Tar Catania, I sez., sent. 215/08 del 31/01/2008 (Pres. Zingales, est. Boscarino) sugli appalti in house.

sentenza 21/02/08
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REPUBBLICA ITALIANA
N. _215/08 Reg. sent.
 
N. 72/07 Reg. Gen.
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Tribunale Amministrativo Regionale della Sicilia, Sezione staccata di Catania – Sezione Prima – nelle persone dei magistrati
Dr.       *****************        – Presidente
Dr.ssa   ***************            – Consigliere
Dr.ssa   ********************** – Primo Referendario, Relatore est.
ha pronunciato la seguente
S E N T E N Z A

sul ricorso n. 72/07,

proposto da Assoutenti – Associazione nazionale utenti dei servizi pubblici, rappresentata e difesa dagli avv.ti ******** Segreto e ****************, e domiciliata presso lo studio dell’avv. ******************, a Catania, viale A. Doria 2/b,
contro
la Provincia Regionale di Enna, rappresentata e difesa dall’avv. ***************, con domicilio eletto a Catania, via Duca degli Abruzzi 58/g, presso lo studio dell’avv. ***************, e nei confronti di ******à Multiservizi Energia srl unipersonale, rappresentata e difesa dall’avv. *************, con domicilio eletto presso il suo studio, a Catania, via Toselli 40,
per l’annullamento,
previa sospensione dell’efficacia, della deliberazione del Consiglio Provinciale n. 50 del 27 settembre 2006, divenuta esecutiva in data 26.10.2006 di “approvazione regolamento per il controllo di rendimento di combustione dello stato di esercizio e manutenzione degli impianti termici”,nonché dello stesso regolamento, e sul ricorso per motivi aggiunti proposto da Assoutenti, come sopra rappresentata e difesa,
contro la Provincia Regionale di Enna, come sopra rappresentata e difesa, e nei confronti di ******à Multiservizi Energia srl unipersonale, come sopra rappresentata e difesa, e ******à Multiservizi spa, non costituita, per l’annullamento, previa sospensione dell’efficacia,
  • della deliberazione della Giunta Provinciale n. 121 del 24 novembre 2006, pubblicata all’Albo pretorio provinciale in data 26.11.2006 e fino all’11.12.2006, divenuta esecutiva in data 21.12.2006, avente ad oggetto “Modifica Convenzione con la ******à Multiservizi Energia S.r.l. Unipersonale per la verifica degli impianti termici”, con la quale la Provincia di Enna ha affidato il servizio di verifica degli impianti termici alla ******à Multiservizi Energia s.r.l. unipersonale;
  • della relativa Convenzione per l’affidamento del servizio per la verifica e i controlli degli impianti termici;
  • dell’atto notarile, repertorio n. 15083, raccolta n. 4836, del notaio F. Greco, di “costituzione di società a responsabilità limitata con unico socio”, con il quale in data 28.4.05 è stata costituita la società Multiservizi Energia srl unipersonale;
  • della Determinazione del Dirigente del Settore VIII, n. 78 del 29.06.2005, con la quale la Provincia di Enna ha preso atto del provvedimento con il quale la ******à Multiservizi spa ha conferito alla società Multiservizi energia srl Unipersonale l’attività di verifica degli impianti termici e tutti i concernenti rapporti attivi e passivi;
  • della Deliberazione di **** n. 245 del 06.12.89, con la quale è stata costituita la società a capitale misto pubblico-privato denominata Enna Servizi spa, successivamente denominata Multiservizi spa;
  • delle Deliberazioni di G.P. nn. 216/99, 446/2000, 64 e 96/2001, 191/2002, con le quali la Provincia di Enna ha affidato alla società Multiservizi spa, per dieci anni a decorrere dalla data di stipula della convenzione e sino al 30.12.2012, il servizio di controllo degli impianti termici ubicati nel territorio di competenza della Provincia;
  • dell’avviso a firma del responsabile tecnico della società Multiservizi Energia srl Unipersonale, ing. ******** ***, Rif. EN39319, recapitato al sig. ****** ***, con il quale si comunica il controllo dell’impianto di riscaldamento per il giorno 14.02.07 ed il costo della verifica.
Visto il ricorso con i relativi allegati.
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Provincia Regionale di Enna e della ******à Multiservizi Energia srl unipersonale.
visti gli atti e i documenti depositati.
Designato relatore per l’udienza del 6 dicembre 2007 il Primo Ref. **********************, e uditi, come da verbale, i difensori delle parti.
visti l’art. 37 della L. n. 1034/1971, e l’art. 27, n. 4, del R.D. n. 1054/1924.
ritenuto in fatto e in diritto quanto segue.
fatto
Con deliberazione di Consiglio Provinciale n. 50 del 27 settembre 2006 la Provincia di Enna ha approvato il regolamento per il controllo di rendimento di combustione dello stato di esercizio e manutenzione degli impianti termici, in applicazione della L. 10/91, del DPR 412/91 e della L.R. 19/05, revocando il regolamento precedentemente approvato con deliberazione di **** n. 9/96.
Con atto notificato il 29 dicembre 2006, e depositato il successivo 10 gennaio 2007, l’Associazione ricorrente ha impugnato tale regolamento.
Il 30 gennaio 2007 si è costituita con memoria la Provincia.
Con deliberazione di Giunta Provinciale n. 121 del 24 novembre 2006, pubblicata all’Albo pretorio provinciale in data 26.11.2006 e fino all’11.12.2006, divenuta esecutiva in data 21.12.2006, la Provincia, modificando la relativa convenzione, ha riaffidato il servizio di verifica degli impianti termici alla ******à Multiservizi Energia s.r.l. unipersonale.
Con atto notificato il 2 febbraio 2007, e depositato il successivo 6 febbraio, l’Associazione ricorrente ha quindi impugnato, con motivi aggiunti, anche tale deliberazione, unitamente ad una serie di atti che riguardano la costituzione della Multiservizi Energia srl, nonché della società, denominata Multiservizi spa, dalla quale la prima ha avuto ceduto il ramo di azienda relativo alla verifica di impianti termici.
Con ordinanza n. 102 del 14 febbraio 2007 questa Sezione ha accolto l’istanza cautelare.
Con ordinanza n. 506 del 25 giugno 2007 il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana ha rigettato l’appello proposto dalla Provincia, sebbene solo sotto il profilo del danno.
Il 24 novembre 2007 si è costituita anche la Multiservizi Energia srl, che il 29 novembre ha depositato memoria.
Il 23 novembre 2007 ha depositato ulteriore memoria anche la Provincia.
