La Consulta dichiara non illegittime le modifiche apportate all’art. 346-bis cod. pen. da parte della legge n. 114 del 2024: vediamo in che modo. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.
Indice
- 1. Il caso e la rilevanza del nuovo art. 346-bis nel procedimento a Roma
- 2. L’ordinanza di rimessione: il (presunto) contrasto con l’art. 12 Strasburgo e gli artt. 11 e 117 Cost.
- 3. La decisione della Consulta: obbligo di incriminazione sì, ma con margini di discrezionalità nazionale
- 4. Esito del giudizio e monito al legislatore: disciplina del lobbying e tutela del buon andamento
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1. Il caso e la rilevanza del nuovo art. 346-bis nel procedimento a Roma
Il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Roma stava celebrando un’udienza preliminare nei confronti di numerosi imputati, persone fisiche e società, in un procedimento nel quale sono contestati, tra gli altri, i delitti di traffico di influenze illecite, di riciclaggio e autoriciclaggio, nonché i corrispondenti illeciti amministrativi da reato.
In particolare, in relazione a tale vicenda procedurale, e anticipando dunque la trattazione delle questioni, che esamineremo da qui a breve, in punto di rilevanza, siffatto organo giudicante doveva fare applicazione dell’art. 346-bis cod. pen. per decidere tanto sulla richiesta di applicazione della pena formulata da uno degli imputati, quanto sull’istanza di rinvio a giudizio nei confronti degli altri (che non hanno richiesto riti alternativi).
Ebbene, a fronte del fatto che le imputazioni prospettate dalla pubblica accusa avevano a oggetto una «mediazione onerosa», finalizzata «alla commissione di fatti che, nella legislazione all’epoca vigente, costituivano ipotesi di abuso di ufficio (art. 323 c.p.) a vantaggio indebito di privati», senonché, a seguito dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio e della riduzione del perimetro applicativo della fattispecie di traffico di influenze illecite ad opera della legge n. 114 del 2024, il fatto contestato a taluni di codesti accusati sarebbe stato ormai privo di rilevanza penale. Per supporto ai professionisti, abbiamo preparato uno strumento di agile consultazione, il “Formulario annotato del processo penale 2025”, giunto alla sua V edizione, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon, e il Codice Penale e norme complementari 2026 – Aggiornato a Legge AI e Conversione dei decreti giustizia e terra dei fuochi, acquistabile sullo Shop Maggioli e su Amazon.
2. L’ordinanza di rimessione: il (presunto) contrasto con l’art. 12 Strasburgo e gli artt. 11 e 117 Cost.
Il Tribunale capitolino, a proposito della vicenda giudiziaria summenzionata, sollevava questioni di legittimità costituzionale dell’art. 1, comma 1, lettera e), della legge 9 agosto 2024, n. 114 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale, all’ordinamento giudiziario e al codice dell’ordinamento militare), che ha sostituito l’art. 346-bis del codice penale, in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 giugno 2012, n. 110 (di seguito: Convenzione di Strasburgo).
Nel dettaglio, se, in punto di rilevanza, si rinvia a quanto enunciato poco prima, il giudice a quo notava per di più, che, anche in punto di ammissibilità, una delle eccezioni alla preclusione del sindacato di legittimità costituzionale in materia penale con effetti in malam partem (come quelli che si determinerebbero dalla auspicata reviviscenza della fattispecie incriminatrice precedente alla legge n. 114 del 2024) era stata individuata dalla giurisprudenza costituzionale nel contrasto della disposizione censurata con obblighi sovranazionali rilevanti ai sensi degli artt. 11 e 117 Cost. (sono richiamate, tra le altre, le sentenze n. 37 del 2019 e n. 8 del 2022).
Orbene, per questo giudice, tale ipotesi ricorrerebbe nel caso di specie, nel quale il legislatore avrebbe violato «un vero e proprio obbligo di incriminazione» del traffico di influenze illecite, discendente dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo.
