Tar Catania, IV, n 4624 del 7/12/2010: in materia di appalti, nel riconoscere il risarcimento danni deve prescindersi dall’accertamento della colpa dell’Amministrazione, per non violare le direttive comunitarie in materia in attuazione di Corte Giustizi

sentenza 09/12/10
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TAR CATANIA , IV, n 4624 del 7/12/2010 : in materia di appalti, nel riconoscere il risarcimento danni deve prescindersi dall’accertamento della colpa dell’Amministrazione, per non violare le direttive comunitarie in materia in attuazione di Corte Giustizia CE, sez. III, 30 settembre 2010

N. 04624/2010 REG.SEN.

N. 02410/2009 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia

sezione staccata di Catania (Sezione Quarta)

ha pronunciato la presente


SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 2410 del 2009, proposto da:
** srl, rappresentato e difeso dagli avv. **************** e *****************, con domicilio eletto presso lo studio del primo, a Catania, viale XX Settembre 19;

contro

Comune di **, rappresentato e difeso dall’avv. ***************, con domicilio eletto presso *****************, a Catania, via Vittorio Emanuele Orlando 26;

nei confronti di

** Costruzioni Srl, rappresentata e difesa dagli avv. ***************** e ***********************, con domicilio eletto presso la Segreteria del Tribunale;

per l’annullamento,

previa sospensione dell’efficacia,

– del verbale di gara del 28.07.2009, con il quale la Stazione appaltante ha proceduto all’ammissione e all’aggiudicazione provvisoria dell’appalto in favore dell’impresa ** Costruzioni srl;

– della nota n. 11620 del 29.07.2009, con la quale il Comune di ** ha comunicato che i lavori de quo sono stati aggiudicati all’impresa ** Costruzioni srl, mentre la ricorrente è risultata seconda sorteggiata;

nonché per la condanna del Comune intimato al risarcimento del danno, in forma specifica, mediante l’affidamento dell’appalto alla ricorrente, nonché, in forma generica, per equivalente monetario per la refusione dei danni subìti e subendi a causa dei provvedimenti impugnati, con la condanna della P.A. al pagamento delle somme che verranno quantificate in corso di causa, ovvero saranno liquidate in via equitativa ex art. 1226 c.c., con interessi legali e rivalutazione monetaria come per legge.

 

Visti il ricorso e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio di Comune di ** e di ** Costruzioni Srl;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 10 novembre 2010 il dott. Dauno Trebastoni e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

Con bando ritualmente pubblicato, il Comune resistente ha indetto un pubblico incanto, con il criterio del massimo ribasso percentuale del prezzo offerto rispetto all’importo complessivo dei lavori a base di gara, per l’affidamento dei <<lavori per la realizzazione di un’area di stoccaggio mezzi pesanti con annessi servizi tecnologici, impianto di videosorveglianza e recupero recinzione esterna nell’area denominata “ex Pirelli” nell’ambito del Contratto d’Area di Messina>>, per un importo di € 726.192,66.

In esito alle operazioni di gara, ultimate il 28/07/2009 (ed a seguito dei sorteggi previsti in caso di più imprese con lo stesso ribasso), la gara è stata aggiudicata provvisoriamente all’impresa “** Costruzioni srl”, odierna controinteressata, mentre la ricorrente è risultata seconda in graduatoria.

Il verbale di gara, in cui è contenuta l’aggiudicazione provvisoria, è stato pubblicato all’Albo Pretorio del Comune di ** dal 29/07/2009 al 31/07/2009, e avverso lo stesso non sono state prodotte opposizioni e/o reclami, per cui l’aggiudicazione è divenuta definitiva.

Ritenendo che la controinteressata avrebbe dovuto essere esclusa per irregolarità della documentazione prodotta, e per le dichiarazioni non rese e/o incomplete, e che l’aggiudicazione avrebbe dovuto essere disposta in proprio favore, con atto notificato il 07.10.2009, depositato il successivo 20.10, la ** srl ha impugnato gli atti di gara.

Con ordinanza n. 1533 del 05.11.2009 questa Sezione ha rigettato l’istanza cautelare.

Alla pubblica udienza del 10.11.2010 la causa è stata posta in decisione.

DIRITTO

1) Il ricorso è fondato, e va pertanto accolto, in accoglimento del secondo motivo di ricorso, sebbene nei limiti di seguito specificati.

Da ultimo con sentenza n. 4249 del 28.10.2010 (ma vedi anche sentenze n. 106 del 19.01.2009 e n. 1 del 07.01.2010), questa Sezione ha ribadito il principio secondo cui va esclusa dalla gara l’impresa che ometta di produrre il c.d. modello G.A.P..

Tale modulo è stato istituito dalla L. 12.10.82 n. 726 al fine di consentire all’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro la delinquenza mafiosa di avere immediato accesso a notizie di carattere organizzativo, finanziario e tecnico delle imprese partecipanti a gare pubbliche.

In particolare, l’art. 1, comma 5, del D.L. 06.09.82 n. 629, convertito in L. 12.10.82 n. 726, dispone che “a richiesta dell’Alto commissario, le imprese, sia individuali che costituite in forma di società aggiudicatarie o partecipanti a gare pubbliche di appalto o a trattativa privata, sono tenute a fornire allo stesso notizie di carattere organizzativo, finanziario e tecnico sulla propria attività, nonché ogni indicazione ritenuta utile ad individuare gli effettivi titolari dell’impresa ovvero delle azioni o delle quote sociali”.

Con sentenza 6 maggio 1998 n. 298, il C.G.A. ha chiarito che “l’obbligo di presentare il modello G.A.P. sin dalla fase del concorso risponde ad una esigenza sostanziale: consentire all’Alto Commissario per il coordinamento della lotta contro delinquenza mafiosa di avere accesso a notizie riguardanti le imprese che partecipano alle pubbliche gare, posto che anche la sola partecipazione può costituire utile dato per rilevare la ingerenza della criminalità organizzata nei rapporti economici con l’amministrazione pubblica”.

L’essenzialità della produzione del predetto modulo G.A.P. è stata ribadita dallo stesso CGA con decisione del 3 marzo 2003 n. 94, con la quale è stato affermato testualmente:

“… con riferimento all’obbligo di presentazione del modello G.A.P. deve ritenersi che il documento in questione adempia, ai sensi delle leggi n. 726/1982 e 410/ 1991, ad una essenziale funzione di tutela dell’ordine pubblico quale indefettibile strumento conoscitivo ai fini della lotta contro le infiltrazioni della delinquenza mafiosa nel settore dei pubblici appalti, con la conseguenza che la rilevanza sostanziale dell’interesse pubblico sotteso alla clausola inosservata implica, pur in difetto di espressa previsione della lex specialis, l’esclusione dalla gara dell’impresa resasi inadempiente”.

In sostanza, il concorrente che non produce il modulo G.A.P. deve essere escluso anche quando nel bando non sia contenuta un’esplicita comminatoria di esclusione, in base al principio della c.d. eterointegrazione con norme imperative.

Con ulteriore sentenza n. 400 dell’11 maggio 2009, il C.G.A., ha inoltre precisato che, tranne la firma (perché non richiesta dalla grafica di detto modello, e perché la sua compilazione è volta all’immediato riscontro dei dati dell’impresa, risultando comunque surrogata da quella apposta in calce alla domanda di partecipazione da ogni partecipante) e la data (tale essendo quella di presentazione della domanda), tutte le altre indicazioni ivi richieste sono necessarie, se e in quanto risultino tali dalla predisposizione del modello (che evidenzia con un asterisco le parti soggette a compilazione obbligatoria), del tutto a prescindere dal fatto che il dato omesso possa ricavarsi “aliunde” dalla documentazione prodotta dall’impresa; anche perchè, a seguire questo tipo di interpretazione, come sostenuto dalla difesa del Comune, la stessa presentazione del modello GAP risulterebbe inutile, vanificandone la sua funzione di consentire un riscontro immediato e automatizzato dei dati richiesti.