Con deliberazione adottata il 28 giugno 2007, la commissione per il gratuito patrocinio costituita presso questo Tribunale ha ammesso l’associazione ricorrente al gratuito patrocinio.
Alla pubblica udienza del 6 dicembre 2007 la causa è stata chiamata per la discussione del merito, e posta in decisione.
diritto
1. Preliminarmente va esaminata l’eccezione di tardività del ricorso principale, sollevata sia dalla Provincia che dalla controinteressata.
Tale eccezione si fonda sulla circostanza che la deliberazione di **** n. 50 del 27 settembre 2006, di approvazione del regolamento contestato, è stata pubblicata all’albo pretorio dell’Ente per 15 giorni consecutivi, dal 1° ottobre al 16 ottobre 2006, data dalla quale dovrebbe decorrere il termine di impugnazione; e poiché il ricorso è stato notificato soltanto il 29 dicembre 2006, esso sarebbe tardivo.
Nonostante tale non contestata circostanza di fatto, il Collegio ritiene comunque che sussistano i presupposti per riconoscere alla ricorrente l’errore scusabile.
L’art. 21, comma primo, L. n. 1034/1971, nel testo novellato dalla L. n. 205/2000, dispone che in tutti i casi in cui non sia necessaria, come nel caso in esame, la notificazione individuale del provvedimento, e sia al contempo prescritta da una norma di legge o di regolamento la pubblicazione dell’atto in un apposito albo, il termine per proporre l’impugnazione decorre dal giorno in cui sia scaduto il periodo della pubblicazione.
Per quanto riguarda il caso in esame, trova applicazione, più che l’art. 124 del D. Lgs. n. 267/2000, l’art. 11 della L.R. 44/91, ai sensi del quale “tutte le deliberazioni provinciali e comunali sono pubblicate mediante affissione di copia integrale di esse all’albo dell’ente, istituito presso la relativa sede, per quindici giorni consecutivi, salvo specifiche disposizioni di legge”.
Tale disposizione concretizza quindi la norma di legge richiesta dal citato art. 21 quale requisito perchè il termine di impugnazione decorra “dal giorno in cui sia scaduto il periodo della pubblicazione”, e quindi, in questo caso, dal 16 ottobre 2006.
L’art. 12, comma 1, della citata L.R. 44/91 prevede inoltre che “le deliberazioni non soggette al controllo preventivo di legittimità…diventano esecutive dopo il decimo giorno dalla relativa pubblicazione”. In sostanza, le deliberazioni diventano ex lege esecutive decorsi 10 giorni dall’inizio della loro pubblicazione, per cui, quando sono trascorsi 15 giorni dalla pubblicazione, e comincia a decorrere il termine per la loro impugnazione, le deliberazioni sono già diventate esecutive.
Nel caso di specie, da una parte, l’art. 11 dell’impugnato regolamento prevede che “il presente regolamento entra in vigore il giorno successivo all’esecutività della delibera che lo approva”; dall’altra, sulla deliberazione in questione, nella parte relativa agli “estremi di esecutività”, il Segretario Generale ha certificato che la delibera “è divenuta esecutiva il 26.10.2006 decorsi dieci giorni dalla pubblicazione…”.
Pertanto, a prescindere dal fatto che può essersi trattato di un errore materiale, perché il termine indicato, essendo iniziata la pubblicazione il 1° ottobre 2006, avrebbe dovuto essere l’11 ottobre 2006, a norma del citato art. 12, comma 1, L.R. 44/91 (in base al quale “le deliberazioni…diventano esecutive dopo il decimo giorno dalla relativa pubblicazione”), resta però il fatto che tale specificazione fosse, di per sé, sufficiente a trarre in inganno e fuorviare circa l’effettivo momento di esecutività della delibera, che viene indicato addirittura nel decimo giorno successivo al decorso dei previsti quindici giorni di pubblicazione, scaduti appunto il 16 ottobre.
Ora, come è noto, l’errore scusabile, disciplinato dall’art. 34 t.u. Cons. St., e dall’art. 34 L. Tar – che pure ha carattere generale – è applicabile anche d’ufficio, e per pacifico orientamento giurisprudenziale è suscettibile di utilizzazione, tra gli altri, in tutti i casi in cui siano ravvisabili comportamenti fuorvianti dell’amministrazione dai quali possa conseguire difficoltà nella domanda di giustizia ed un’effettiva diminuzione della tutela giurisdizionale (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 31 maggio 2006 n. 3323).
È pur vero che secondo il citato art. 21 L. 1034/71 il termine per proporre l’impugnazione decorre dal giorno in cui sia scaduto il periodo della pubblicazione. Tuttavia, tale norma presuppone evidentemente, come quelle citate della L.R. 44/91, che l’atto sia esecutivo, vale a dire esplichi la propria efficacia lesiva.
La problematica in esame appare strettamente legata ad alcune categorie processuali, come i presupposti, di ricevibilità o di ammissibilità, di un ricorso giurisdizionale, tra i quali, soprattutto, l’interesse ad agire e la legittimazione ad agire.
È noto che può avere titolo a che un giudice amministrativo si pronunci sul merito di un ricorso soltanto chi faccia valere una lesione recata in modo diretto e attuale ad un proprio interesse personale e attuale, protetto dall’ordinamento, e abbia un interesse – anch’esso personale e attuale – alla pronuncia richiesta (nel processo civile, invece, così come nel processo amministrativo nei casi di giurisdizione esclusiva, l’interesse ad agire con l’azione di mero accertamento non implica necessariamente l’attuale verificarsi della lesione di un diritto, essendo sufficiente uno stato di incertezza oggettiva sull’esistenza di un rapporto giuridico e sull’esatta portata dei diritti e degli obblighi da esso scaturenti, costituendo la rimozione della detta incertezza un risultato utile e giuridicamente rilevante: cfr. Cass., sez. lav., 28 giugno 1997 n. 5819; Cons. St., sez. V, 14 dicembre 1989 n. 833).
Per quanto attiene alla concretezza ed attualità della lesione, e all’efficacia dell’atto, in giurisprudenza si esclude l’interesse ad impugnare:
Tali atti, infatti, ove siano viziati, incidono su interessi sostanziali soltanto indirettamente, cioè tramite l’invalidità derivata dell’atto in funzione del quale furono emanati, con la conseguenza che l’interessato si limiterà ad impugnare l’atto derivato o definitivo per il vizio suo proprio derivatogli dal primo.