Precisato ciò, per quanto invece afferisce la non manifesta infondatezza delle questioni, il giudice rimettente si soffermava sull’evoluzione della fattispecie incriminatrice di cui all’art. 346-bis cod. pen., introdotta con la legge 6 novembre 2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione) e riformulata una prima volta con la legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), il che era fatto nei seguenti termini: “Con l’intervento del 2019, in attuazione dell’obbligo internazionale derivante dalla Convenzione penale sulla corruzione, il legislatore avrebbe ampliato l’area di applicabilità del delitto, punendo con la reclusione da un anno a quattro anni e sei mesi la condotta di chi, fuori dei casi di concorso in corruzione propria e impropria, «sfruttando o vantando relazioni esistenti o asserite con un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione illecita verso un pubblico ufficiale o un incaricato di un pubblico servizio o uno degli altri soggetti di cui all’articolo 322-bis, ovvero per remunerarlo in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri», pena estesa anche a «chi indebitamente dà o promette denaro o altra utilità». La legge n. 114 del 2024, con la disposizione censurata, avrebbe invece ridotto «in misura consistente» il perimetro applicativo della fattispecie sotto plurimi profili: a) in primo luogo, la mediazione illecita dovrebbe ora consistere nella «utilizzazione intenzionale di relazioni esistenti con l’agente pubblico», con esclusione di quelle meramente «asserite»; b) l’utilità data o promessa, poi, sarebbe limitata al denaro o ad altra utilità «economica»; c) infine, la mediazione onerosa sarebbe penalmente rilevante soltanto in quanto finalizzata alla commissione, da parte dell’agente pubblico, di «un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato dal quale possa derivare un vantaggio indebito». La contestuale abrogazione dell’abuso di ufficio, operata dalla stessa legge n. 114 del 2024, avrebbe reso la fattispecie di cui al modificato art. 346-bis cod. pen. «di difficile, se non impossibile, applicazione» nei casi di mediazione onerosa (quale quello di cui si discute nel giudizio a quo), in quanto «uno dei reati più frequentemente obiettivo della mediazione onerosa era proprio l’abuso d’ufficio»”.
Tanto premesso, il giudice a quo sottolineava il carattere cogente della disposizione dell’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, evidenziato dall’espressione «shall adopt […] as criminal offences». Dalla Convenzione, quindi, discenderebbe un «vero e proprio obbligo di incriminazione» del traffico di influenze in capo agli Stati parte e non già una mera «raccomandazione» o un «obbligo a prendere in considerazione», come previsto invece, sempre per il traffico di influenze, dalla Convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione, adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 31 ottobre 2003, ratificata e resa esecutiva con la legge 3 agosto 2009, n. 116 (di seguito: Convenzione di Mérida).
Ebbene, alla luce del citato art. 12 della Convenzione di Strasburgo, che individua un nucleo minimo di condotte che debbono essere necessariamente oggetto di incriminazione, il giudice romano osservava come il legislatore italiano avrebbe in particolare il dovere di assicurare rilievo, ai fini della punibilità, allo sfruttamento da parte del mediatore di relazioni «non solo esistenti ma anche asserite/millantate», come pure alla promessa o dazione, quale contropartita della condotta illecita, di «qualsiasi vantaggio indebito e non solo [di] utilità economiche», tenuto conto altresì del fatto che la suddetta Convenzione non limiterebbe «il concetto di mediazione illecita a quella diretta a far commettere al funzionario pubblico un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato», né potrebbe ritenersi che la definizione convenzionale del traffico di influenze, «nel delineare in maniera dettagliata le condotte che devono essere previste come reato dagli stati membri (quale “contenuto minimo”)», si ponga essa stessa in contrasto con i principi di tassatività e determinatezza della norma incriminatrice ricavabili dall’art. 25, secondo comma, Cost. «ovvero con altri principi fondamentali della Carta Costituzionale»; sicché essa ben potrebbe essere assunta quale parametro interposto nel giudizio di legittimità costituzionale, né, ancora, potrebbero essere fatte valere le riserve apposte dal Governo italiano al momento del deposito della ratifica della Convenzione di Strasburgo con riguardo al traffico di influenze illecite, valendosi della facoltà prevista dall’art. 37 della Convenzione stessa, poiché lo Stato italiano avrebbe deciso di non confermarle all’atto della approvazione della legge n. 3 del 2019.
In conclusione, alla stregua delle considerazioni sin qui esposte, il rimettente dubitava della legittimità costituzionale della disposizione censurata perché avrebbe circoscritto la fattispecie incriminatrice a «un novero di condotte assai più limitate rispetto al “contenuto minimo” previsto dall’art. 12» della Convenzione di Strasburgo.
Più specificamente, essa dovrebbe ritenersi costituzionalmente illegittima, «per quanto rileva nel caso di specie, nella parte in cui, nel richiedere che la mediazione illecita sia solo quella finalizzata alla commissione di un atto contrario ai doveri d’ufficio costituente reato, non prevede, tra le possibili finalità della condotta, i fatti rientranti [n]ella ormai abrogata ipotesi di abuso di ufficio».