Oltretutto, non corrisponde al vero che il GAP sia sostituibile dal certificato della Camera di Commercio, in ragione di una sua presunta fungibilità, perché i dati riportati nell’uno e nell’altro non coincidono (ad esempio, nel citato certificato non risulta il volume di affari).

Da ciò consegue, in accoglimento del relativo motivo di ricorso, ed assorbiti ulteriori vizi non esaminati, l’accoglimento del ricorso, con conseguente annullamento dell’aggiudicazione.

2) La controinteressata ha sollevato l’eccezione di difetto di giurisdizione di questo Tribunale a conoscere della domanda di risarcimento danni.

L’eccezione è palesemente infondata e pretestuosa.

Infatti, il D.Lgs. n. 104/2010, di approvazione del codice del processo amministrativo, all’art. 7, commi 4 e 5, dispone che “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”.

E il successivo art. 34, comma 1, lett. c), prevede che “in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda,…condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile”.

Ma già prima, l’art. 7, comma 3, della L. n. 1034/71, come modificato dall’art. 7 L. 21 luglio 2000 n. 205, disponeva che “il tribunale amministrativo regionale, nell’àmbito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.

3) La ricorrente ha chiesto la condanna del Comune intimato al risarcimento del danno in forma specifica, mediante affidamento dell’appalto alla ricorrente, o, in via subordinata, in forma generica, per equivalente monetario, con la condanna del Comune al pagamento delle somme che sarebbero state quantificate in corso di causa, ovvero da liquidarsi in via equitativa ex art. 1226 c.c., con interessi legali e rivalutazione monetaria come per legge.

Nel corso del giudizio, la ricorrente ha meglio specificato la richiesta di risarcimento per equivalente, chiedendo la liquidazione dell’utile in modo forfettario, nella misura del 10% dell’importo dell’appalto, nonché il riconoscimento del c.d. “danno curriculare”, cioè quello derivante dall’impossibilità di vantare nel proprio curriculum d’impresa quello specifico appalto.

Dagli atti di causa risulta che il contratto tra Comune e controinteressata è stato stipulato il 05.10.2009, e che nelle more del giudizio è stato anche eseguito, essendo stata rigettata l’istanza cautelare di sospensione dell’efficacia dell’aggiudicazione.

A tale domanda giudiziale si applica l’art. 124 del citato D.Lgs. 104/2010, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente”, ai sensi del quale “l’accoglimento della domanda di conseguire l’aggiudicazione e il contratto è comunque condizionato alla dichiarazione di inefficacia del contratto ai sensi degli articoli 121, comma 1, e 122. Se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subito e provato. La condotta processuale della parte che, senza giustificato motivo, non ha proposto la domanda di cui al comma 1, o non si è resa disponibile a subentrare nel contratto, è valutata dal giudice ai sensi dell’articolo 1227 del codice civile”.

Il citato art. 121, relativo alla “inefficacia del contratto nei casi di gravi violazioni”, al comma 1 prevede che “il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva dichiara l’inefficacia del contratto nei seguenti casi, precisando in funzione delle deduzioni delle parti e della valutazione della gravità della condotta della stazione appaltante e della situazione di fatto, se la declaratoria di inefficacia è limitata alle prestazioni ancora da eseguire alla data della pubblicazione del dispositivo o opera in via retroattiva:

a) se l’aggiudicazione definitiva è avvenuta senza previa pubblicazione del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

b) se l’aggiudicazione definitiva è avvenuta con procedura negoziata senza bando o con affidamento in economia fuori dai casi consentiti e questo abbia determinato l’omissione della pubblicità del bando o avviso con cui si indice una gara nella Gazzetta Ufficiale dell’Unione europea o nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana, quando tale pubblicazione è prescritta dal decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163;

c) se il contratto è stato stipulato senza rispettare il termine dilatorio stabilito dall’articolo 11, comma 10, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione abbia privato il ricorrente della possibilità di avvalersi di mezzi di ricorso prima della stipulazione del contratto e sempre che tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento;

d) se il contratto è stato stipulato senza rispettare la sospensione obbligatoria del termine per la stipulazione derivante dalla proposizione del ricorso giurisdizionale avverso l’aggiudicazione definitiva, ai sensi dell’articolo 11, comma 10-ter, del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, qualora tale violazione, aggiungendosi a vizi propri dell’aggiudicazione definitiva, abbia influito sulle possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento”.

Le citate previsioni non possono trovare applicazione al caso in esame:

quelle di cui alle lett. a) e b), perché il bando della gara de qua è stato pubblicato;

quella di cui alla lett. c), perché l’art. 11, comma 10, del D.Lgs. 163/2006 (“il contratto non può comunque essere stipulato prima di trentacinque giorni dall’invio dell’ultima delle comunicazioni del provvedimento di aggiudicazione definitiva”) risulta essere stato rispettato, in quanto l’aggiudicazione è stata comunicata con nota n. 11620 del 29.07.2009, ed il contratto è stato stipulato il 05.10.2009;

quella di cui alla lett. d), in relazione alla previsione del comma 10-ter del citato art. 11 (“se è proposto ricorso avverso l’aggiudicazione definitiva con contestuale domanda cautelare, il contratto non può essere stipulato, dal momento della notificazione dell’istanza cautelare alla stazione appaltante e per i successivi venti giorni, a condizione che entro tale termine intervenga almeno il provvedimento cautelare di primo grado o la pubblicazione del dispositivo della sentenza di primo grado in caso di decisione del merito all’udienza cautelare ovvero fino alla pronuncia di detti provvedimenti se successiva”), in quanto il contratto è stato stipulato lo stesso giorno della notifica del ricorso al Comune, e non soltanto non è possibile accertare se la notifica sia avvenuta prima o dopo, ma è anche verosimile che la stipula fosse già stata predisposta prima, visto che a quel fine occorrono preliminarmente alcuni adempimenti non improvvisabili; e fermo restando che era comunque decorso il citato termine dilatorio di trentacinque giorni.

In ogni caso, per quanto riguarda “le possibilità del ricorrente di ottenere l’affidamento”, è fondamentale la circostanza che all’udienza camerale del 05.11.2009 l’istanza cautelare è stata rigettata; pertanto, quand’anche il Comune avesse atteso ancora fino a quella data, non sarebbe cambiato nulla.

Quindi, nel caso in esame, non può che accertarsi la non applicabilità dell’art. 121, comma 1, relativo alle “violazioni gravi” descritte, e, di conseguenza, anche dell’art. 123, relativo alle “sanzioni alternative”, perché per il comma 4 dell’art. 121 tali sanzioni si applicano (solo) nei casi in cui il contratto sia considerato efficace o l’inefficacia sia temporalmente limitata, “nonostante le violazioni” considerate dallo stesso art. 121, cioè, appunto, quelle gravi.

Va però verificata la possibilità di applicare il successivo art. 122, relativo alla “inefficacia del contratto negli altri casi” (cioè quelli che concernono le violazioni “non gravi”, o meno gravi), ai sensi del quale “fuori dei casi indicati dall’art. 121, comma 1, e dall’art. 123, comma 3” (relativo all’applicazione di sanzioni alternative in caso di violazione dei citati termini dilatori), “il giudice che annulla l’aggiudicazione definitiva stabilisce se dichiarare inefficace il contratto, fissandone la decorrenza, tenendo conto, in particolare, degli interessi delle parti, dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati, dello stato di esecuzione del contratto e della possibilità di subentrare nel contratto, nei casi in cui il vizio dell’aggiudicazione non comporti l’obbligo di rinnovare la gara e la domanda di subentrare sia stata proposta”.