Allo stesso modo, viene escluso l’interesse a ricorrere quando la lesione non derivi direttamente dall’atto impugnato, ma da un atto diverso ed anteriore, come nei casi di atti di mera esecuzione, o consequenziali, o confermativi di precedenti atti non impugnati. Qualora l’atto presupposto sia stato impugnato, si ritiene poi che a carico dell’interessato non sorga l’onere di impugnare anche l’atto consequenziale in senso stretto, al fine di evitare l’improcedibilità del primo ricorso per sopravvenuta carenza di interesse (cfr., ex multis, Cons. St., sez. IV, 12 gennaio 2005 n. 43).
Ora, per quanto riguarda la categoria degli atti presupposti, la giurisprudenza esclude, a causa della mancanza attuale della lesione di un interesse, che l’illegittimità dell’atto presupposto possa essere fatta valere autonomamente, se non al momento in cui sia stato emanato il provvedimento concretamente lesivo adottato sul suo presupposto, come nel caso tipico di un regolamento di cui il provvedimento lesivo sia applicazione. Tuttavia, talvolta, si precisa che ai fini dell’onere di diretta impugnazione del regolamento immediatamente lesivo, il requisito dell’attualità della lesione dell’interesse dedotto in giudizio va accertato in concreto, con riferimento, cioè, all’entità e alle modalità dell’incidenza effettuale, e non semplicemente ipotetica ed eventuale, dell’atto regolamentare nella sfera giuridica dei ricorrenti (cfr. Cons. St., sez. IV, 19 ottobre 1993 n. 897). In questi casi, la giurisprudenza ritiene che l’atto presupposto vada impugnato in maniera autonoma, sebbene contestualmente all’atto che ne faccia applicazione, dichiarando inammissibile il ricorso contro tale provvedimento applicativo che non sia rivolto anche contro quello presupposto.
Nell’esame dei problemi legati all’insorgenza dell’onere di impugnazione, già oltre cinquanta anni addietro la dottrina ha distinto le disposizioni regolamentari in due tipi, diversi per caratteristiche ed efficacia, di cui uno incide direttamente nella sfera giuridica dei soggetti cui le disposizioni sono applicabili, mentre l’altro tipo regola la condotta che la stessa amministrazione dovrà tenere in futuro, e che si esplicherà attraverso l’emanazione di atti applicativi. Mentre per il primo tipo di disposizioni un ricorso al giudice amministrativo potrà e dovrà essere proposto subito, per il secondo tipo, invece, un ricorso immediato non sarà proponibile.
La prima categoria di norme corrisponde a quelle definite volizioni-azioni, mentre la seconda alle volizioni preliminari, per cui l’unico modo per accertare che un atto costituisce una volizione preliminare consiste nel rilevare la necessità di un successivo provvedimento, per raggiungere l’effetto giuridico desiderato; così come, viceversa, l’unico modo per accertare che una volizione è concreta ed efficace consiste nel rilevare che essa raggiunge immediatamente l’effetto giuridico voluto, come nel caso in esame. Naturalmente, questa stessa distinzione può essere considerata relativa, nel senso che un determinato atto, che rispetto a un certo effetto giuridico si pone come volizione-azione, rispetto a un altro effetto giuridico può essere considerata come una volizione preliminare (come nel caso di un bando di concorso).
Con riferimento al primo tipo di norme, non soltanto la lesione da esse prevista è futura, perché rinviata al provvedimento applicativo, ma è anche eventuale, in quanto è eventuale l’emanazione del provvedimento stesso. Infatti, anche quando l’amministrazione sia obbligata ad emanare quest’ultimo, può in ipotesi sempre succedere, per un qualsiasi motivo, che l’amministrazione resti inerte, e non provveda nel senso in cui sarebbe obbligata a fare. Vale a dire che non è sufficiente una mera minaccia, per quanto imminente, o anche una certezza che questa modificazione si verificherà in un momento futuro più o meno determinato.
Inoltre, il fatto stesso che, con l’emanazione del regolamento, sorga per l’Amministrazione l’obbligo di agire in seguito – al concretizzarsi delle condizioni astrattamente previste – non sembra sufficiente per l’insorgenza dell’onere di impugnazione, visto che questo è legato ad un’effettiva modificazione delle situazioni giuridiche, che si verifica soltanto con l’emanazione del provvedimento applicativo. Altrimenti si dovrebbe ritenere che la modificazione si abbia con la semplice previsione dell’obbligo di agire.
Per quanto in questa sede interessa, il problema consiste nel non far coincidere il concetto di illegittimità con quello di lesione, considerando che anche un atto illegittimo non è necessariamente lesivo. Infatti, la lesività è legata alla concreta ed “attuale” modificazione di posizioni giuridiche (motivo per cui di solito non è dato ricorso in caso di lesione soltanto temuta), e, al contrario di quanto sostenuto dalla difesa della Provincia, nelle valutazioni sia della dottrina che della numerosa ed esemplificativa giurisprudenza citata il concetto di esecutività e quello di efficacia coincidono.
E d’altra parte, se nel linguaggio giuridico per “efficacia giuridica” si intende l’attitudine di un atto o di un fatto giuridico a produrre i suoi effetti, il concetto di “esecutività” (strettamente legata all’imperatività, intesa come forza giuridica del provvedimento, cioè come capacità dello stesso di costituire, modificare o estinguere situazioni soggettive unilateralmente, a prescindere dal consenso di chi subisce tale conseguenza), indica l’assenza di impedimenti di natura giuridica (condizione, controllo da eseguire, etc.) e quindi la possibilità che l’atto dispieghi tutti i suoi effetti (ad es. trasferimento della proprietà del bene espropriato). A tacer d’altro, infine, lo stesso art. 21-quater L. 241/90 (aggiunto dall’art. 14 L. n. 15/2005) è intitolato “efficacia ed esecutività del provvedimento”.
Applicando tali precisazioni al caso in esame, si ha che, a causa del descritto comportamento fuorviante dell’Amministrazione, i cittadini hanno avuto motivo di credere che al momento di scadenza del periodo di pubblicazione la deliberazione in questione – la cui esecutività è stata indicata dal Segretario Generale al 26 ottobre, e cioè al decimo giorno successivo al decorso di quei quindici giorni – non avesse ancora, a prescindere dalla sua illegittimità, alcuna efficacia lesiva, e non concretizzasse pertanto (non ancora) quella attualità dell’interesse a ricorrere necessaria per rivolgersi al giudice; con la conseguenza che, in tale configurazione, non poteva ritenersi che il termine per l’impugnazione decorresse ugualmente (proprio in questa ottica, vedi infatti T.A.R. Lazio, sez. II, 23 settembre 2002 n. 7998, che ribadisce che “il termine per l’impugnazione della variante generale al piano regolatore generale decorre, ai sensi dell’art. 21 l. 6 dicembre 1971 n. 1034, dal giorno successivo a quello ultimo di pubblicazione (…) ovvero dalla data di esecutività degli stessi allorché questa risulti successiva a quella dell’ultimo giorno di pubblicazione”).
