TFR tra previdenza complementare e tutela del risparmio

Lodi Luca 10/05/07
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            Il sistema del Welfare State italiano è costretto a retrocedere di anni per fronteggiare un problema economico che ha investito le casse dell’Istituto nazionale di previdenza sociale. Tale retrocessione non è obbligatoriamente un punto negativo, ma non possiamo non osservare come stia diventando fondamentale il sistema di previdenza privata, introdotto in Italia nella seconda metà del XIX secolo, piuttosto che quello pubblico che lo ha seguito sino ad oggi come “sistema primario”. Agli occhi di molti, questa necessità (previdenza integrativa o complementare) è presto trasformata in una virtù.
            Il legislatore, nella riforma con le sue modificazioni complessivamente considerate, agli occhi di chi scrive pare aver sottovalutato taluni aspetti che si ritengono interessanti per una consapevolezza della materia nella sua evoluzione.
 
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            L’istituto del trattamento di fine rapporto assume natura giuridica di «risparmio forzoso a favore del lavoratore di quote di retribuzione, che maturano in corrispondenza dei singoli periodi di lavoro e che di conseguenza entrano nel suo patrimonio prima della cessazione del rapporto di lavoro» (Galantino) [1].
            L’articolo 2120 del codice civile dispone che «in ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto. […]». Una prima osservazione su questo periodo della disposizione civilistica è l’indebolimento della previsione «in ogni caso di cessazione del rapporto» allorquando il trattamento di fine rapporto non venga liquidato al lavoratore al momento della cessazione dell’attività lavorativa, bensì, nel caso di vitalizio complementare alla pensione, al raggiungimento dei requisiti per il pensionamento e sotto l’erogazione da parte del Fondo a cui il lavoratore aderisca.
            Orbene, questa criticità è verosimilmente avverata per i nuovi lavoratori, mentre, per coloro che già lavorano all’entrata in vigore del decreto legislativo 5 dicembre 2005, n. 252, anticipa al 1° gennaio 2007 dalla legge finanzia 2007, il primo periodo dell’art. 2120 c.c. rimane parzialmente valido nella parte in cui si prenda in esame il TFR maturato (rispetto al TFR “maturando” che dal 2007 verrà destinato a fondi di pensione integrativa o complementare).
            Spostandoci sul nucleo fondamentale dell’istituto, in un’ottica prevalentemente dottrinale possiamo desumere da questo risparmio forzoso una indisponibilità del diritto alla liquidazione. Ciò significa che il TFR entra nel patrimonio del lavoratore al momento stesso della nascita del presupposto (maturazione in conseguenza alla costituzione del rapporto di lavoro subordinato), diviene liquido con l’accantonamento in busta paga, ma esigibile solo al termine del rapporto o nei casi di anticipazione ai sensi del sesto comma dell’art. 2120 c.c. [2].
            In una visione pragmatica della materia, quindi, potremmo considerare il TFR nel novero dei “diritti indisponibili” perché il lavoratore non ha facoltà di scelta sulla propria liquidazione: non può spenderla a piacimento ma, come ricordavamo pocanzi, può sfruttarla solo al termine del rapporto ovvero al momento di una eventuale anticipazione accordata per effetto di legge.
            Poiché la riforma pone al lavoratore la facoltà di scegliere un fondo pensione complementare in cui destinare il proprio TFR “maturando” a far data dal 1° gennaio 2007, si osservi come venga meno il vincolo di indisponibilità. Infatti, il D.Lgs. 252 del 2005 concepisce tre tipologie di fondi complementari a cui destinare il trattamento di fine rapporto: fondi negoziali, istituiti per effetto di contratto o accordo collettivo, anche aziendale, o promossi dalle regioni; fondi aperti che riscuotono adesioni collettive; fondi chiusi istituiti dalle casse professionali privatizzate; a questi, inoltre, si aggiungono i fondi preesistenti istituiti anteriormente al novembre 1993 (L. 124/93) [3].
Sono i singoli Fondi pensione, enti dotati di personalità giuridica, a decidere quali pacchetti di previdenza complementare mettere a disposizione della propria clientela, considerando che al maggior rischio – quello a prevalente contenuto azionario – corrisponderà una potenziale miglior rendita laddove le azioni abbiamo un andamento positivo nel tempo. «I criteri di individuazione e di ripartizione del rischio, nella scelta degli investimenti, devono essere indicati nello statuto» (art. 6, c. 11, della riforma).
Linee investimento, per esempio [4], possono essere:
1.      “Alta Crescita”, a prevalente contenuto azionario;
2.      “Crescita”, azionaria e obbligazionaria;
3.      “Rendita”, a prevalente contenuto obbligazionario;
4.      “Garanzia”, monetaria con garanzia di restituzione del capitale;
5.      “Obiettivo TFR”, con rendimento almeno pari a quello della rivalutazione legale (con un orizzonte temporale di almeno 7 anni).
 