In sostanza, la citata disposizione attribuisce innovativamente al giudice il potere di decidere se dichiarare oppure no inefficace il contratto, in base ad una serie di parametri che, seppure oggettivi, sono però da combinare in vario modo tra loro, in relazione alle specifiche e variabili caratteristiche della situazione di fatto di volta in volta in esame.

Infatti, nel prendere tale decisione sulla sorte del contratto in esito all’annullamento dell’aggiudicazione, nell’esercizio di una funzione imparziale e terza che deve però considerare la rilevanza pubblicistica degli interessi perseguiti attraverso il contratto, il giudice deve tenere conto, in particolare:

degli interessi delle parti;

dell’effettiva possibilità per il ricorrente di conseguire l’aggiudicazione alla luce dei vizi riscontrati;

e, conseguentemente, dello stato di esecuzione del contratto e della correlata possibilità di subentrare nel contratto, sempreché il vizio dell’aggiudicazione non comporti invece il mero obbligo di rinnovare la gara, e la domanda di subentrare sia stata proposta.

Ora, con specifico riferimento ai parametri indicati, la ricorrente ha esplicitato che il proprio interesse prioritario era quello di ottenere il risarcimento del danno in forma specifica, mediante l’affidamento dell’appalto, e solo in via subordinata quello in forma generica, per equivalente; dimostrando oltretutto che se l’impresa controinteressata fosse stata esclusa, l’aggiudicazione avrebbe dovuto essere disposta in proprio favore, in quanto seconda estratta.

Ma, come già precisato, il contratto è stato ormai interamente eseguito, e tale circostanza impedisce ovviamente che la ricorrente possa subentrare, anche solo in parte, nell’esecuzione dello stesso contratto, la cui efficacia non può quindi che essere mantenuta.

Ora, stando alla lettera della disciplina legislativa, si potrebbe ritenere che, in casi come quello in esame, il giudice, pur procedendo all’annullamento dell’aggiudicazione, possa non dichiarare inefficace il contratto, escludendo così a priori tutti gli altri effetti tipici (di ripristinazione e conformazione) della pronuncia costitutiva di annullamento.

Pertanto, il Collegio ritiene che, non sussistendo i presupposti per dichiarare l’inefficacia del contratto, anche l’annullamento dell’aggiudicazione non possa essere pronunciata.

Infatti, per quanto riguarda il soddisfacimento del precisato interesse prioritario a subentrare nel contratto, dall’annullamento dell’aggiudicazione in quanto tale alla ricorrente non deriva più alcuna utilità, residuando l’interesse alla sola azione risarcitoria.

E d’altra parte, tale principio può essere desunto in generale anche dall’art. 34, comma 3, del D.Lgs. 104/2010, ai sensi del quale “quando, nel corso del giudizio, l’annullamento del provvedimento impugnato non risulta più utile per il ricorrente, il giudice accerta l’illegittimità dell’atto se sussiste l’interesse ai fini risarcitori”.

Di conseguenza, il Collegio intende utilizzare l’ormai accertata illegittimità del provvedimento di aggiudicazione impugnato solo al fine di pronunciarsi sulla eventuale fondatezza della domanda risarcitoria, per la quale permane certamente l’interesse.

4.1) Per quanto riguarda il risarcimento del danno, appunto, in giurisprudenza si specifica tradizionalmente che esso non è una conseguenza automatica dell’annullamento giurisdizionale dell’aggiudicazione, richiedendosi la positiva verifica di tutti i requisiti previsti, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, la colpa dell’Amministrazione, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 28 maggio 2004 n. 3465).

Vale a dire che in caso di domanda di risarcimento dei danni proposta nei confronti di una pubblica Amministrazione, al fine di stabilire se la fattispecie concreta integri una ipotesi di responsabilità extracontrattuale ex art. 2043 c.c., si è sempre affermato che il giudice deve procedere, in ordine successivo, a svolgere le seguenti indagini: a) accertare la sussistenza di un evento dannoso; b) stabilire se il danno accertato sia qualificabile come danno ingiusto, in relazione alla sua incidenza su un interesse rilevante per l’ordinamento, tale essendo l’interesse indifferentemente tutelato nelle forme del diritto soggettivo, dell’interesse legittimo e dell’interesse di altro tipo, pur se non immediato oggetto di tutela in quanto preso in considerazione dall’ordinamento a fini diversi da quelli risarcitori; c) accertare sotto il profilo causale, facendo applicazione dei noti criteri generali, se l’evento dannoso sia riferibile ad una condotta dell’Amministrazione; d) stabilire se l’evento dannoso sia riferibile a dolo o colpa dell’Amministrazione

Per quanto riguarda l’elemento soggettivo, in particolare, in precedenza la giurisprudenza sosteneva che ai fini della risarcibilità del danno ingiusto causato dall’Amministrazione al privato – a seguito di un atto amministrativo dichiarato illegittimo – la presenza dell’elemento soggettivo della colpa, ai fini dell’imputabilità, fosse di per sè ravvisabile nell’accertata illegittimità del provvedimento (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 9 giugno 1995 n. 6542); e anzi che il risarcimento del danno conseguente all’illegittimità dell’atto spettasse a prescindere dall’indagine sulla colpa dell’Amministrazione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 22 ottobre 1984 n. 5361).

Cass. Civ., Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500 modifica il precedente tradizionale orientamento, affermando che non è più invocabile il principio secondo il quale la colpa della struttura pubblica sarebbe in re ipsa nel caso di esecuzione volontaria di atto amministrativo illegittimo (cfr. anche Cass., sez. I civ., 22 febbraio 2008 n. 4539), poiché tale principio, enunciato dalla giurisprudenza con riferimento all’ipotesi di attività illecita, per lesione di un diritto soggettivo, secondo la tradizionale interpretazione dell’art. 2043 c.c., non è conciliabile con la lettura di tale disposizione svincolata dalla lesione di un diritto soggettivo; e l’imputazione non può quindi avvenire sulla base del mero dato obiettivo della illegittimità dell’azione amministrativa, ma il giudice deve svolgere una più penetrante indagine, non limitata al solo accertamento dell’illegittimità del provvedimento in relazione alla normativa ad esso applicabile, bensì estesa anche alla valutazione della colpa, non del funzionario agente (da riferire ai parametri della negligenza o imperizia), ma della P.A. intesa come apparato, che sarà configurabile nel caso in cui l’adozione e l’esecuzione dell’atto illegittimo (lesivo dell’interesse del danneggiato) sia avvenuta in violazione delle regole di imparzialità, di correttezza e di buona amministrazione alle quali l’esercizio della funzione amministrativa deve ispirarsi, e che il giudice può valutare, in quanto si pongono come limiti esterni alla discrezionalità.

Una nozione oggettiva, cioè, che tenga conto dei vizi che inficiano il provvedimento, nonchè, in linea con le indicazioni della giurisprudenza comunitaria, della gravità della violazione commessa dall’Amministrazione, anche alla luce dell’ampiezza delle valutazioni discrezionali ad essa rimesse, dei precedenti giurisprudenziali, delle condizioni concrete e dell’apporto dato dai privati nel procedimento.

Pertanto, si è precisato che la responsabilità vada affermata quando la violazione risulti grave e commessa in un contesto di circostanze di fatto e in un quadro di riferimenti normativi e giuridici tale da palesare la negligenza e l’imperizia dell’organo nell’assunzione del provvedimento viziato, e che viceversa vada negata quando l’indagine conduca al riconoscimento di un errore scusabile, per la sussistenza di contrasti giurisprudenziali, per l’incertezza del quadro normativo di riferimento o per la complessità della situazione di fatto (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 13 aprile 2010 n. 2029).