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3. La decisione della Consulta: obbligo di incriminazione sì, ma con margini di discrezionalità nazionale
La Corte costituzionale – dopo avere ricostruito la vicenda da cui erano scaturite le suddette questioni di legittimità costituzionale, avere ricapitolato il contenuto della norma convenzionale assunta a parametro interposto, ossia l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, ripercorso la successione delle disposizioni con le quali è stata data attuazione all’obbligo convenzionale dal 2012 ad oggi, perimetrato l’oggetto del giudizio sottoposto al suo vaglio giuridico, riteneva fondata, in primo luogo, l’eccezione, sollevata da una delle difese degli imputati nella propria memoria integrativa, di inammissibilità della questione formulata in riferimento all’art. 11 Cost., essendo stato evocato quale parametro interposto esclusivamente l’art. 12 della Convenzione di Strasburgo: e cioè una norma di diritto internazionale pattizio, che non è idonea a integrare il parametro di cui all’art. 11 Cost (sentenza n. 95 del 2025, punto 5.3. del Considerato in diritto).
Premesso ciò, dopo essere state respinte le eccezioni sollevate dall’Avvocatura dello Stato, il Giudice delle leggi reputava la questione residua da doversi affrontare, ossia quella posta in relazione all’art. 117, co. 1, Cost., infondata.
In particolare, i giudici di legittimità costituzionale osservavano prima di tutto che dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo discende un obbligo, a carico degli Stati contraenti, di criminalizzare le condotte di traffico di influenze, evidenziando al contempo che tale obbligo vincola, nella sua integralità, anche l’Italia, che nel 2019 non ha rinnovato le riserve apposte all’atto della ratifica della Convenzione.
Oltre a ciò, veniva altresì fatto presente che, se frequentemente accade che gli strumenti internazionali pattizi che impongono obblighi di criminalizzazione utilizzino, nella descrizione della fattispecie, formule volutamente elastiche e generiche, ciò non fa venir meno la vincolatività dell’obbligo, ma apre uno spazio di discrezionalità per il legislatore nazionale, sul quale incombe l’obbligo costituzionale di formulare con precisione l’ambito applicativo della norma incriminatrice che attua l’obbligo internazionale, facendosene conseguire da ciò come la descrizione della fattispecie di traffico di influenze contenuta nell’art. 12 della Convenzione lasci significativi margini di discrezionalità ai legislatori nazionali quanto alla definizione del concetto di «improper influence over the decision-making» del pubblico agente, che il mediatore si impegna a esercitare in cambio del pagamento o della promessa di un compenso.
Il legislatore italiano del 2024 ha in effetti utilizzato tale discrezionalità tracciando i confini della fattispecie di traffico di influenze in senso indubbiamente restrittivo, ma a giudizio della Corte costituzionale non incompatibile con l’obbligo discendente dall’art. 12 della Convenzione, vale a dire l’obbligo, a carico dello Stato contraente, di prevedere come reati nell’ordinamento nazionale («establish as criminal offences under its domestic law») le condotte ivi descritte, denominate sinteticamente nella rubrica come «Trading in influence».
Del resto, per la Corte, che si tratti di un vero e proprio obbligo di criminalizzazione, risulta evidente dalla formula utilizzata – «shall adopt» –, che marca una essenziale differenza rispetto al linguaggio utilizzato dall’art. 18 della Convenzione di Mérida delle Nazioni Unite, ove invece si utilizza, rispetto alla fattispecie di traffico di influenze, la più blanda espressione «shall consider adopting» (sul cui significato, in relazione alla fattispecie di abuso di ufficio, sentenza n. 95 del 2025, punto 7.3.1. del Considerato in diritto), tenuto conto altresì del fatto che, confermano tale conclusione, ad abundantiam, la collocazione della norma nel capitolo dedicato alle «Measures to be taken at national level» (ossia alle misure che debbono essere adottate a livello nazionale); la concomitante imposizione di un obbligo di adottare sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive, comprese, quando i reati sono commessi da persone fisiche, quelle privative della libertà che possano dar luogo all’estradizione (art. 19, paragrafo 1); l’altrettanto vincolante previsione di introdurre misure che consentano la confisca o l’apprensione in altro modo degli strumenti e del prodotto dei reati, diretta e per equivalente (art. 19, paragrafo 3).