Con questa facoltà il prestatore di lavoro, nel suo percorso di scelta soggettiva, potrà mettere a rischio il proprio TFR (ora disponibile, ancorché non esigibile) destinandolo a fondi aperti ad “alto rendimento” ma alto rischio, oppure a quelle con rischi meno elevati ma comunque presenti. Diviene così desumibile una rendita aleatoria e l’indebolimento della indisponibilità di cui si è parlato nei paragrafi precedenti. A giudizio dell’autore, questo è stato uno sbaglio nella stesura della nuova disciplina. L’indisponibilità veniva meno già con il D.Lgs. 124/1993 che istituiva i primi fondi di pensione complementare, ma l’iter è ora completato dalle recenti norme che ampliano la gamma di scelta dei pacchetti previdenziali. Mentre l’incertezza della restituzione del capitale versato contraddice lo scopo principale dell’istituzione della previdenza complementare, cioè quello di affiancarsi alla pensione pubblica Inps che non riuscirà ad essere soddisfacente per tutti (e al lettore non viene in mente lo slogan pubblicitario “TFR, scegliere oggi pensando al domani”?).
 
            Ma vediamo, in ultima istanza, a quale altra conseguenza si collega questo passo della riforma: il Fondo di garanzia. L’art. 2 della Legge 297/1982 (rubricata «Disciplina del trattamento di fine rapporto e norme in materia pensionistica») [5] istituiva il Fondo di garanzia, cioè un fondo gestito dall’INPS [6] ed alimentato con un contributo dei datori di lavoro allo scopo di garantire il trattamento di fine rapporto in caso di insolvenza dell’imprenditore. Ed un importante intervento comunitario portò questo fondo a garantire non solo le quote di TFR ma tutti i crediti spettanti al lavoratore in ragione degli ultimi tre mesi di lavoro.
            Con la riforma in vigore dal 01/01/2007 nel caso di conferimento del TFR “maturando” ad un fondo pensione complementare, il datore di lavoro non dovrà più finanziare il fondo di garanzia (con lo 0,03% delle retribuzioni come dispone l’art. 2, c. 8, della legge in esame [7]). Questa esclusione di versamento è espressamente indicata nella riforma sulla previdenza complementare, all’art. 10, c. 2, D.Lgs. 252/2005 [8]. Alla luce di ciò, e con la mancata modificazione della legge 297/82 da parte della novella, il fondo non garantirà per il TFR maturato dall’anno 2007 in poi. Non vi è motivo che lo faccia. La legge del 1982 tutelava nel caso di insolvenza del datore e, ora che la quota di TFR non rimarrà più nelle casse delle imprese (ad eccezione della deroga alle aziende con meno di 50 dipendenti) ma finirà obbligatoriamente in un fondo (Fondinps, negoziale, individuale o preesistente), non c’è più motivo che il fondo di garanzia continui ad essere alimentato dai contributi dei datori di lavoro.
            I fondi di previdenza complementare, sorvegliati dalla COVIP (http://www.covip.it), avranno determinati requisiti (scopo, personalità giuridica, divieto di assunzione diretta di impegni di natura assicurativa) che tranquillizzeranno i lavoratori subordinati. Ma nel momento in cui un prestatore di lavoro ex art. 2094 c.c. decida di “investire” in tutto o in parte il proprio TFR in un fondo aperto usufruendo di una delle categorie ad alto o medio rischio (quelle collegate alla borsa azionaria), si comprende facilmente come non vi sia alcuna garanzia del vitalizio. Ecco che la ratio della normativa del 1982, ormai superata, viene sia esclusa dal legislatore sia dimenticata dai lavoratori e dai sindacati, per venire incontro al settore del risparmio finanziario che era proprio alla ricerca di una nuova strategia di circolazione dei capitali.
 
            E per concludere, un’ultima segnalazione. In questo momento di continuo dibattito sui diritti dei conviventi more uxorio, il legislatore del 2005 ha anticipato il disegno di legge sui Di.Co. e ha previsto che «in caso di morte dell’aderente ad una forma pensionistica complementare prima della maturazione del diritto alla prestazione pensionistica l’intera posizione individuale maturata è riscattata dagli eredi ovvero dai diversi beneficiari dallo stesso designati, siano essi persone fisiche o giuridiche» (art. 14, c. 13). Giusto o sbagliato che sia questo comma, da una parte perché amplia i diritti e dall’altra perché sembrerebbe ledere la quota riservata ai legittimari (ma non è materia di competenza del sottoscritto, nda), anche questo può risultare quale profilo importante ma sottile della riforma. Il problema è che tra le informative volute dal ministero del lavoro, siano esse pubblicitarie o via web, non ve n’è traccia. Ma forse la risposta consta nella priorità di far comprendere ai lavoratori anzitutto le opzioni di scelta da effettuare entro il 30 giungo 2007, mentre tutto il resto verrà chiarito successivamente.
 
             Luca Lodi
Laureando in Scienze della consulenza del lavoro
e Praticante consulente del lavoro in Modena
 
 
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[1] Galantino, Diritto del lavoro, Torino, 2005, 540, cit.
 
