanto disposto dall’art. 12 delle disposizioni preliminari al codice civile[3], il punto di partenza per l’analisi ermeneutica della norma è il dato letterale, il quale recita testualmente: “chiunque, nell’esercizio di un’attività di impresa…ha occupato, nei tre mesi antecedenti la data di entrata in vigore del presente decreto, alle proprie dipendenze lavoratori extracomunitari in posizione irregolare…”.
Il Consiglio di Stato, pur riconoscendo che “il testo non appare univoco, indicando soltanto un arco temporale ‘nel’ corso del quale deve essersi verificata la ‘occupazione’ del lavoratore extracomunitario”, afferma che se il legislatore avesse voluto escludere la necessità di un impiego protratto continuativamente per tre mesi avrebbe utilizzato il verbo “assumere” in luogo di “occupare”.
Viene immediatamente da obiettare che, allo stesso modo, si potrebbe ritenere che se il legislatore avesse voluto introdurre un requisito temporale continuativo, avrebbe utilizzato la preposizione “per” anziché “in”, ossia avrebbe detto: “ha occupato, per i tre mesi antecedenti”, invece che “ha occupato, nei tre mesi antecedenti”, oppure avrebbe utilizzato espressioni diverse, quali ad esempio “nei tre mesi continuativi”, “ininterrottamente nei tre mesi precedenti”, ovvero ”in tutto il periodo dei tre mesi antecedenti”[4].
Peraltro, il verbo “occupare” assume il generico significato di “far lavorare”, e non osta ad una interpretazione della norma in senso più ampio rispetto a quanto ritenuto dall’Adunanza.
A me sembra, piuttosto, che il dato letterale possa suffragare entrambe le soluzioni, senza acquisire rilievo decisivo in nessuna delle due, ma che non si possa affermare, in maniera netta, che una accezione estensiva della disposizione in parola “risulterebbe in realtà incompatibile con il sistema delineato dalle diverse disposizioni della normativa in questione, oltrechè dalle finalità proprie della normativa stessa”.
Il secondo argomento addotto a sostegno dell’interpretazione restrittiva è costituito dall’obbligo di versamento forfettario di Euro 700 per ciascun lavoratore del quale si chiede la regolarizzazione, richiesto dall’art. 1 comma terzo lett. b) del decreto legge n. 195/2002: tale norma è simile a quella contenuta all’art. 33 comma terzo, lett. a) della legge n. 189/2002, la quale prevede, ai fini della regolarizzazione di un lavoratore domestico, il “pagamento di un contributo forfettario, pari all’importo trimestrale corrispondente al rapporto di lavoro dichiarato, senza aggravio di ulteriori somme a titolo di penali ed interessi”.
A detta del Consiglio di Stato, non avrebbe senso commisurare all’intero trimestre il contributo dovuto per la regolarizzazione, se non si sottointendesse l’obbligo di aver occupato per tutto il suddetto arco temporale il lavoratore straniero.
In realtà, il decreto legge n. 195/2002 non commisura affatto il contributo dovuto al trimestre, ma, anzi, lo determina forfettariamente nella somma di Euro 700, senza nemmeno distinguere in base al tipo di lavoro svolto, ponendosi così su un piano nettamente diverso rispetto alla disposizione di cui alla legge n. 189/2002.
E non sembra sufficiente richiamare l’analogia delle due normative per giungere alla conclusione che anche il contributo forfettario di 700 Euro sia commisurato all’intero trimestre, e che la somma sia stata quantificata in misura forfettaria solo quale “mezzo pratico di semplificazione della complessa procedura di regolarizzazione prevista dalla legge”: se le due disposizioni fossero analoghe, non si comprenderebbe perché nella legge n. 189/2002 il contributo è invece espressamente commisurato “all’importo trimestrale corrispondente al rapporto di lavoro dichiarato”.
E’ vero che la finalità del legislatore era quella di uniformare i presupposti e l’applicazione delle due normative (art. 33 della l. 189/2002 per la regolarizzazione dei lavoratori domestici, e d.l. n. 195/2002 per la regolarizzazione di tutti i lavoratori extra-comunitari), ma la conclusione dell’Adunanza sembra forzare eccessivamente il diverso tenore letterale delle due norme.
E la giustificazione che la quantificazione forfettaria dell’importo in Euro 700 costituisca nient’altro che un “mezzo pratico di semplificazione” appare, francamente, troppo debole e poco argomentata per risultare convincente[5].
L’argomento esaminato, dunque, non appare decisivo per sostenere la necessità di una occupazione del lavoratore straniero per l’intero periodo di riferimento.
Ulteriore sostegno ad una interpretazione rigorosa della norma viene individuato dai Giudici di Palazzo Spada nella “esigenza di evitare il rischio di assecondare tentativi di utilizzazione fraudolenta della procedura di regolarizzazione, mediante la incontrollata stipula di contratti con lavoratori stranieri privi di permesso di soggiorno e la precostituzione di situazioni meramente apparenti e fittizie, in epoca immediatamente antecedente alla emanazione del decreto legge”.
Mi sembra che a tale affermazione possa essere mosso un triplice ordine di obiezioni.