D’altra parte, la stessa circostanza si verificherebbe in quelle ipotesi in cui, per ragioni disparate, fosse la stessa Amministrazione ad individuare, già nel provvedimento che va ad emanare, un momento di decorrenza della sua efficacia di gran lunga successivo a quello di pubblicazione, e in ipotesi distante anche parecchi mesi. Ipotesi in cui, se si ritenesse che anche in tali casi il termine di impugnazione decorra ugualmente, laddove il giudice giungesse teoricamente a pronunciarsi sul merito della causa prima che l’atto produca i propri effetti dovrebbe dichiarare il ricorso inammissibile per carenza di interesse.
In definitiva, quindi, a seguito del riconoscimento dell’errore scusabile, il ricorso principale, notificato il 29 dicembre 2006, va ritenuto tempestivo, considerato che, secondo quanto attestato dal Segretario Generale:
a)      la delibera è divenuta esecutiva il 26 ottobre 2006;
b)      il regolamento da essa approvato è entrato in vigore il 27 ottobre;
c)      il termine per l’impugnazione, decorrente dal 28 ottobre, è scaduto, tenendo conto che il 26 dicembre 2006 era festivo, il 27 dicembre;
d)     l’atto è stato consegnato all’ufficiale giudiziario per la notifica il 27 dicembre 2006.
2. Una seconda questione preliminare, sempre relativa al ricorso principale, riguarda la legittimazione a ricorrere in capo all’Associazione ricorrente, contestata dalla Provincia, ma secondo il Collegio ingiustificatamente.
Il D.Lgs. 6 settembre 2005 n. 206 (Codice del consumo), all’art. 137 prevede che “presso il Ministero delle attività produttive è istituito l’elenco delle associazioni dei consumatori e degli utenti rappresentative a livello nazionale”; ai sensi dell’art. 139, relativo alla “legittimazione ad agire”, tali associazioni “sono legittimate ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti. Oltre a quanto disposto dall’articolo 2, le dette associazioni sono legittimate ad agire nelle ipotesi di violazione degli interessi collettivi dei consumatori contemplati nelle materie disciplinate dal presente codice”, nonché dalle disposizioni legislative in materia di esercizio delle attività televisive e di pubblicità dei medicinali per uso umano.
Per l’art. 2, relativo ai “diritti dei consumatori”, “sono riconosciuti e garantiti i diritti e gli interessi individuali e collettivi dei consumatori e degli utenti”, e “ne è promossa la tutela in sede nazionale e locale, anche in forma collettiva e associativa”; inoltre, ai consumatori ed agli utenti sono riconosciuti come fondamentali, tra gli altri, i diritti “alla sicurezza e alla qualità dei prodotti e dei servizi”, ed “all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”.
L’art. 140, poi, dispone che le associazioni iscritte in quell’elenco nazionale sono legittimate “ad agire a tutela degli interessi collettivi dei consumatori e degli utenti richiedendo al tribunale: a) di inibire gli atti e i comportamenti lesivi degli interessi dei consumatori e degli utenti; b) di adottare le misure idonee a correggere o eliminare gli effetti dannosi delle violazioni accertate; c) di ordinare la pubblicazione del provvedimento su uno o più quotidiani a diffusione nazionale oppure locale nei casi in cui la pubblicità del provvedimento può contribuire a correggere o eliminare gli effetti delle violazioni accertate”.
Per espressa previsione del comma 11 del medesimo art. 140, “resta ferma la giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo in materia di servizi pubblici…”.
Ora, anche nell’ultimo Decreto di aggiornamento dell’elenco delle associazioni dei consumatori e utenti iscritte al citato elenco nazionale, emanato il 27.11.2006 dal Direttore Generale per l’armonizzazione del mercato e la tutela dei consumatori, presso il Ministero dello sviluppo economico, l’associazione ricorrente, Assoutenti, si trova specificamente inserita; non può quindi esservi dubbio sul fatto che essa debba essere ritenuta legittimata, tra l’altro, ad agire quanto meno a tutela del diritto di consumatori ed utenti “all’erogazione di servizi pubblici secondo standard di qualità e di efficienza”, anche impugnando, come nel caso in esame, atti regolamentari volti a disciplinare la verifica degli impianti termici privati e la fissazione delle tariffe relative, in quanto la congruità delle stesse, collegate ad un servizio al quale i cittadini utenti non possono per legge sottrarsi, devono poter essere contrastate in sede giurisdizionale (cfr. Cons. St., sez. V, 15 ottobre 2003 n. 6317ussiste la legittimazione a ricorrere avverso le determinazioni comunali di fissazione delle tariffe relative alla verifica degli impianti termici in capo al S.U.N.I.A. – Sindacato unitario nazionale inquilini e assegnatari di alloggi, atteso che detta organizzazione sindacale ha tra le proprie finalità quella di promuovere una maggiore moderazione e la trasparenza delle tariffe collegate ad un servizio al quale i cittadini utenti non possono per legge sottrarsi e, pertanto, ben può contrastare, in sede giurisdizionale, le scelte tariffarie ritenute incongrue”).: “s
Infatti, poiché, come è noto, l’interesse a ricorrere è quello al conseguimento anche in via strumentale di un’utilità o di un vantaggio attraverso l’eliminazione del provvedimento impugnato, nei confronti di una deliberazione, come quella in esame, che comporti un aumento di tariffe, tale interesse all’impugnazione sussiste sia da parte degli utenti, che sono personalmente incisi da tale aumento, sia da parte di un’associazione di consumatori ed utenti, che agisce a tutela dell’interesse – collettivo di natura seriale, di pertinenza della collettività degli utenti dei vari servizi offerti dal mercato specifico – alla correttezza e trasparenza dei relativi costi (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. III, 5 ottobre 2005 n. 7832).
In sostanza, anche se una associazione di consumatori non è titolare di una situazione soggettiva che valga a conferirle un potere di vigilanza sull’ente che offre il pubblico servizio, è comunque legittimata ad agire per l’inibizione di comportamenti o atti lesivi degli interessi dei soggetti-utenti che essa rappresenta (cfr. T.A.R. Lazio, sez. III, 22 dicembre 2006 n. 8899; vedi anche Cons. St., sez. VI, 31 ottobre 1992 n. 841, a proposito dell’impugnazione del regolamento per il servizio telefonico e delle tariffe).