Tale nozione della colpa di tipo oggettivo, del resto, derivava dal recepimento di analogo orientamento della giurisprudenza comunitaria, secondo cui:

gli Stati membri sono responsabili per i danni derivati ai singoli a causa di violazioni del diritto comunitario;

tale principio trova applicazione anche nel caso in cui la violazione sia riferibile al legislatore nazionale;

il risarcimento dei danni per la violazione di diritti riconosciuti ai singoli dalla normativa comunitaria non può essere subordinato a comportamenti dolosi o colposi dell’organo statale, essendo sufficiente che l’inadempimento sia grave e manifesto e in connessione diretta con i danni derivati (cfr., ex multis, Corte giustizia CE, 5 marzo 1996 n. 46).

In altri termini, secondo il diritto comunitario perché sussista responsabilità extracontrattuale dello Stato è necessario che sia stata compiuta una violazione grave e manifesta del diritto comunitario, e una violazione va considerata tale anche quando lo Stato membro interessato (e, se del caso, l’ente pubblico substatale) dispone di un margine di discrezionalità considerevolmente ridotto, se non addirittura inesistente, nel porre in essere l’atto all’origine del danno. L’esistenza e l’ampiezza di questo margine di discrezionalità devono essere determinate con riferimento esclusivo al diritto comunitario, e per stabilire se la violazione del diritto comunitario sia qualificabile come grave e manifesta il giudice nazionale deve tener conto di tutti gli elementi che la caratterizzano, tra cui figurano il carattere intenzionale o involontario della violazione e del conseguente danno, la scusabilità o inescusabilità di un eventuale errore di diritto, il fatto che i comportamenti di un’istituzione comunitaria abbiano concorso all’adozione o al mantenimento in vigore del provvedimento contrario al diritto comunitario (cfr. Corte giustizia CE, 4 luglio 2000 n. 424).

Tali criteri sono stati in tutti questi anni utilizzati sia nella materia degli appalti, nell’ambito della quale vengono più facilmente in rilievo disposizioni comunitarie da applicare che riconoscono diritti ai singoli, e sia in qualsiasi altra materia in cui fosse da accertare la responsabilità di una pubblica Amministrazione a fini risarcitori.

Tale orientamento ha visto modificare i suoi principi cardine ad opera della pronuncia della Corte Giustizia CE, sez. III, 30 settembre 2010 (causa C-314/2009), a seguito della quale il profilo dell’accertamento della sussistenza della colpa, sebbene nel senso oggettivo sopra chiarito, è destinato a perdere ogni importanza (in applicazione di tale pronuncia vedi TAR Lombardia – Brescia, sez. II 04.11.2010 n. 4552), essendosi affermato che “la direttiva del Consiglio 21 dicembre 1989, 89/665/CEE, che coordina le disposizioni legislative, regolamentari e amministrative relative all’applicazione delle procedure di ricorso in materia di aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture e di lavori, come modificata dalla direttiva del Consiglio 18 giugno 1992, 92/50/CEE, deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una normativa nazionale, la quale subordini il diritto ad ottenere un risarcimento, a motivo di una violazione della disciplina sugli appalti pubblici da parte di un’Amministrazione aggiudicatrice, al carattere colpevole di tale violazione, anche nel caso in cui l’applicazione della normativa in questione sia incentrata su una presunzione di colpevolezza in capo all’Amministrazione suddetta, nonchè sull’impossibilità per quest’ultima di far valere la mancanza di proprie capacità individuali e, dunque, un difetto di imputabilità soggettiva della violazione lamentata”.

In sostanza, la Corte ha ritenuto che gli Stati membri non possono subordinare la concessione di un risarcimento al riconoscimento del carattere colpevole della violazione della normativa sugli appalti pubblici commessa dall’amministrazione aggiudicatrice.

In primo luogo la Corte, dopo aver premesso che la direttiva 89/665 impone agli Stati membri di adottare le misure necessarie per garantire l’esistenza di procedure di ricorso efficaci e, in particolare, quanto più rapide possibile contro le decisioni delle amministrazioni aggiudicatrici che abbiano «violato» il diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici o le norme nazionali di trasposizione di quest’ultimo, e che per quanto riguarda, in particolare, il mezzo di ricorso inteso ad ottenere il risarcimento dei danni, la direttiva 89/665 stabilisce che gli Stati membri fanno sì che i provvedimenti presi ai fini dei ricorsi prevedano i poteri che permettano di accordare tale risarcimento ai soggetti lesi da una violazione, ha chiarito che, tuttavia, la direttiva 89/665 stabilisce solamente i requisiti minimi che le procedure di ricorso istituite negli ordinamenti giuridici nazionali devono rispettare al fine di garantire l’osservanza delle prescrizioni del diritto dell’Unione in materia di appalti pubblici, e che in mancanza di una disposizione specifica in merito spetta all’ordinamento giuridico interno di ogni Stato membro determinare le misure necessarie per garantire che le procedure di ricorso consentano effettivamente di accordare un risarcimento ai soggetti lesi da una violazione della normativa sugli appalti pubblici.

Ora, per la Corte “il tenore letterale degli artt. 1, n. 1, e 2, nn. 1, 5 e 6, nonché del sesto ‘considerando’ della direttiva 89/665 non indica in alcun modo che la violazione delle norme sugli appalti pubblici atta a far sorgere un diritto al risarcimento a favore del soggetto leso debba presentare caratteristiche particolari, quale quella di essere connessa ad una colpa, comprovata o presunta, dell’amministrazione aggiudicatrice, oppure quella di non ricadere sotto alcuna causa di esonero di responsabilità”. E tale conclusione sarebbe suffragata, da un lato, dal fatto che gli Stati membri possono prevedere per questo tipo di ricorsi termini ragionevoli da osservarsi a pena di decadenza, e ciò per evitare che i candidati e gli offerenti possano in qualsiasi momento allegare violazioni della normativa suddetta, e dall’altro dalla circostanza che gli stessi hanno la facoltà di prevedere che, dopo la conclusione del contratto successiva all’aggiudicazione dell’appalto, i poteri dell’organo responsabile delle procedure di ricorso siano limitati alla concessione di un risarcimento.

In tale contesto, ha precisato la Corte, “il rimedio risarcitorio può costituire un’alternativa procedurale compatibile con il principio di effettività, sotteso all’obiettivo di efficacia dei ricorsi perseguito dalla citata direttiva […], soltanto a condizione che la possibilità di riconoscere un risarcimento in caso di violazione delle norme sugli appalti pubblici non sia subordinata – così come non lo sono gli altri mezzi di ricorso… – alla constatazione dell’esistenza di un comportamento colpevole tenuto dall’amministrazione aggiudicatrice”.

Da questo punto di vista, la Corte ha rimarcato che, come rilevato dalla Commissione europea, poco importa al riguardo che la disciplina di riferimento “non faccia gravare sul soggetto leso l’onere della prova dell’esistenza di una colpa dell’amministrazione aggiudicatrice, bensì imponga a quest’ultima di vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante, limitando i motivi invocabili a tal fine”, perché “quest’ultima normativa genera anch’essa il rischio che l’offerente pregiudicato da una decisione illegittima di un’amministrazione aggiudicatrice venga comunque privato del diritto di ottenere un risarcimento per il danno causato da tale decisione, nel caso in cui l’amministrazione suddetta riesca a vincere la presunzione di colpevolezza su di essa gravante”.