In primo luogo, vi è da domandarsi quale sia la finalità della funzione nomofilattica, ossia se in essa vada ricompresa anche la ricerca di una soluzione interpretativa che impedisca l’elusione della norma, o se, piuttosto, il compito del Giudice sia solo quello di ricercare la certezza del diritto, fine che si raggiunge attraverso l’individuazione della voluntas legi, che non può non essere unica prima ancora che univoca.
Dunque, se tale premessa è corretta, la preoccupazione dell’Adunanza Plenaria appare andare ben oltre le finalità sue proprie, non dovendo il Giudice lasciarsi sviare nell’interpretazione della legge dalla preoccupazione che la norma da applicare possa essere violata.
Ma, oltre tutto, anche una interpretazione restrittiva della disposizione in esame non ridurrebbe le possibilità di elusione fraudolenta della stessa: un datore di lavoro, così come avrebbe potuto falsamente dichiarare di aver occupato un lavoratore alle proprie dipendenze, avrebbe ben potuto mentire anche sulla durata di tale rapporto.
Infine, lungi dall’evitare fraudolente applicazioni della norma, una interpretazione restrittiva potrebbe generare una ingiustificata disparità di trattamento tra coloro i quali sono entrati regolarmente in Italia e coloro che invece si sono introdotti clandestinamente, a vantaggio di questi ultimi, giungendo a conseguenze paradossali: si faccia l’ipotesi di uno straniero entrato regolarmente in Italia nell’arco temporale tra il 10 giugno e il 10 settembre 2002 (ad esempio con un visto turistico), e che poi abbia trovato lavoro; questo straniero non potrebbe regolarizzarsi, perché il timbro di ingresso sul passaporto dimostrerebbe una permanenza in Italia per meno di tre mesi, e dunque farebbe difetto il requisito dell’occupazione per tutto il trimestre precedente l’entrata in vigore del decreto. Invece un clandestino potrebbe falsamente dichiarare di essere entrato in Italia prima del 10 giugno (addirittura anche nell’ipotesi in cui fosse entrato dopo il 10 settembre ma prima dell’11 novembre, data di scadenza per la presentazione delle domande di regolarizzazione) poiché non ha alcun timbro di ingresso, ed accedere così con successo alla procedura di regolarizzazione.
Solo un’interpretazione meno rigorosa del requisito temporale eviterebbe conseguenze tanto paradossali quanto ingiuste, che finirebbero per premiare l’illegalità.
Veniamo, da ultimo, all’esame dell’ultimo argomento affrontato nella pronuncia in questione, ossia la finalità della disposizione in esame, costituita dalla necessità di non “assecondare iniziative concernenti situazioni le quali, per la scarsa durata e per la conseguente precarietà che le caratterizza, possono rappresentare la dissimulazione di un rapporto fittizio o sorto unicamente per la sola finalità della regolarizzazione”.
Anche se in linea di principio l’assunto pare condivisibile, tale finalità è stata garantita dal legislatore in modo diverso, ovvero consentendo la regolarizzazione solo per i rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato ovvero di durata non inferiore ad un anno, con esclusione, quindi, di tutte quelle forme di lavoro “precarie” che non garantivano una adeguata stabilità e che avrebbero potuto prestarsi a facili manipolazioni della norma.
E’ in questa disposizione, più che nel requisito temporale dei tre mesi, che si ravvisa la precisa volontà del legislatore (peraltro emersa anche in sede di discussione in aula del provvedimento ed oggetto di numerose critiche) di inserire nel tessuto sociale solo gli stranieri che, per dirla con le parole del Consiglio di Stato, garantissero un “serio impegno lavorativo”.
Ed anzi, affermare – come fa l’Adunanza Plenaria – che solo l’impiego per tutto il trimestre indurrebbe un sufficiente affidamento su di una “possibile successiva stabilizzazione del rapporto” non tiene conto proprio del fatto che tale necessità è stata prevista dal legislatore, e garantita attraverso l’introduzione sì di un requisito temporale, ma relativo al periodo successivo alla instaurazione di un regolare rapporto di lavoro, e non a quello precedente.
In conclusione, una sentenza che contribuisce a restringere ulteriormente le già anguste maglie della rete attraverso cui gli stranieri extra-comunitari devono passare per ottenere il permesso di soggiornare e lavorare in Italia, ma che lascia molti dubbi per le argomentazioni svolte in motivazione, e che rischia, come detto, di generare situazioni paradossali nelle quali, alla fine, verrà premiata l’illegalità a tutto svantaggio di coloro i quali abbiano invece scelto la strada tracciata dalla legge per entrare in Italia: l’esigenza di garantire la legalità, che in subiecta materia dovrebbe rimanere una preoccupazione del potere politico, – attraverso la predisposizione degli opportuni strumenti giuridici, ivi comprese norme di chiara e facile interpretazione -, ove si traduca in un eccesso non può che condurre a risultati poco felici non solo sotto il profilo giuridico, ma anche in relazione ad ovvie esigenze di equità sociale. Summum ius summa iniuria, dicevano i latini.
Avv. Enrico Foresti
 