[2] Così recitano i commi 6-9 dell’art. 2120 c.c.: «Il prestatore di lavoro, con almeno otto anni di servizio presso lo stesso datore di lavoro, può chiedere, in costanza di rapporto di lavoro, una anticipazione non superiore al 70 per cento sul trattamento cui avrebbe diritto nel caso di cessazione del rapporto alla data della richiesta.
Le richieste sono soddisfatte annualmente entro i limiti del 10 per cento degli aventi titolo, di cui al precedente comma, e comunque del 4 per cento del numero totale dei dipendenti.
La richiesta deve essere giustificata dalla necessità di:
a) eventuali spese sanitarie per terapie e interventi straordinari riconosciuti dalle competenti strutture pubbliche;
b) (*) acquisto della prima casa di abitazione per sé o per i figli, documentato con atto notarile.
L’anticipazione può essere ottenuta una sola volta nel corso del rapporto di lavoro e viene detratta, a tutti gli effetti, dal trattamento di fine rapporto».
(*) La Corte cost., con sent. 142 del 5 aprile 1991, ha dichiarato l’illegittimità di questa lettera nella parte in cui non prevede la possibilità di concessione dell’anticipazione in ipotesi di acquisto “in itinere” comprovato con mezzi idonei a dimostrarne l’effettività.
 
[3] Così dispone l’art. 3, c. 1, della riforma sul TFR in esame: «Le forme pensionistiche complementari possono essere istituite da:
a) contratti e accordi collettivi, anche aziendali, limitatamente, per questi ultimi, anche ai soli soggetti o lavoratori firmatari degli stessi, ovvero, in mancanza, accordi fra lavoratori, promossi da sindacati firmatari di contratti collettivi nazionali di lavoro; accordi, anche interaziendali per gli appartenenti alla categoria dei quadri, promossi dalle organizzazioni sindacali nazionali rappresentative della categoria, membri del Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro;
b) accordi fra lavoratori autonomi o fra liberi professionisti, promossi da loro sindacati o da associazioni di rilievo almeno regionale;
c) regolamenti di enti o aziende, i cui rapporti di lavoro non siano disciplinati da contratti o accordi collettivi, anche aziendali;
d) le regioni, le quali disciplinano il funzionamento di tali forme pensionistiche complementari con legge regionale nel rispetto della normativa nazionale in materia;
e) accordi fra soci lavoratori di cooperative, promossi da associazioni nazionali di rappresentanza del movimento cooperativo legalmente riconosciute;
f) accordi tra soggetti destinatari del decreto legislativo 16 settembre 1996, n. 565, promossi anche da loro sindacati o da associazioni di ri-lievo almeno regionale;
g) gli enti di diritto privato di cui ai decreti le-gislativi 30 giugno 1994, n. 509, e 10 febbraio 1996, n. 103, con l’obbligo della gestione separata, sia direttamente sia secondo le disposizioni di cui alle lettere a) e b);
h) i soggetti di cui all’articolo 6, comma 1, limitatamente ai fondi pensione aperti di cui all’articolo 12;
i) i soggetti di cui all’articolo 13, limitatamente alle forme pensionistiche complementari individuali».
 
[4] Le linee di investimento, prese in esame a mero titolo esemplificativo (si confronti con i prospetti informativi di altri Fondi), sono quelle pubblicate dal Fondo pensione ARCA Previdenza del Gruppo bancario Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Le stesse sono riportate in dettaglio sul sito www.arcaprevidenza.it e, per necessità di sintesi, la citazione delle medesime cinque linee di investimento è presa dal numero di “BperVoi” di marzo-aprile-maggio 2007 (pag. 9).
 
[5] Così dispone l’art. 2, c. 1, L. 297/1982: «E’ istituito presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale il «Fondo di garanzia per il trattamento di fine rapporto», con lo scopo di sostituirsi al datore di lavoro in caso di insolvenza del medesimo nel pagamento del trattamento di fine rapporto, di cui all’articolo 2120 del codice civile, spettante ai lavoratori o loro aventi diritto».
 
[6] Per i giornalisti e per i dirigenti di aziende industriali, il Fondo di garanzia è gestito, rispettivamente, dall’INPGI e dall’INPDAI (art. 2, c. 10, L. 297/1982).
 
 
[7] Estratto: «Il Fondo (…) è alimentato con un contributo a carico dei datori di lavoro pari allo 0,03 per cento della retribuzione (…) a decorrere dal periodo di paga in corso al 1° luglio 1982. (…) Le disponibilità del Fondo di garanzia non possono in alcun modo essere utilizzate al di fuori della finalità istituzionale del Fondo stesso. (…)».
 
[8] Così dispone l’art. 10, c. 2, D.Lgs. 252/2005 come sostituito dall’art. 1, c. 764, L. 296/2006: «Il datore di lavoro è esonerato dal versa-mento del contributo al Fondo di garanzia pre-visto dall’articolo 2 della legge 29 maggio 1982, n. 297, e successive modificazioni, nella stessa percentuale di TFR maturando conferito alle forme pensionistiche complementari e al Fondo per l’erogazione ai lavoratori dipendenti del settore privato dei trattamenti di fine rap-porto di cui all’articolo 2120 del codice civile».
 
 
 
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Lodi Luca

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