In definitiva, secondo la Corte di Giustizia l’accertamento, a fini risarcitori, della responsabilità di una pubblica Amministrazione per violazione del diritto comunitario deve prescindere da qualsiasi forma di colpevolezza, anche laddove tale accertamento sia, come era finora, di tipo oggettivo, in quanto legata alla gravità della violazione stessa (vedi le precisazioni di Cons. St., sez. VI, 9 marzo 2007 n. 1114, secondo cui dalla sentenza della Corte di Giustizia [14 ottobre 2004, C-275/03] – che ha sanzionato lo Stato del Portogallo per aver subordinato la condanna al risarcimento dei soggetti lesi in seguito alle violazioni del diritto comunitario che regola la materia dei pubblici appalti all’allegazione della prova, da parte dei danneggiati, che gli atti illegittimi dello Stato o degli enti di diritto pubblico siano stati commessi colposamente o dolosamente – non può trarsi la conclusione che non sia più richiesto il requisito della colpa della P.A., dal momento che la decisione del giudice comunitario pare riferirsi all’onere della prova in relazione all’elemento soggettivo della responsabilità della P.A., e non all’esigenza di accertare la responsabilità, prescindendo dalla colpa dell’Amministrazione, perché nell’ordinamento italiano la possibilità per il privato danneggiato di utilizzare presunzioni pone sostanzialmente a carico della P.A. l’onere di dimostrare l’esistenza di un errore scusabile, senza alcuna lesione, quindi, dei principi comunitari).

Ora, c’è da dire che, nel caso in esame, un problema di applicazione in senso stretto di norme comunitarie attributive di diritti ai singoli, di cui valutare l’eventuale violazione nell’espletamento della procedura di gara, non si porrebbe, perché l’importo dell’appalto era di € 726.192,66, e quindi ben al di sotto della c.d. “soglia comunitaria”, che, come è noto – dopo le modifiche apportate dal regolamento CE della Commissione n. 1422 del 4 dicembre 2007 ad alcuni articoli della direttiva n. 2004/17 (settori c.d. speciali) e della direttiva n. 2004/18 (settori c.d. ordinari) – è ora di € 5.150.000 per quanto riguarda i contratti aventi ad oggetto i lavori, e, per quanto riguarda servizi e forniture, di € 133.000 in relazione ai contratti stipulati dalle amministrazioni centrali dello Stato, e di € 206.000 per i contratti stipulati dagli altri soggetti tenuti all’osservanza delle direttive comunitarie.

Tuttavia, il Collegio osserva che in numerose occasioni la stessa giurisprudenza comunitaria ha affermato che anche se le procedure specifiche e rigorose previste dalle direttive comunitarie che coordinano le procedure di aggiudicazione degli appalti pubblici si applicano soltanto ai contratti il cui valore supera la soglia espressamente prevista, e che pertanto le disposizioni di tali direttive non si applicano agli appalti il cui valore non raggiunge la soglia fissata da queste ultime, ciò non significa che questi appalti siano del tutto esclusi dall’ambito di applicazione del diritto comunitario, in quanto le amministrazioni aggiudicatrici sono comunque tenute a rispettare le norme fondamentali del trattato Ce, con particolare riferimento al principio di parità di trattamento e non discriminazione (cfr. Tribunale I grado CE, sez. V, 20 maggio 2010 n. 258; vedi anche Corte giustizia CE, sez. I, 14 giugno 2007 n. 6; Id., sez. IV, 23 dicembre 2009 n. 376).

In base a tali affermazioni, il Collegio ritiene che il principio espresso dalla citata sentenza della Corte di Giustizia 30 settembre 2010 – circa l’irrilevanza, al fine di riconoscere il risarcimento in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, della colpevolezza della riscontrata violazione di legge – non possa che essere applicato anche in relazione agli appalti il cui importo si collochi al di sotto della c.d. soglia comunitaria; pena una ingiustificabile disparità di trattamento tra imprese che partecipano a gare sopra la soglia, che si vedrebbero riconoscere il risarcimento in base a tale nuovo principio, ed imprese che, partecipando a gare sotto quella soglia, se lo vedrebbero invece negare a causa di difficoltà interpretative della normativa, o della riscontrata esistenza di un qualsivoglia errore scusabile dell’Amministrazione.

In verità, per la stessa necessità di garantire la parità di trattamento, nonché l’uguaglianza tra situazioni giuridiche soggettive aventi pari consistenza e dignità, il principio di cui sopra non può che essere esteso anche ad ambiti diversi da quelli concernenti le procedure di affidamento di appalti nei vari settori.

D’altra parte, nell’ordinamento giuridico italiano un fenomeno interpretativo analogo si è già riscontrato, ad esempio con riferimento alla risarcibilità del danno da violazione di interessi legittimi, che, come è noto, è stata sempre tradizionalmente negata dalla giurisprudenza, per la quale non era configurabile un diritto al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi, con conseguente improponibilità della relativa domanda per difetto assoluto di giurisdizione (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 21 gennaio 1988 n. 436).

La L. 19.02.92 n. 142, recante “disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee (legge comunitaria per il 1991)”, all’art. 13, relativo proprio alle “violazioni del diritto comunitario in materia di appalti e forniture”, aveva però previsto che i soggetti che avessero “subìto una lesione a causa di atti compiuti in violazione del diritto comunitario in materia di appalti pubblici di lavori o di forniture o delle relative norme interne di recepimento” potessero “chiedere all’Amministrazione aggiudicatrice il risarcimento del danno”, e che la domanda di risarcimento fosse “proponibile dinanzi al giudice ordinario”, da chi avesse ottenuto l’annullamento dell’atto lesivo con sentenza del giudice amministrativo.

Ma pur dopo tale disposizione, la giurisprudenza continuava a sostenere che il principio generale della irrisarcibilità della lesione dell’interesse legittimo non potesse ritenersi superato a seguito dell’entrata in vigore del citato art. 13 della L. n. 142/92, “trattandosi di innovazione espressamente limitata al settore della aggiudicazione degli appalti, come confermato dalla successiva legislazione in materia ed in particolare dall’art. 32 comma 3, della l. 11 febbraio 1994 n. 109 (legge quadro in materia di appalti pubblici) – che estende espressamente il principio innovativo alle lesioni derivanti da atti compiuti in violazione della nuova legge sui lavori pubblici e del relativo regolamento – e dall’art. 11 lett. i) della l. 22 febbraio 1994 n. 146 (legge comunitaria per il 1993), che testualmente estende la disposizione anche agli appalti di servizio” (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. un., 16 dicembre 1994 n. 10800; vedi anche Cons. St., sez. IV, 11 dicembre 1998 n. 1627, secondo cui l’art. 13 L. 142/92, introducendo nell’ordinamento la possibilità del risarcimento per la lesione dell’interesse legittimo in materia di appalti, avesse natura sostanziale, ed in quanto tale non potesse trovare applicazione relativamente a fattispecie realizzatesi prima della sua entrata in vigore, perchè all’applicazione retroattiva della norma ostava “la mancanza di una disposizione in tal senso e la non sussistenza nell’ordinamento di un principio generale in ordine alla reintegrazione per equivalente pecuniario della lesione di interessi legittimi”).

Per la prima volta, e ben prima del suo riconoscimento normativo generalizzato, Cass. Civ., Sez. Un., 22 luglio 1999 n. 500, ha però affermato il principio per cui anche la lesione di un interesse legittimo, al pari di quella di un diritto soggettivo o di altro interesse giuridicamente rilevante, può essere fonte di responsabilità aquiliana, e quindi dar luogo a risarcimento del danno ingiusto, a condizione che risulti danneggiato, per effetto dell’attività illegittima dell’Amministrazione, l’interesse al bene della vita al quale il primo si correla, e che detto interesse risulti meritevole di tutela alla stregua del diritto positivo. E questo perché ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, visto che la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante.