D’altronde, per il Giudice delle leggi, l’esistenza di un tale obbligo non è affatto “depotenziata” dalla previsione, nel successivo art. 37, della possibilità per lo Stato di apporre riserve, aventi a oggetto tra l’altro l’art. 12; né dalla circostanza che l’ordinamento penale di vari Stati contraenti non preveda il reato di traffico di influenze poiché l’art. 37 prova, semmai, il contrario: ossia che lo Stato contraente, una volta che abbia ratificato la Convenzione, deve considerarsi vincolato all’obbligo discendente dall’art. 12, a meno che abbia formulato specifiche riserve rispetto a tale obbligo, né depone nel senso dell’insussistenza dell’obbligo la circostanza che la proposta della Commissione europea di direttiva in materia di corruzione (UE COM-2023-234 final) preveda espressamente un obbligo di criminalizzazione del traffico di influenze: ciò che – secondo l’Avvocatura dello Stato e una delle difese– sarebbe indicativo della consapevolezza della insussistenza di un obbligo siffatto nel diritto internazionale, risultando altrimenti inutile la sua riproduzione in uno strumento unionale.
Ebbene, per la Corte di legittimità, siffatto argomento non coglie nel segno posto che, se, da un lato, è del tutto usuale che il diritto dell’Unione sostanzialmente riproduca, anche in materia penale, obblighi già previsti a carico degli Stati membri dal diritto internazionale pattizio allo scopo di conferire a tali obblighi la speciale vincolatività loro assicurata dalla fonte unionale – ciò che comporta, tra l’altro, l’esposizione dello Stato membro inadempiente al procedimento per infrazione ai sensi degli artt. 258 e 260 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, dall’altro, proprio la circostanza che una parte degli Stati parte della Convenzione di Strasburgo (come la Germania o i Paesi Bassi), giovandosi delle riserve a suo tempo apposte, tuttora non abbiano previsto l’incriminazione in parola nei rispettivi ordinamenti nazionali, conferma l’utilità pratica, dal punto di vista della Commissione europea, di prevedere un obbligo unionale che vincoli anche questi Stati a provvedere in tal senso.
Invero, se, all’atto della ratifica della Convenzione, l’Italia ha formulato, ai sensi dell’art. 37, due riserve all’art. 12, con lo scopo di circoscrivere l’obbligo di configurare il delitto di traffico di influenze in termini corrispondenti a quelli risultanti dalla versione originaria dell’art. 346-bis cod. pen., introdotta dalla legge n. 190 del 2012, e in particolare per essere autorizzata a limitare l’incriminazione al contesto di una relazione esistente tra il mediatore e il pubblico agente, nonché ad un accordo che avesse a oggetto la remunerazione dello stesso pubblico agente per una condotta di quest’ultimo contraria ai doveri d’ufficio, tuttavia, alla loro scadenza tali riserve non sono state reiterate dal Governo, conformemente a quanto previsto dall’art. 1, comma 10, della legge n. 3 del 2019. Conseguentemente, l’obbligo posto dall’art. 12 della Convenzione vige ormai nella sua integralità nei confronti dell’Italia.
Il nodo che la Consulta riteneva di dovere sciogliere concerneva, a suo avviso, piuttosto, non già l’esistenza dell’obbligo posto dall’art. 12, ma la sua concreta estensione, nel senso di doversi stabilire se il legislatore del 2024, restringendo nel senso precedentemente descritto la portata dell’incriminazione del traffico di influenze illecite, abbia o meno violato l’obbligo medesimo.
Inquadrata la tematica da doversi affrontare nei seguenti termini, prima di affrontare tale quesito, la Consulta reputava necessario chiarire prima un punto preliminare, in risposta agli argomenti dell’interveniente e delle parti, che avevano variamente insistito sulla vaghezza e imprecisione dell’art. 12 della Convenzione, ponendo in dubbio la compatibilità con la Costituzione di tale obbligo, in riferimento al principio di tassatività o sufficiente precisione in materia penale, corollario a sua volta del principio di legalità di cui all’art. 25, secondo comma, Cost..