3.1. Nel merito, il ricorso principale è fondato, e pertanto va accolto, per le considerazioni di seguito esplicitate.
Con il ricorso principale l’associazione ricorrente fa valere i seguenti motivi di ricorso:
1)      violazione e falsa applicazione dell’art. 21 L.R. n. 19/05, dell’art. 16 L. n. 10/91, dell’art. 1 D.Lgs. n. 192/2005 anche in relazione agli artt. 117, 23 e 53 Cost. – Eccesso di potere – Illegittimità costituzionale;
2)      violazione e falsa applicazione dell’art. 9 del D.Lgs. n. 192/2005 e degli artt. 8 e 117 D.Lgs. 267/2000, dell’art. 3 L. n. 241/90 anche in relazione agli artt. 23 e 53 Cost. – Eccesso di potere – Difetto di motivazione – Sviamento della causa tipica – Illegittimità costituzionale;
3)      violazione e falsa applicazione del comma 20 dell’art. 11 del DPR n. 412/93, come modificato e integrato dall’art. 15 del DPR n. 551/99 – Difetto di motivazione – Eccesso e sviamento di potere.
La L.R. 22.12.2005 n. 19all’art. 20 (Disposizioni relative alle attività produttive, alla cooperazione e al commercio), comma 21, stabilisce che “ai sensi dell’articolo 16 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 551, le disposizioni di cui al decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 192, in recepimento della direttiva 2002/91/CE si applicano in Sicilia. Gli enti competenti devono effettuare annualmente ispezioni su almeno il 20 per cento degli impianti presenti sul territorio. Per gli impianti che sono dotati di generatori calore di età superiore a quindici anni le autorità competenti effettuano, con le stesse cadenze di cui al presente comma, ispezioni dell’impianto termico nel suo complesso comprendendo una valutazione del rendimento medio stagionale del generatore e una consulenza su interventi migliorativi che possono essere correlati. (…) L’Ente competente ha l’obbligo di riscossione diretta delle tariffe di ispezione. L’Assessore regionale per l’industria, di concerto con le amministrazioni competenti, entro sessanta giorni dalla pubblicazione della presente legge, provvede con proprio decreto, a promuovere l’adozione di strumenti di raccordo che consentano la collaborazione e l’azione coordinata tra i diversi enti ed organi preposti, per i diversi aspetti, alla vigilanza sugli impianti termici, con particolare riferimento alle modalità attuative del servizio e alle tariffe applicate su tutto il territorio regionale (…)”.
Con il regolamento impugnato la provincia ha previsto che "le ispezioni di cui all’articolo 11 comma 18 del DPR 412/93… saranno effettuare annualmente per il 20% degli impianti attivi presenti nel territorio della provincia di Enna, dando priorità agli impianti più vecchi o per i quali si abbia una indicazione di maggiore criticità. In generale verrà applicato un criterio di programmazione tale da verificare ciclicamente tutti gli impianti presenti sul territorio provinciale in maniera tale da consentire una sola verifica per impianto ogni cinque anni".
Il D.Lgs. 19.08.2005 n. 192, di “attuazione della direttiva 2002/91/CE relativa al rendimento energetico nell’edilizia”, all’art. 9, relativo alle “funzioni delle regioni e degli enti locali”, stabilisce che “le autorità competenti realizzano, con cadenza periodica, privilegiando accordi tra gli enti locali o anche attraverso altri organismi pubblici o privati di cui sia garantita la qualificazione e l’indipendenza, gli accertamenti e le ispezioni necessarie all’osservanza delle norme relative al contenimento dei consumi di energia nell’esercizio e manutenzione degli impianti di climatizzazione e assicurano che la copertura dei costi avvenga con una equa ripartizione tra tutti gli utenti finali e l’integrazione di questa attività nel sistema delle ispezioni degli impianti all’interno degli edifici…, così da garantire il minor onere e il minor impatto possibile a carico dei cittadini; tali attività, le cui metodologie e requisiti degli operatori sono previsti dai decreti di cui all’articolo 4, comma 1, sono svolte secondo princìpi di imparzialità, trasparenza, pubblicità, omogeneità territoriale e sono finalizzate a:
a) ridurre il consumo di energia e i livelli di emissioni inquinanti;
b) correggere le situazioni non conformi alle prescrizioni del presente decreto;
c) rispettare quanto prescritto all’articolo 7;
d) monitorare l’efficacia delle politiche pubbliche”.
Quindi, la normativa comunitaria, lungi dal prevedere ispezioni annuali “su almeno il 20 per cento degli impianti presenti sul territorio”, come invece fa la citata L.R., si limita a prevedere l’obbligo per le autorità competenti di realizzare “con cadenza periodica…gli accertamenti e le ispezioni necessarie all’osservanza delle norme relative al contenimento dei consumi di energia nell’esercizio e manutenzione degli impianti di climatizzazione”.
E la ragione di una previsione così generale è che secondo lo stesso art. 9 del citato D.Lgs. le attività delle “autorità competenti” devono, tra l’altro, rispettare quanto prescritto dall’art. 7 del medesimo D.Lgs., il quale, nell’occuparsi di “esercizio e manutenzione degli impianti termici per la climatizzazione invernale e estiva”, dispone che:
1. “il proprietario, il conduttore, l’amministratore di condominio, o per essi un terzo, che se ne assume la responsabilità, mantiene in esercizio gli impianti e provvede affinché siano eseguite le operazioni di controllo e di manutenzione secondo le prescrizioni della normativa vigente”;
2. “l’operatore incaricato del controllo e della manutenzione degli impianti per la climatizzazione invernale ed estiva, esegue dette attività a regola d’arte, nel rispetto della normativa vigente. L’operatore, al termine delle medesime operazioni, ha l’obbligo di redigere e sottoscrivere un rapporto di controllo tecnico conformemente ai modelli previsti dalle norme del presente decreto e dalle norme di attuazione, in relazione alle tipologie e potenzialità dell’impianto, da rilasciare al soggetto di cui al comma 1 che ne sottoscrive copia per ricevuta e presa visione”.
Vale a dire che ogni soggetto che abbia in uso l’impianto di riscaldamento è tenuto a far eseguire le operazioni di controllo da un operatore da lui scelto, che redige un rapporto di controllo che viene custodito dal privato stesso.
Naturalmente, tale previsione non avrebbe alcun senso se non fosse legata all’implicito riconoscimento della facoltà, in capo ad ogni privato, di attestare all’autorità competente l’avvenuta verifica positiva del proprio impianto mediante dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà.
Infatti, se l’osservanza della normativa citata fosse garantita esclusivamente dai controlli dell’Autorità, la previsione di un ruolo e di oneri così specifici a carico del privato non troverebbero giustificazione.