Tale principio, come è noto, è stato consacrato in via generale dal legislatore, dapprima con l’art. 7 della L. n. 205/2000, che, nel sostituire l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98, ha previsto che “il giudice amministrativo, nelle controversie devolute alla sua giurisdizione esclusiva, dispone, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, il risarcimento del danno ingiusto”, e, nel sostituire il primo periodo del terzo comma dell’art. 7 della L. n. 1034/71 ha previsto che “il tribunale amministrativo regionale, nell’ambito della sua giurisdizione, conosce anche di tutte le questioni relative all’eventuale risarcimento del danno, anche attraverso la reintegrazione in forma specifica, e agli altri diritti patrimoniali consequenziali”.

E, da ultimo, con il D.Lgs. n. 104/2010, di approvazione del codice del processo amministrativo, che all’art. 7, commi 4 e 5, dispone che “sono attribuite alla giurisdizione generale di legittimità del giudice amministrativo le controversie relative ad atti, provvedimenti o omissioni delle pubbliche amministrazioni, comprese quelle relative al risarcimento del danno per lesione di interessi legittimi e agli altri diritti patrimoniali consequenziali, pure se introdotte in via autonoma. Nelle materie di giurisdizione esclusiva, indicate dalla legge e dall’articolo 133, il giudice amministrativo conosce, pure ai fini risarcitori, anche delle controversie nelle quali si faccia questione di diritti soggettivi”.

E il successivo art. 34, comma 1, lett. c), prevede che “in caso di accoglimento del ricorso il giudice, nei limiti della domanda,…condanna al pagamento di una somma di denaro, anche a titolo di risarcimento del danno, all’adozione delle misure idonee a tutelare la situazione giuridica soggettiva dedotta in giudizio e dispone misure di risarcimento in forma specifica ai sensi dell’articolo 2058 del codice civile”.

Vale a dire che nel tempo la giurisprudenza, ma anche il legislatore, si sono sempre orientati nel senso di evitare le disparità di trattamento che potrebbero derivare dal differenziare, all’interno di un genere più ampio quale può essere quello degli appalti, quelle fattispecie alle quali alcune normative, come quelle comunitarie, trovano applicazione solo in ragione di presupposti quali l’importo dell’appalto; differenziazione che non può essere ritenuta giuridicamente ammissibile quando a venire in rilievo non sono le normative in senso stretto, ma i principi di cui quelle sono espressione, o che sono finanche esplicitati nello stesso Trattato istitutivo della Comunità Europea.

È proprio sulla base di considerazioni di questo tipo, ad esempio, che in giurisprudenza si afferma spesso che, introdotto il principio della risarcibilità del danno da lesione di interessi legittimi nel campo degli appalti pubblici disciplinati dal diritto comunitario, risulterebbe in insanabile contrasto con il principio di uguaglianza il mantenimento di un orientamento di segno negativo in merito alla tutelabilità aquiliana delle stesse posizioni soggettive coinvolte in procedure di gara regolate dalle norme di diritto interno, in quanto concernenti lavori o forniture di livello economico anche lievemente inferiore rispetto allo standard che rende operante la disciplina comunitaria; per cui le procedure di evidenza pubblica vanno applicate anche se l’importo è al di sotto della soglia comunitaria, in rispetto dei principi del trattato CE a tutela della concorrenza (cfr. Cons. St., sez. VI, 15 giugno 2009 n. 3829).

Non sembra inutile rilevare, in quest’ottica, che il D.Lgs. 12 aprile 2006 n. 163 (“Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture, in attuazione delle direttive 2004/17/CE e 2004/18/CE”), all’art. 27, relativo ai “principi relativi ai contratti esclusi”, dispone che (anche) “l’affidamento dei contratti pubblici aventi ad oggetto lavori, servizi forniture, esclusi, in tutto o in parte, dall’applicazione del presente codice, avviene nel rispetto dei principi di economicità, efficacia, imparzialità, parità di trattamento, trasparenza, proporzionalità. L’affidamento deve essere preceduto da invito ad almeno cinque concorrenti, se compatibile con l’oggetto del contratto (…)”.

Da tutto quanto premesso, consegue che, non essendoci la necessità di riscontrare nella fattispecie in esame l’elemento soggettivo, solitamente richiesto per la configurabilità di un danno risarcibile, deve essere verificata la sussistenza degli altri requisiti richiesti per il risarcimento del danno, e cioè la lesione della situazione soggettiva tutelata, l’esistenza di un danno patrimoniale e la sussistenza di un nesso causale tra l’illecito ed il danno subito.

Per quanto riguarda la situazione soggettiva, l’operato dell’Amministrazione ha violato l’interesse legittimo della ricorrente ad un corretto svolgimento della gara, al quale era sotteso l’interesse pretensivo al c.d. “bene della vita”, rappresentato, in questo caso, dall’aggiudicazione della gara stessa.

E tale violazione ha poi determinato un sicuro danno patrimoniale alla ricorrente, perché nella corretta applicazione delle disposizioni regolatrici della procedura, la ricorrente si sarebbe vista aggiudicare la gara, ed avrebbe quindi lucrato il c.d utile d’impresa.

Secondo il Collegio la ricorrente ha quindi assolto l’onere probatorio previsto dall’art. 2697 c.c., secondo cui chi agisce in giudizio deve fornire la prova dei fatti costitutivi della domanda, poiché l’esistenza (“an”) del danno è stata provata in modo univoco – dato che con la corretta applicazione delle regole di gara la ricorrente sarebbe stata l’aggiudicataria – e gli elementi prodotti in giudizio sono quindi sufficienti ad emettere una pronuncia che statuisca sul “quantum” spettante a titolo di riparazione pecuniaria.

Oltretutto, in materia di illeciti civili in generale la prova del danno può essere articolata con ogni mezzo, ivi comprese le allegazioni e le presunzioni semplici (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 13 giugno 2008 n. 15986, con la precisazione che la relativa dimostrazione deve comunque risultare idonea a consentire al giudice, in applicazione della regula iuris di cui all’art. 116 c.p.c., una valutazione in concreto – e cioè caso per caso, anche a prescindere da mere regole statistiche – dell’assunto attoreo, rappresentato in termini consequenziali di verificazione dell’evento di danno/conseguenza ingiustamente dannosa, secondo la regola di inferenza probatoria del «più probabile che non»).

4.2) Si tratta allora di liquidare concretamente il danno, cioè determinare la misura dell’obbligazione pecuniaria dovuta in sostituzione del bene della vita perduto.

Appare utile, a tal riguardo, rammentare che, in generale, il pregiudizio risarcibile si compone, secondo la definizione dell’art. 1223 cod. civ., del danno emergente e del lucro cessante, e cioè della diminuzione reale del patrimonio del privato, per effetto di esborsi connessi alla (inutile) partecipazione al procedimento, e della perdita di un’occasione di guadagno o, comunque, di un’utilità economica connessa all’adozione o all’esecuzione del provvedimento illegittimo.

Se per la prima voce di danno non si pongono particolari problemi nell’assolvimento dell’onere della prova, perchè è sufficiente documentare le spese sostenute, che in questo caso non sono state provate, e che comunque il Collegio non ritiene risarcibili, per la seconda si configurano, viceversa, rilevanti difficoltà.

Per avere accesso al risarcimento, infatti, il privato deve dimostrare non solo che la sua sfera giuridica ha subito una diminuzione per effetto dell’atto illegittimo, ma che non si è accresciuta nella misura che avrebbe raggiunto se il provvedimento viziato non fosse stato adottato o eseguito.

In precedenza, sia il legislatore che la giurisprudenza hanno sentito l’esigenza di ricorrere a criteri presuntivi ed astratti di determinazione del danno.