Orbene, per la Corte costituzionale, nemmeno tali argomenti coglievano nel segno essendo stato rilevato, nella pronuncia qui in commento, a sostegno di tale valutazione giuridica, le seguenti considerazioni: “Il principio di legalità in materia penale obbliga certamente il legislatore nazionale a prevedere in termini precisi i contorni di ogni incriminazione, sì da fornire un chiaro avvertimento ai consociati circa l’estensione del precetto penalmente sanzionato, e da impedire che l’individuazione del confine tra lecito e illecito sia rimessa alla libera interpretazione del giudice, in violazione dello stesso principio della separazione dei poteri; garantendo così, al tempo stesso, l’uniformità dell’applicazione della norma penale, in conformità al principio dell’eguaglianza di tutti di fronte alla legge (su tale principio, sentenze n. 110 del 2023, punto 4.3.2.1 del Considerato in diritto; n. 98 del 2021, punto 2.4. del Considerato in diritto; n. 134 del 2019, punto 3.2. del Considerato in diritto e, più recentemente, sentenza n. 54 del 2024, punto 4 del Considerato in diritto). Ma tale principio vincola, appunto, il legislatore italiano nel momento in cui introduce nell’ordinamento domestico una legge penale; non già gli Stati (compreso quello italiano) nella fase di negoziazione e ratifica di uno strumento internazionale che ponga obblighi di incriminazione. Simili obblighi sono, anzi, fisiologicamente connotati dall’uso di formule elastiche e relativamente generiche, che assicurano agli Stati contraenti la discrezionalità indispensabile per adattare l’obbligo di raggiungere le finalità indicate dallo strumento internazionale in maniera congeniale alle peculiarità di ciascun ordinamento nazionale: e in particolare alle sue specifiche categorie normative (strettamente connesse alla tradizione normativa nazionale), al complessivo sistema in cui l’incriminazione andrà a inserirsi, nonché ai vincoli domestici di natura costituzionale, che possono anch’essi differire da uno Stato contraente all’altro. È ben possibile, dunque, che lo strumento internazionale che stabilisca un obbligo di criminalizzazione utilizzi formulazioni ampie che, se trasposte meccanicamente nella legislazione penale del singolo Stato, darebbero luogo a una violazione del principio di legalità in materia penale. Spetterà in tal caso al legislatore nazionale configurare la legge incriminatrice nell’ordinamento interno in maniera tale da assicurarne la conformità agli scopi perseguiti dal trattato, così come interpretati alla luce del generale criterio di buona fede di cui all’art. 31, paragrafo 1, della Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati, assicurando al contempo che i contorni dell’incriminazione siano tracciati in forma precisa, in ossequio al vincolo costituzionale discendente, nel nostro Paese, dall’art. 25, secondo comma, Cost.”.
Ciò premesso, la Consulta, pur ritenendo di dovere riconoscere che l’obbligo, stabilito dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo, di incriminare la condotta di chi promette, dà od offre indebiti vantaggi a chi asserisca o confermi di essere in grado di esercitare «an improper influence over the decision-making» di un pubblico agente – e correlativamente la condotta di chi riceve i vantaggi affermando di essere in grado di esercitare tale impropria influenza – presenta un notevole tasso di elasticità, che rende necessaria un’opera di concretizzazione e precisazione da parte del legislatore nazionale, osservava però come la disposizione de qua non precisi, in effetti, che cosa debba intendersi per «improper influence»; e anzi il corrispondente testo francese della Convenzione, parimenti ufficiale, è sul punto ancor più generico, richiedendo che oggetto della pattuizione sia l’impegno a «exercer une influence» sulla decisione del pubblico agente, senza ulteriori qualificazioni.
L’Explanatory Report della Convenzione – rilevante quale mezzo complementare di interpretazione ai fini della ricostruzione del significato del trattato ai sensi dell’art. 32 della citata Convenzione di Vienna sul diritto dei trattati – illustra infatti lo scopo dell’incriminazione, la cui introduzione è richiesta agli Stati contraenti, mirando essa a tutelare la trasparenza e l’imparzialità nel processo decisionale delle pubbliche amministrazioni, colpendo il «corrupt behaviour» delle persone che sono nelle vicinanze del potere e cercano di ottenere vantaggi da questa posizione, ciò che contribuisce a creare quella che lo stesso Report definisce una «atmosfera di corruzione», o «sottofondo di corruzione», che mina la fiducia posta dai cittadini nella imparzialità e correttezza della pubblica amministrazione.
Del resto, il successivo paragrafo 65, dal canto suo, individua l’essenza del reato nell’impegno, che il mediatore («peddler») assume nei confronti di chi gli corrisponda o prometta un indebito vantaggio, di esercitare una «improper influence» sul processo decisionale del pubblico agente stesso, precisando in proposito che una «“[i]mproper influence” must contain a corrupt intent by the influence peddler: acknowledged forms of lobbying do not fall under this notion».