Ai sensi dell’art. 47 del DPR n. 445/2000, infatti:
1) “l‘atto di notorietà concernente stati, qualità personali o fatti che siano a diretta conoscenza dell’interessato è sostituito da dichiarazione resa e sottoscritta dal medesimo con la osservanza delle modalità di cui all’articolo 38”;
2) “la dichiarazione resa nell’interesse proprio del dichiarante può riguardare anche stati, qualità personali e fatti relativi ad altri soggetti di cui egli abbia diretta conoscenza”;
3) “fatte salve le eccezioni espressamente previste per legge, nei rapporti con la pubblica amministrazione e con i concessionari di pubblici servizi, tutti gli stati, le qualità personali e i fatti non espressamente indicati nell’articolo 46 sono comprovati dall’interessato mediante la dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà”.
Nella fattispecie in esame, tale dichiarazione può avere ad oggetto la sola avvenuta effettuazione della verifica ad opera di un tecnico. Non potrebbe comunque invece trovare applicazione, con riferimento al rapporto rilasciato dal tecnico, la previsione di cui all’art. 19 del citato DPR, che consente l’utilizzo di dichiarazioni sostitutive per attestare la conformità all’originale anche della copia di un atto o documento, perché deve trattarsi di atto o documento “conservato o rilasciato da una pubblica amministrazione”.
Potrà però trovare applicazione l’art. 18, relativo alle “copie autentiche”:
2. “l’autenticazione delle copie può essere fatta dal pubblico ufficiale…al quale deve essere prodotto il documento, nonché da un notaio, cancelliere, segretario comunale, o altro funzionario incaricato dal sindaco. (…)”; 
3. “nei casi in cui l’interessato debba presentare alle amministrazioni o ai gestori di pubblici servizi copia autentica di un documento, l’autenticazione della copia può essere fatta dal responsabile del procedimento o da qualsiasi altro dipendente competente a ricevere la documentazione, su esibizione dell’originale e senza obbligo di deposito dello stesso presso l’amministrazione procedente. In tal caso la copia autentica può essere utilizzata solo nel procedimento in corso”.
D’altra parte, ai sensi dell’art. 76, comma 3, del citato DPR, “le dichiarazioni sostitutive rese ai sensi degli articoli 46 e 47…sono considerate come fatte a pubblico ufficiale”, con la conseguenza che la condotta di colui che rende false attestazioni in una dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà integra il reato di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.), perché tale dichiarazione sostitutiva diviene atto pubblico per il solo fatto della sottoscrizione autenticata dal funzionario preposto a ricevere l’atto (cfr. Cass. Pen., sez. II, 19 febbraio 2007 n. 6904).
È pur vero che l’art. 71 del citato DPR dispone che “le amministrazioni procedenti sono tenute ad effettuare idonei controlli, anche a campione, e in tutti i casi in cui sorgono fondati dubbi, sulla veridicità delle dichiarazioni sostitutive di cui agli articoli 46 e 47”; ma tale previsione, se da una parte legittima una certa percentuale di controlli da parte dell’Amministrazione, dall’altra presuppone l’obbligatoria applicazione della normativa in materia di documentazione amministrativa, con modalità la cui individuazione non può che essere rimessa all’Amministrazione.
Tali considerazioni, d’altronde, sono perfettamente in linea con le stesse previsioni del più volte citato art. 9 del D.Lgs. 192/2005 (il quale, è bene ricordare, è stato emanato in diretta attuazione della direttiva 2002/91/CE ),secondo cui le autorità competenti, nel realizzare gli accertamenti e le ispezioni necessarie, devono anche “garantire il minor onere e il minor impatto possibile a carico dei cittadini”.
In altri termini, le Amministrazioni, laddove lo ritengano opportuno, possono anche disporre controlli a tappeto, ma certo non ponendone i relativi costi a carico dell’utenza. Ciò comporta che la norma contenuta nel comma 21 dell’art. 20 della L.R. n. 19/2005, secondo cui “gli enti competenti devono effettuare annualmente ispezioni su almeno il 20 per cento degli impianti presenti sul territorio”, va interpretata nel senso che non legittimi la Provincia alla effettuazione di controlli a tappeto con costi a carico degli utenti, bensì nel senso di una sua necessaria integrazione con la normativa in materia di semplificazione amministrativa.
Ritenendo diversamente, la norma regionale potrebbe essere ritenuta in contrasto con quella comunitaria, con l’obbligo per questo Tribunale di disapplicarla, perché il contrasto tra la normativa nazionale o regionale ed il diritto comunitario si risolve con la disapplicazione della disciplina interna e la conseguente invalidità degli atti applicativi (cfr., ex multis, Cons. St., sez. VI, 17 ottobre 2005 n. 5826).
Infatti, la Direttiva del Parlamento europeo e del Consiglio sul rendimento energetico nell’edilizia 16 dicembre 2002 n. 2002/91/CE, in attuazione della quale è stato emanato il D.Lgs. 192/2005, all’art. 8 (“ispezione delle caldaie”) si limita a prevedere genericamente, come scelta possibile per gli Stati membri al fine di ridurre il consumo energetico e i livelli di emissione di biossido di carbonio, quella di adottare “le misure necessarie per prescrivere ispezioni periodiche delle caldaie alimentate con combustibili liquidi o solidi non rinnovabili con potenza nominale utile compresa tra i 20 ed i 100 kW”, con la previsione di una ispezione “almeno ogni due anni” solo “per le caldaie la cui potenza nominale utile è superiore a 100 kW”, mentre per le caldaie a gas “questo periodo può essere esteso a quattro anni”. Inoltre, “per gli impianti termici dotati di caldaie di potenza nominale utile superiore a 20 kW e di età superiore a quindici anni, gli Stati membri adottano le misure necessarie per prescrivere un’ispezione una tantum dell’impianto termico complessivo (…)”.
E l’art. 12 del D.Lgs. 192/2005, relativo ad “esercizio, manutenzione e ispezione degli impianti termici”, dispone che “fino alla data di entrata in vigore dei decreti di cui all’articolo 4, comma 1, il contenimento dei consumi di energia nell’esercizio e manutenzione degli impianti termici esistenti per il riscaldamento invernale, le ispezioni periodiche, e i requisiti minimi degli organismi esterni incaricati delle ispezioni stesse sono disciplinati dagli articoli 7 e 9, dal decreto del Presidente della Repubblica del 26 agosto 1993, n. 412, e successive modificazioni, e dalle disposizioni di cui all’allegato L”.
I decreti di cui all’art. 4, non ancora emanati, sono quelli, da adottare su proposta del Ministro delle attività produttive, di concerto con il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti e con il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio, che dovrebbero disciplinare, tra l’altro, “la progettazione, l’installazione, l’esercizio, la manutenzione e l’ispezione degli impianti termici…”.