 
 
 
 


[1] Ex plurimis, Tar Emila-Romagna, Parma, 23 marzo 2003 n. 148; TAR Veneto, n. 264/2004; Tar Lombardia, Brescia, 14 gennaio 2005 n. 43 la quale, peraltro, sembra costituire un tertium genus rispetto ai due orientamenti contrapposti, dal momento che interpreta il requisito temporale in maniera non restrittiva, a condizione che l’istante fornisca prova dell’esistenza di un rapporto di lavoro con i connotati della “serietà ed effettività”.
[2] Cons. Stato, Sezione Quarta, 13 aprile 2005 n. 1712; Cons. Stato, Sez. Quarta, 14 luglio 2005 n. 5085; Cons. Stato, Sezione Quarta, 14 luglio 2005 n. 5088.
[3] “Nell’applicare la legge non si può ad essa attribuire altro senso che quello fatto palese dal significato proprio delle parole secondo la connessione di esse, e dalla intenzione del legislatore”.
[4] A tali osservazioni sono giunti Cons. Stato, Sezione Sesta, ordinanza n. 6364/05 con la quale la questione è stata rimessa all’Adunanza Plenaria, e anche la citata sentenza del TAR Emilia-Romagna, Parma, n. 148/2003.
[5] Ben più convincente, a parere di chi scrive, è l’orientamento seguito dalla Sesta Sezione del Consiglio di Stato, nella citata ordinanza di rimessione della questione all’Adunanza Plenaria: “Solo in una delle due norme [l’art. 33 della legge n. 189/2002], peraltro non applicabile al caso di specie, il contributo è commisurato all’importo trimestrale, ma con l’espressa qualificazione del carattere forfetario del contributo; il che esclude la rilevanza al fine dell’interpretazione del termine ‘nei tre mesi’ utilizzato nelle norme in esame. In relazione alla fattispecie in esame, il contributo, sempre definito forfetario, è addirittura del tutto sganciato dal trimestre e quantificato in 700 euro direttamente dal legislatore. […] deve ritenersi che dalla disposizione relativa al pagamento del contributo non possano trarsi elementi a favore della tesi restrittiva secondo cui il lavoratore deve essere stato occupato per l’intero trimestre di riferimento”.

Foresti Enrico

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