Ebbene, per la Corte, proprio in relazione a siffatto ultimo aspetto, occorreva precisare, in primo luogo, che il concetto di «corrupt intent» richiama, evidentemente, la nozione di «corruption»: termine che, in inglese, ha un’area semantica più ampia rispetto all’italiano “corruzione” (indicato come «bribery» nel linguaggio convenzionale), comprendendo la generalità dei reati commessi contro la pubblica amministrazione, che ne turbano il corretto e imparziale funzionamento, trovando ciò conferma, del resto, nella circostanza che la stessa Convenzione di Strasburgo, così come la parallela Convenzione di Mérida adottata nell’ambito delle Nazioni Unite, si autoqualificano come dirette a combattere la corruzione, prevedendo però al loro interno obblighi di incriminazione relativi a una pluralità di condotte che nel nostro ordinamento sono riconducibili a diversi titoli di reato. I paragrafi 2 e 3 dell’Explanatory Report confermano, del resto, che non è individuabile, a livello internazionale, una nozione universalmente condivisa di “corruzione”.
In secondo luogo, se, al passo citato del paragrafo 65, si afferma che le forme “riconosciute” («acknowledged») di lobbying non ricadono nella nozione di «improper influence», non vengono però in alcun modo precisati i confini di liceità del lobbying, esso pure caratterizzato da un accordo con cui una parte si impegna a influire, nell’interesse dell’altra, sulle determinazioni di pubblici agenti.
Quindi, a fronte di un dato convenzionale (stimato dalla Corte) così vago, in cui l’unica indicazione ragionevolmente certa è quella relativa alla necessità di tenere fuori i fenomeni di (legittimo) lobbying dall’area dell’incriminazione, spetta dunque al legislatore nazionale precisare i confini delle condotte punibili, tenendo conto del principio di sufficiente precisione della legge penale, direttamente riconducibile all’art. 25, secondo comma, Cost..
Orbene, a fronte di quanto appena esposto, si notava come il legislatore abbia adottato, tra il 2012 e il 2024, tre diverse tecniche di trasposizione del requisito convenzionale della «improper influence».
In particolare, con la legge n. 190 del 2012, il legislatore ha richiesto, alternativamente, a) una «mediazione illecita» verso il pubblico agente, ovvero b) che l’accordo tra soggetto privato e mediatore avesse a oggetto la “remunerazione” del pubblico agente, «in relazione al compimento di un atto contrario ai doveri di ufficio o all’omissione o al ritardo di un atto del suo ufficio»: inciso, quest’ultimo, che la giurisprudenza, come si è poc’anzi rammentato, ha riferito anche all’ipotesi della «mediazione illecita», per l’ovvia necessità di assegnare un contenuto più preciso al concetto di “illiceità” della mediazione stessa.
Pertanto, disponendo in tal guisa, per i giudici di legittimità costituzionale, la versione del 2012 copriva sia i casi in cui l’accordo avesse a oggetto una successiva corruzione del pubblico agente per atto contrario ai doveri del proprio ufficio ai sensi dell’art. 319 cod. pen.; sia quelli in cui il mediatore promettesse comunque di attivarsi presso il pubblico agente – evidentemente usando mezzi diversi da un illecito pagamento o promessa di denaro o altra utilità – per ottenere una condotta non solo favorevole al privato, ma anche contraria ai doveri d’ufficio dello stesso pubblico agente.
Ciò posto, a sua volta, con la legge n. 3 del 2019, è stata anzitutto confermata l’ipotesi a), relativa alla «mediazione illecita», mentre l’ipotesi b), relativa alla «remunerazione» del pubblico agente, ha visto ampliato il proprio raggio applicativo, richiedendosi semplicemente che l’illecito pagamento avvenisse «in relazione all’esercizio delle sue funzioni o dei suoi poteri», e non già in vista di una condotta contraria a tali doveri; con conseguente attrazione di ogni ipotesi di corruzione – compresa quella prevista dall’art. 318 cod. pen. – tra i possibili oggetti dell’accordo costitutivo del traffico di influenze illecite.
Di riflesso, tuttavia, è venuto meno l’argomento testuale che aveva consentito alla giurisprudenza di ancorare l’ipotesi di cui alla lettera a) (mediazione illecita) all’impegno a ottenere dal pubblico agente, con mezzi diversi dalla corruzione, una condotta contraria ai suoi doveri d’ufficio, ora non più richiesta nemmeno per la fattispecie b) (remunerazione) il che ha finito per accentuare la vaghezza del concetto di «mediazione illecita», non precisato in alcun modo dal legislatore, e collegato ora semplicemente alla finalizzazione della mediazione stessa a qualsiasi condotta comunque connessa all’esercizio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale – sì da potere comprendere, in astratto, qualsiasi forma di lobbying.