Il primo ha individuato un preciso canone per la determinazione del pregiudizio connesso alla perdita di un’occasione di successo in una procedura concorsuale, definendo, con l’art. 35 del D.Lgs. n. 80/98 (ora abrogato dal n. 20 del comma 1 dell’art. 4 dell’allegato 4 al D.Lgs. 2 luglio 2010 n. 104), un peculiare metodo di liquidazione del danno fondato proprio sulla definizione giudiziale di parametri valutativi indeterminati.

La giurisprudenza amministrativa ha invece individuato in via equitativa, ex art. 1226 c.c., un riferimento positivo, applicato analogicamente in materia di appalti sia di servizi che di forniture, prima nell’art. 345 della L. 20 marzo 1865 n. 2248, allegato F, e poi nell’art. 122 del D.P.R. 21 dicembre 1999 n. 554, nonchè nell’art. 37 septies, comma 1, lett. c, della l. 11 febbraio 1994 n. 109; tutte disposizioni che quantificano nel 10% “dell’importo delle opere non eseguite” l’importo da corrispondere all’appaltatore in caso di recesso facoltativo dell’Amministrazione, nella determinazione forfettaria ed automatica del margine di guadagno presunto nell’esecuzione di appalti di lavori pubblici (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 6 luglio 2004 n. 5012; Id., sez. V, 30 luglio 2008 n. 3806).

Tale orientamento, peraltro molto diffuso, non era però seguito in maniera unanime, sostenendosi anche che ai fini del risarcimento dei danni provocati da illegittimo esercizio del potere amministrativo il soggetto che avanza la domanda di risarcimento deve fornire in modo rigoroso la prova dell’esistenza del danno, non potendosi invocare il c.d. principio acquisitivo, perché tale principio attiene allo svolgimento dell’istruttoria e non all’allegazione dei fatti. Inoltre, nel processo amministrativo non sarebbero ammissibili domande di condanna generica ex art. 278 c.p.c., e il ricorso alla c.d. “sentenza sui criteri” – ex art. 35, comma 2, d.lgs. n. 80/1998 – di liquidazione del danno postula che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso e che il giudice sia in grado di individuare i criteri generali che saranno di guida per la formulazione dell’offerta da parte della P.A.

(cfr. Cons. St., sez. V, 13 giugno 2008 n. 2967).

Il Collegio ritiene che tale orientamento più rigoroso vada condiviso, soprattutto alla luce di quanto ora disposto dall’art. 124 del citato D.Lgs. 104/2010, relativo alla “tutela in forma specifica e per equivalente”, ai sensi del quale “se il giudice non dichiara l’inefficacia del contratto dispone il risarcimento del danno per equivalente, subìto e provato”.

Tuttavia, per quanto già precisato, il Collegio ritiene che sia stata accertata l’esistenza del danno stesso, e in particolare di quello derivante dal mancato guadagno inevitabilmente derivante dalla mancata esecuzione dei lavori, e anche del danno legato all’impossibilità di vantare in futuro quello specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, cioè la mancata acquisizione di requisiti di qualificazione e di valutazione, invocabili in successive gare.

C’è anche da dire che nel caso in cui le circostanze di fatto relative ad una fattispecie sottoposta a sindacato giurisdizionale siano state analiticamente ricostruite da una delle parti in causa, e non siano state espressamente contestate dall’altra nella loro veridicità, tali circostanze possono anche essere considerate argomenti di prova, alla luce del principio di necessaria valutazione del contegno globale delle parti e delle loro tesi difensive, ex art. 116, comma 2, c.p.c.: infatti, il comportamento processuale della parte può costituire unica e sufficiente fonte di prova e di convincimento del giudice, e non soltanto elemento di valutazione delle prove già acquisite al processo (cfr. Cons. St., sez. V, 13 giugno 2008 n. 2967).

Per quanto riguarda, in particolare, il danno che l’impresa riceverà in futuro dal mancato inserimento di questo specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, il risarcimento del danno futuro, sia in termini di danno emergente che di lucro cessante, non può compiersi in base ai medesimi criteri di certezza che presiedono alla liquidazione del danno già completamente verificatosi nel momento del giudizio, e deve avvenire secondo un criterio di rilevante probabilità; a tal fine, il rischio concreto di pregiudizio è configurabile come danno futuro ogni volta che l’effettiva diminuzione patrimoniale appaia come il naturale sviluppo di fatti concretamente accertati ed inequivocamente sintomatici di quella probabilità, secondo un criterio di normalità fondato sulle circostanze del caso concreto (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. III, 27 aprile 2010 n. 10072).

Probabilità che, in fattispecie come quelle in esame, è certamente elevata, essendo legata alla normale attività d’impresa, fondata su una necessaria costante partecipazione alle gare d’appalto.

Pertanto, il Collegio ritiene di essere in grado di individuare i criteri generali che potranno fungere da guida per la successiva quantificazione del danno, e, in particolare, per la formulazione di una proposta risarcitoria da parte del Comune resistente ed il raggiungimento di un accordo con la ricorrente.

Infatti, l’art. 34, comma 4, del D.Lgs. n. 104/2010, dispone che “in caso di condanna pecuniaria, il giudice può, in mancanza di opposizione delle parti, stabilire i criteri in base ai quali il debitore deve proporre a favore del creditore il pagamento di una somma entro un congruo termine”.

Se le parti non giungono ad un accordo, ovvero non adempiono agli obblighi derivanti dall’accordo concluso, con il ricorso previsto dal Titolo I del Libro IV (giudizio di ottemperanza), possono essere chiesti la determinazione della somma dovuta ovvero l’adempimento degli obblighi ineseguiti.

In particolare, il Comune dovrà, in contraddittorio con l’impresa:

attenersi all’offerta economica presentata dalla ricorrente in sede di gara;

valorizzare sul punto l’elaborato contenente le giustificazioni delle voci di prezzo che concorrono a formare l’importo complessivo esibito;

tenere in particolare conto di tutte le spese sostenute (compresa manodopera, noleggi e spese generali);

determinare il margine di guadagno che residua dopo l’applicazione del ribasso indicato in sede di gara;

considerare il danno che l’impresa riceverà in futuro dal mancato inserimento di questo specifico appalto nel proprio curriculum d’impresa, in base alle pregresse partecipazioni ad altre gare d’appalto, ed anche alle eventuali aggiudicazioni.

Tradizionalmente la giurisprudenza afferma che in caso di annullamento dell’aggiudicazione, e di certezza dell’aggiudicazione in favore del ricorrente, il mancato utile spetta nella misura integrale solo se il ricorrente dimostri di non aver potuto altrimenti utilizzare maestranze e mezzi, tenuti a disposizione in vista dell’aggiudicazione; in difetto di tale dimostrazione, è da ritenere che l’impresa possa aver ragionevolmente riutilizzato mezzi e manodopera per altri lavori o servizi, e di qui la decurtazione del risarcimento (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 21 settembre 2010 n. 7004). Si tratta di un’applicazione del principio dell’aliunde perceptum, in base al quale, onde evitare che a seguito del risarcimento il danneggiato possa trovarsi in una situazione addirittura migliore rispetto a quella in cui si sarebbe trovato in assenza dell’illecito dall’importo dovuto a titolo risarcitorio va detratto quanto da lui percepito grazie allo svolgimento di diverse attività lucrative, nel periodo in cui avrebbe dovuto eseguire l’appalto in contestazione.

In sostanza, l’onere di provare (l’assenza del)l’aliunde perceptum viene fatto gravare non sull’Amministrazione, ma sull’impresa, e tale ripartizione muove dalla presunzione, a sua volta fondata sull’id quod plerumque accidit, secondo cui l’imprenditore (specie se in forma societaria), in quanto soggetto che esercita professionalmente una attività economica organizzata finalizzata alla produzione di utili, normalmente non rimane inerte in caso di mancata aggiudicazione di un appalto, ma si procura prestazioni contrattuali alternative, dalla cui esecuzione trae utili (cfr. Cons. St., sez. VI, 9 giugno 2008 n. 2751).