Gli artt. 7 e 9 del citato D.Lgs. sono già stati esaminati sopra.
Quanto al DPR n. 412/93, di approvazione del “regolamento recante norme per la progettazione, l’installazione, l’esercizio e la manutenzione degli impianti termici degli edifici ai fini del contenimento dei consumi di energia, in attuazione dell’art. 4, comma 4, della L. 9 gennaio 1991, n. 10”, il suo art. 11, relativo proprio ad "esercizio e manutenzione degli impianti termici e controlli relativi", ai commi 18 e 19 prevede quanto segue.
I comuni con più di quarantamila abitanti e le province effettuano, con cadenza almeno biennale e con onere a carico degli utenti ed anche avvalendosi di organismi esterni aventi specifica competenza tecnica, i controlli necessari ad accertare l’effettivo stato di manutenzione e di esercizio dell’impianto termico. Limitatamente agli impianti di potenza nominale del focolare inferiore a 35 kW, gli enti possono, nell’àmbito della propria autonomia, stabilire che i controlli si intendano effettuati nei casi in cui i manutentori degli impianti termici o i terzi responsabili dell’esercizio e manutenzione o i proprietari degli stessi trasmettano, con le modalità ed entro i termini stabiliti dal provvedimento medesimo, apposita dichiarazione, redatta secondo il modello di cui all’allegato H, con timbro e firma del terzo responsabile o dell’operatore, e con connessa assunzione di responsabilità, attestante il rispetto delle norme, con particolare riferimento ai risultati dell’ultima delle verifiche periodiche. Gli enti, qualora ricorrano a tale forma di verifica, devono comunque effettuare annualmente controlli tecnici a campione su almeno il 5% degli impianti di potenza nominale del focolare inferiore a 35 kW esistenti sul territorio, scegliendoli tra quelli per i quali sia pervenuta nell’ultimo biennio la dichiarazione di avvenuta manutenzione, ai fini del riscontro della veridicità della dichiarazione stessa, provvedendo altresì ad effettuare, con cadenza almeno biennale, i controlli su tutti gli impianti termici per i quali la dichiarazione di cui sopra risulti omessa o si evidenzino comunque situazioni di non conformità alle norme vigenti.
Gli enti locali, al fine di massimizzare l’efficacia della propria azione, possono programmare i predetti controlli a campione dando priorità agli impianti più vecchi o per i quali si abbia comunque una indicazione di maggiore criticità, avendo peraltro cura di predisporre il campione in modo da evitare distorsioni di mercato. Gli oneri per la effettuazione dei controlli a campione sono posti a carico di tutti gli utenti che presentino detta dichiarazione, con opportune procedure definite da ciascun ente locale nell’àmbito della propria autonomia. Norme del tutto analoghe, sia per quanto riguarda la cadenza dei controlli che per la percentuale del 5%, sono contenute nell’allegato L del D.Lgs. 192/2005.
È vero che tale allegato non fa menzione della possibilità per l’Ente di effettuare controlli con riguardo a dichiarazioni sostitutive, ma esso è richiamato, all’art. 12 del D.Lgs., come norma che si applica, in materia di manutenzione degli impianti termici esistenti e di ispezioni periodiche,fino alla data di entrata in vigore dei decreti di cui all’articolo 4”, insieme agli artt. 7 e 9 del medesimo decreto, ed al DPR 412/93, con cui va quindi integrato.
E le norme citate di tale DPR, che in questa parte non sono certo incompatibili con le altre disposizioni citate, prevedono comunque che per gli impianti di potenza nominale del focolare inferiore a 35 kW, gli enti “possono” stabilire, e quindi senza la previsione di un preciso obbligo in tal senso, che i controlli si intendano effettuati nei casi in cui i manutentori degli impianti termici o i proprietari degli stessi trasmettano apposita dichiarazione.
In generale, è vero che l’art. 17 del D.LGs. 192/2005, che riguarda la c.d. “clausola di cedevolezza”, prevede che “…le norme del presente decreto e dei decreti ministeriali applicativi nelle materie di legislazione concorrente si applicano per le regioni e province autonome che non abbiano ancora provveduto al recepimento della direttiva 2002/91/CE fino alla data di entrata in vigore della normativa di attuazione adottata da ciascuna regione e provincia autonoma”. Ma c’è da dire che il medesimo art. 17 aggiunge anche che “nel dettare la normativa di attuazione le regioni e le province autonome sono tenute al rispetto dei vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dei princìpi fondamentali desumibili dal presente decreto e dalla stessa direttiva 2002/91/CE”.
E tra questi non può non essere annoverato quello, esplicitato all’art. 9 del D.Lgs. 192/2005, secondo cui le autorità competenti, nel realizzare gli accertamenti e le ispezioni necessarie, devono anche “garantire il minor onere e il minor impatto possibile a carico dei cittadini”.
Inoltre l’art. 7 dello stesso decreto già pone a carico del privato specifici adempimenti che riguardano la manutenzione dell’impianto. In altri termini, un conto è prevedere, con oneri a carico del privato, un controllo conseguente alla individuazione di un significativo "campione", nell’ambito di tutti gli impianti appartenenti ad una certa categoria; e altro ancora è, invece, prevedere, senza alcuna giustificazione fattuale o normativa, che il privato sia comunque tenuto a pagare, per proprio conto, una manutenzione ed un controllo, inviando alla Provincia, come previsto dal regolamento impugnato, una "apposita dichiarazione attestante il rispetto delle norme in materia", con la certezza che, comunque, egli sarà comunque sottoposto, e sempre a proprie spese, a controllo.
3.2. In applicazione della esplicita previsione del medesimo art. 9 – secondo cui le autorità competenti, proprio al fine di “garantire il minor onere e il minor impatto possibile a carico dei cittadini” “assicurano che la copertura dei costi avvenga con una equa ripartizione tra tutti gli utenti finali e l’integrazione di questa attività nel sistema delle ispezioni degli impianti all’interno degli edifici…” – il regolamento impugnato risulta illegittimo, come lamentato dalla ricorrente, anche per difetto di istruttoria, nella parte in cui quantifica le tariffe a carico degli utenti.