Conseguentemente, la giurisprudenza ha dovuto incaricarsi di individuare criteri praticabili per distinguere le forme di mediazione illecite da quelle lecite: criteri che sono stati identificati ora nella perdurante esigenza – nonostante il mutato dato testuale della disposizione – della contrarietà ai doveri d’ufficio della condotta del pubblico agente che il mediatore si impegnava ad ottenere (Cass., n. 35280 del 2021 e n. 18125 del 2020), ora nell’ancora più esigente requisito che tale condotta fosse altresì costitutiva di reato (Cass., n. 1182 del 2022 e n. 40518 del 2021), beninteso in un quadro sistematico caratterizzato dalla compresenza dell’incriminazione dell’abuso d’ufficio.
Infine, con la legge n. 114 del 2024, se si è confermato che l’accordo può alternativamente avere a oggetto, in successione invertita rispetto alle precedenti versioni della disposizione: a) la remunerazione del pubblico agente «in relazione all’esercizio delle sue funzioni» – in termini, dunque, compatibili anche con l’ipotesi di corruzione di cui all’art. 318 cod. pen. –; ovvero b) un’«altra mediazione illecita», è però lo stesso legislatore che, questa volta, si è incaricato di definire, nel nuovo secondo comma dell’art. 346-bis cod. pen., che cosa si debba intendere per mediazione illecita, chiarendo che tale sia una mediazione mirante a ottenere dal pubblico agente una condotta non solo contraria ai doveri d’ufficio (come già era sotto il vigore della legge n. 190 del 2012, sulla base della interpretazione adottata dalla giurisprudenza), ma anche «costituente reato», che produca un indebito vantaggio a chi abbia dato o promesso al mediatore denaro o altra utilità economica: soluzione, quest’ultima, soltanto apparentemente conforme a quella nel frattempo adottata da una parte della giurisprudenza sotto il vigore della legge n. 3 del 2019, per l’ovvia e già sottolineata ragione che, a seguito della stessa legge n. 114 del 2024, il mero abuso d’ufficio non costituisce più reato.
Ordunque, per la Consulta, dalla combinazione tra la riscrittura dell’art. 346-bis cod. pen. e l’abrogazione dell’art. 323 cod. pen. deriva, evidentemente, una incisiva riduzione della sfera di applicazione della fattispecie penale di traffico di influenze, facendosene conseguire da ciò come a tale reato oggi sfuggano, in particolare, tutti gli accordi onerosi tra privati e mediatori aventi a oggetto l’impegno di questi ultimi a ottenere da pubblici agenti – con mezzi diversi dalla corruzione – condotte non solo favorevoli ai privati, ma anche contrarie ai doveri d’ufficio degli stessi pubblici agenti, laddove non costitutive di altro reato.
In effetti, tali accordi – che, per la Corte, si risolvono, in buona sostanza, in un patto in forza del quale il privato mira a ottenere favori indebiti da un pubblico agente, attraverso l’intervento di un mediatore remunerato per tale servizio – restano oggi penalmente irrilevanti e ciò, sia nell’ipotesi in cui successivamente il mediatore non si attivi, o comunque non riesca a ottenere dal pubblico agente la condotta antidoverosa cui il privato aspira; sia nell’ipotesi in cui, invece, il mediatore riesca effettivamente a ottenere dal pubblico agente il risultato illegittimo sperato, con mezzi diversi dalla corruzione (ad esempio, facendo leva su pregressi rapporti personali, sul timore determinato dalla propria caratura criminale, o sulla comune militanza politica), provocando così una concreta distorsione dell’attività amministrativa a vantaggio del privato.
Parimenti, resta oggi priva di sanzione penale anche l’ipotesi in cui il mediatore sia egli stesso un pubblico agente, allorché il suo intervento presso altro pubblico agente, finalizzato a ottenere – con mezzi diversi dalla corruzione – un provvedimento favorevole al privato, non sia di per sé connesso all’esercizio della propria funzione o dei propri poteri.