Il Collegio osserva però che, in base all’art. 2697 c.c., “chi vuol far valere un diritto in giudizio deve provare i fatti che ne costituiscono il fondamento”, e “chi eccepisce l’inefficacia di tali fatti ovvero eccepisce che il diritto si è modificato o estinto deve provare i fatti su cui l’eccezione si fonda”.

Quindi, è da escludere che l’impresa debba fornire tale dimostrazione, perché in generale l’attore-danneggiato deve provare i fatti costitutivi del diritto dedotto in giudizio, ma non anche dimostrare che non ricorrono, nel caso, fatti impeditivi, modificativi o estintivi (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 1998 n. 9588); e questo sia perché l’onere di provare i fatti estintivi e modificativi del credito spetta alla parte debitrice, cioè nella fattispecie al Comune, nei cui confronti è stata indirizzata la domanda di risarcimento, sia perché la regola di giudizio seguita di solito dalla giurisprudenza conduce a manifeste aporie applicative.

Infatti, il principio messo a punto dalla giurisprudenza, qualora portato alle estreme conseguenze logiche, finirebbe per precludere in ogni caso il risarcimento del danno per mancato utile, e ciò perché, anche nell’ipotesi in cui l’impresa non avesse percepito alcunché per attività lucrative diverse da quelle derivanti dall’esecuzione del contratto non aggiudicato, la stessa non potrebbe mai sperare nell’attribuzione giurisdizionale di un qualunque ristoro in ragione dell’impossibilità, o quanto meno della eccessiva difficoltà, di provare un fatto negativo (consistente, per l’appunto, nel non aver beneficiato di alcun aliunde perceptum).

Inoltre, si perverrebbe al riconoscimento di una legittimazione sostanziale al risarcimento soltanto in capo a quelle imprese le quali, durante l’intero svolgimento della vicenda procedimentale e del processo, siano rimaste del tutto inattive, o, peggio, siano fallite, perchè soltanto in questo caso sarebbe, forse, dimostrabile il mancato guadagno (cfr. Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., sez giurisd., 21 settembre 2010 n. 1226).

E d’altra parte, anche in materia di determinazione dei danni conseguenti a licenziamento illegittimo, in cui frequentemente viene in rilievo il problema di eventuale guadagno aliunde perceptum, si afferma che è il datore di lavoro, che eccepisca l’”aliunde perceptum” in relazione a redditi del lavoratore maturati dopo la proposizione della domanda, ad avere l’onere della allegazione e della relativa prova (cfr., ex multis, Cass. civ., sez. lav., 1 settembre 2000 n. 11487; Id., sez. lav., 19 gennaio 2006 n. 945).

Ciò non toglie che nel valutare il danno il giudice ha il potere – in base a contrari elementi acquisiti al giudizio o eventualmente anche a dati di comune conoscenza – di negare il risarcimento, o di ridurlo, nella misura in cui ritenga dimostrato, rispettivamente, che con l’uso dell’ordinaria diligenza questa perdita avrebbe potuto essere in tutto o in parte evitata, o lo è stata effettivamente (cfr. Cass. civ., sez. III, 25 settembre 1998 n. 9588).

E non a caso, in giurisprudenza si chiarisce anche che, pur gravando sul datore di lavoro l’onere di provare l’aliunde perceptum o l’aliunde percipiendum, allo scopo di conseguire il ridimensionamento della quantificazione del danno, ciò possa avvenire “con l’ausilio di presunzioni semplici” (cfr. Cass. civ., sez. lav., 8 giugno 1999 n. 5662).

Vale a dire che la prova dell’aliunde perceptum dal lavoratore illegittimamente licenziato, posta a carico del datore di lavoro e necessaria ai fini della riduzione dell’obbligo risarcitorio del medesimo, può risultare anche da presunzioni semplici, sempreché esse rispondano ai requisiti di cui agli artt. 2727 (“Le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”) e 2729 c.c. (“Le presunzioni non stabilite dalla legge sono lasciate alla prudenza del giudice, il quale non deve ammettere che presunzioni gravi, precise e concordanti”); e ferma restando, in particolare, la necessità che tra il fatto noto costituente la premessa (e non risultante da precedente presunzione) ed il fatto ignorato assunto come conseguenza sussista un rigoroso nesso di conseguenzialità logica, secondo un criterio di normalità se non proprio di necessità (cfr. Cass. civ., sez. lav., 16 marzo 1992 n. 3205).

Vale a dire che, per quanto riguarda il caso in esame, nell’ambito della fase di contraddittorio che il Comune dovrà instaurare con l’impresa, l’importo individuato in base ai criteri sopra indicati non dovrà essere automaticamente ridotto per effetto del cd. “aliunde perceptum”, da presumere tout court; anche perché la ricorrente potrebbe essere in grado di dimostrare che le prestazioni contrattuali alternative e similari, dalla cui esecuzione ha tratto utili nel periodo di mancata aggiudicazione, non avrebbero reso impossibile la contemporanea esecuzione dei lavori oggetto dell’appalto mancato. Viceversa, il Comune, anche in base alla pregressa e usuale attività di impresa della ricorrente, e della frequenza nella partecipazione alle gare, nonché delle relative eventuali aggiudicazioni, potrà invocare, avvalendosi degli elementi in suo possesso ovvero utilizzando il materiale probatorio introdotto dalla ricorrente, l’esistenza di fatti totalmente o parzialmente impeditivi del diritto al risarcimento.

Pertanto, in conclusione, il Comune resistente è tenuto – ai sensi del citato art. 34, comma 4, del D.Lgs. n. 104/2010 – a quantificare, in contraddittorio con la ricorrente, la somma ad essa spettante a titolo risarcitorio, e a rivolgerle la relativa offerta dettagliata e motivata, nel termine di giorni 60, decorrente dalla comunicazione o notifica della presente sentenza.

Su detto importo, una volta concordato, il Comune dovrà poi computare la rivalutazione monetaria maturata, secondo gli indici ISTAT, a decorrere dalla notifica del ricorso introduttivo fino alla data di deposito della presente decisione, giacché con la pubblicazione si verifica la trasformazione del debito di valore in debito di valuta.

Saranno altresì corrisposti dal Comune gli interessi legali sulle somme sopra indicate, a decorrere dalla data di pubblicazione sopra indicata fino all’effettivo soddisfo.

In conclusione, il ricorso va accolto, sebbene limitatamente alla dichiarazione di illegittimità dei provvedimenti impugnati, ed al riconoscimento del diritto al risarcimento del danno, con le modalità e nei termini di cui sopra.

Le spese seguono la soccombenza, e liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

definitivamente pronunciando sul ricorso, come in epigrafe proposto, lo dichiara improcedibile, per sopravvenuta carenza di interesse, limitatamente alla richiesta di annullamento dei provvedimenti impugnati, e lo accoglie, nei termini di cui in motivazione, nella parte relativa alla richiesta di risarcimento dei danni subiti, con relativa condanna del Comune al pagamento delle somme, da quantificare con le modalità individuate in motivazione.

Condanna altresì Comune resistente e controinteressata al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese di giudizio, liquidate in € 2.500,00 a carico di ciascuna, oltre IVA e CPA, e spese generali al 12,50%.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso a Catania, nelle camere di consiglio dei giorni 10 e 24 novembre 2010, con l’intervento dei magistrati:

*****************, Presidente

***************, Consigliere

Dauno Trebastoni, Primo Referendario, Estensore

L’ESTENSORE

 

IL PRESIDENTE

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 07/12/2010

IL SEGRETARIO

(Art. 89, co. 3, cod. proc. amm.)

sentenza

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