Cionondimeno, sempre la Consulta non riteneva che una simile riscrittura della disposizione, pur se significativamente limitativa della tutela penale del buon andamento e imparzialità della pubblica amministrazione, risulti di per sé incompatibile con l’obbligo stabilito dall’art. 12 della Convenzione di Strasburgo visto che, per un verso, la norma convenzionale lascia – come più sopra sottolineato – ampio margine al legislatore nazionale per precisare e definire in che consista quell’«improper influence» che il mediatore si impegna a esercitare nei confronti del pubblico agente, per altro verso, la scelta del legislatore del 2024 di definire direttamente il concetto di «mediazione illecita», in precedenza oggetto di oscillanti letture giurisprudenziali determinate dalla sua indubbia vaghezza semantica, appare essa stessa coerente con il principio costituzionale di sufficiente precisione della legge penale, che vincola il legislatore italiano nella fase di trasposizione degli obblighi di criminalizzazione assunti in sede internazionale, e ciò anche a fronte della persistente mancanza di una disciplina del lobbying, e dunque in assenza di una linea di demarcazione legislativa tra illegittime e legittime forme di intermediazione con i pubblici ufficiali, finalizzate a rappresentare e sostenere interessi di singoli individui e imprese, ovvero interessi diffusi e collettivi, nei confronti delle pubbliche amministrazioni e dello stesso legislatore.
La scelta, poi, di non ancorare la definizione legislativa di mediazione illecita alla mera contrarietà della condotta ai doveri d’ufficio, ma di richiedere che la condotta auspicata del pubblico agente oggetto dell’accordo sia altresì costitutiva di reato, per la Consulta, è oltre tutto coerente con la scelta parallela di abolire il delitto di abuso d’ufficio: scelta, quest’ultima, che non si pone in contrasto con la Convenzione di Strasburgo, la quale non obbliga il legislatore a introdurre o mantenere questa figura di reato, né con la parallela Convenzione di Mérida, secondo quanto già affermato da questa Corte (sentenza n. 95 del 2025) dal momento che entrambi gli interventi della legge n. 114 del 2024 si pongono, in effetti, in linea di continuità con le risalenti preoccupazioni del legislatore che anche quella nozione lasciasse ai giudici, e prima ancora ai pubblici ministeri, un eccessivo margine di discrezionalità nell’individuazione delle condotte punibili, con conseguente pregiudizio per la prevedibilità dell’applicazione della legge penale (sentenza n. 8 del 2022, punto 2.3. del Considerato in diritto).
In questo quadro, pertanto, la pur restrittiva definizione di «mediazione illecita» che ne è scaturita appare ancora collocarsi, a giudizio del Giudice delle leggi, all’interno dello spazio di discrezionalità che la stessa Convenzione di Strasburgo lascia aperto al legislatore nazionale, chiamato a concretizzare le clausole generali contenute nello strumento internazionale in armonia con i principi del proprio ordinamento, tra cui quello – di rango costituzionale – di precisione della legge penale, così come, di riflesso, deve escludersi che la scelta del legislatore qui censurata si ponga in contrasto con l’art. 117, primo comma, Cost..
Inoltre, in conclusione, la Consulta si rivolge al legislatore nell’auspicio che intervenga, e ciò veniva fatto nella susseguente maniera: “Questa Corte ritiene, peraltro, opportuno invitare il legislatore a introdurre una organica disciplina delle attività di lobbying, da tempo e da più parti auspicata. Tale disciplina appare necessaria, al fine di definire con chiarezza le condotte di illecita influenza sui pubblici ufficiali e di prevedere sanzioni per l’inosservanza delle relative prescrizioni; garantendo così trasparenza alle prassi di interlocuzione con le istituzioni, onde assicurare ai consociati la possibilità di un più accurato controllo sull’operato della pubblica amministrazione e dei propri rappresentanti eletti. Ciò potrebbe eventualmente consentire al legislatore di rimeditare le attuali scelte in materia di disciplina penale del traffico di influenze illecite, sì da assicurare una più incisiva tutela degli stessi interessi collettivi – essi pure di rango costituzionale – all’imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione contro condotte di indubbia gravità, che restano oggi del tutto sprovviste di sanzione”.
4. Esito del giudizio e monito al legislatore: disciplina del lobbying e tutela del buon andamento
Fermo restando che la legge n. 114 del 2024 è intervenuta sull’art. 346-bis cod. pen. che, com’è noto, prevede il reato di millantato credito, riformulandola, per effetto di questa pronuncia, la Consulta ha ritenuto siffatto intervento del legislatore non illegittimo costituzionalmente, perlomeno in riferimento ai parametri di riferimento richiamati nell’ordinanza di rimessione suesposte, vale a dire gli articoli 11 e 117, primo comma, della Costituzione, in relazione all’art. 12 della Convenzione penale sulla corruzione, fatta a Strasburgo il 27 gennaio 1999, ratificata e resa esecutiva con la legge 28 giugno 2012, n. 110, pur ritenendosi opportuno invitare il legislatore nel varare una normativa che regoli il fenomeno del c.d. lobbying.
Questa è in sostanza la novità che connota il provvedimento qui in commento.
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