La Provincia sostiene che le tariffe previste dal nuovo regolamento sono state determinate nella relazione d’ufficio n. 35 Sett. VIII del 28.12.2005, che è stata redatta usando come valore di partenza il numero di impianti presenti sul territorio provinciale segnalate dalla ******à Multiservizi, già convenzionata con la Provincia per l’effettuazione del servizio di verifica degli impianti termici, ipotizzando, in base a detto dato ed alle prescrizioni normative, il numero annuo delle verifiche da effettuare e quindi determinando le risorse necessarie allo svolgimento dell’intero servizio nonché il relativo costo; sono quindi state fissate le tariffe per le varie tipologie di impianto, peraltro corrispondenti a quelle preesistenti aggiornate in base ai dati Istat, in modo che, moltiplicando il numero di verifiche ipotizzate per la tariffa corrispondente, gli introiti previsti corrispondessero ai costi in precedenza valutati.
In realtà, la predeterminazione, nella citata relazione, dei costi da sostenere necessariamente – dalle attrezzature al personale, alle spese di vario tipo – è dettagliata solo apparentemente, perché in concreto non emerge in alcun modo in base a quali criteri gli Uffici che l’hanno predisposta abbiano determinato le singole voci di costo; in sostanza l’Amministrazione ha inteso, di fatto, fissare oneri tariffari che non sono frutto di uno studio accurato, legato ad una adeguata e trasparente istruttoria, sugli effettivi costi globali del servizio in funzione del numero di impianti da verificare e del numero di autocertificazioni previste, onde abbattere il più possibile i costi per l’utenza; e ciò, ragionevolmente, come si preciserà in seguito, anche per la mancanza, di fatto, di ogni confronto concorrenziale.
Vale a dire che le tariffe appaiono del tutto sganciate dai costi ed arbitrarie, in quanto non risultano calibrate – come avrebbero dovuto ai sensi dell’art. 11, comma 20, del DPR 412/93 (secondo cui, "gli oneri per la effettuazione dei controlli a campione sono posti a carico di tutti gli utenti che presentino detta dichiarazione, con opportune procedure definite da ciascun ente locale nell’ambito della propria autonomia") – sugli effettivi costi del servizio stesso; ed è da ritenere illegittima la determinazione di fissazione delle tariffe relative alla verifica degli impianti termici che faccia gravare sull’utenza non gli oneri effettivi del servizio (determinati sulla base dei reali e dimostrabili oneri d’impresa, in funzione del servizio concretamente assicurato), bensì oneri diversi e, "lato sensu", assistenziali, non coerenti con gli ordinari canoni di un equilibrato esercizio d’impresa (che dovrebbero trovare altre fonti di copertura) (cfr. Cons. St., sez. V, 15 ottobre 2003 n. 6317).
È da rilevare infatti che in tema di erogazione di servizi, la determinazione dell’ammontare delle tariffe per servizi resi a particolari categorie di utenti presuppone una chiara ed esauriente motivazione dell’onere sostenuto dal soggetto pubblico, che specifichi la misura dei costi trasferiti agli utenti, sia per verificare se effettivamente le somme pretese corrispondano al rimborso delle spese sostenute, sia per evitare che esse si traducano in un sostanziale tributo privo dell’indispensabile supporto legislativo (cfr. Cons. St., sez. V, 12 novembre 2003 n. 7235).
Nella individuazione delle prestazioni patrimoniali imposte che postulano la garanzia della riserva di legge prevista dall’art. 23 Cost., ed i conseguenziali limiti alla discrezionalità della pubblica amministrazione, si è registrata un’evoluzione nella stessa giurisprudenza costituzionale.
In un primo tempo, infatti, si era fatto riferimento solo alla natura autoritativa dell’atto che impone la prestazione. Successivamente si è fatto invece riferimento a quel tipo di servizio, che, pur dando luogo ad un rapporto negoziale di diritto privato, "in considerazione della sua particolare rilevanza venga riservato alla mano pubblica e l’uso di esso sia da considerare essenziale ai bisogni della vita" (sentenza n. 72/1969).
Nel complesso della giurisprudenza costituzionale, ai fini dell’individuazione delle prestazioni patrimoniali imposte, non costituiscono pertanto profili determinanti né le formali qualificazioni delle prestazioni (sentenza n. 4/1957), né la fonte negoziale o meno dell’atto costitutivo (sentenza n. 72/1969), né l’inserimento di obbligazioni ex lege in contratti privatistici (sentenza n. 55/1963). La Corte Costituzionale ha invece riconosciuto "un peso decisivo agli aspetti pubblicistici dell’intervento delle autorità ed in particolare alla disciplina della destinazione e dell’uso di beni o servizi, per i quali si verifica che, in considerazione della loro natura giuridica (sentenze n. 122/1957 e n. 2/1962), della situazione di monopolio pubblico o della essenzialità di alcuni bisogni di vita soddisfatti da quei beni o servizi (sentenze nn. 36/1959, 72/1969, 127/1988), la determinazione della prestazione sia unilateralmente imposta con atti formali autoritativi, che, incidendo sostanzialmente sulla sfera dell’autonomia privata, giustificano la previsione di una riserva di legge" (sentenza n. 236/1994; per la ricostruzione degli orientamenti cfr. Corte Cost., 19 giugno 1998 n. 215).
Alla stregua di tali criteri identificativi, non pare dubbio che nella fattispecie in esame sia individuabile una prestazione patrimoniale imposta, giacché la determinazione da parte della Provincia delle tariffe in oggetto costituisce un atto formale autoritativo che incide sostanzialmente sull’autonomia privata dell’utente, in riferimento ad una prestazione obbligatoria ex lege.
Ciò premesso, può si ritenersi che le norme in esame non vìolino l’art. 23 Cost., in quanto il principio della riserva di legge "va inteso in senso relativo, ponendo l’obbligo per il legislatore di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa" (Corte Cost., sentenza n. 111/1997); ma questo solo ove criteri e limiti, di natura oggettiva o tecnica, idonei a vincolare l’ammontare dell’imposizione, si desumano dall’insieme della disciplina considerata: ipotesi che si verifica nel caso in cui la prestazione imposta costituisca corrispettivo di un’attività il cui valore economico sia determinabile in base a criteri tecnici ed il corrispettivo stesso sia per legge determinato in riferimento al detto valore.  
4.1. Restano infine da esaminare i motivi aggiunti, con cui l’associazione ricorrente impugna:
  • la deliberazione della Giunta Provinciale n. 121 del 24 novembre 2006, pubblicata all’Albo pretorio provinciale in data 26.11.2006 e fino all’11.12.2006, divenuta esecutiva in data 21.12.2006, avente ad oggetto “Modifica Convenzione con la ******à Multiservizi Energia S.r.l. Unipersonale per la verifica degli impianti termici”, con la quale la Provincia di Enna ha affidato il servizio di verifica degli impianti termici alla ******à Multiservizi Energia s.r.l. unipersonale;
  • la relativa Convenzione per l’affidamento del servizio per la verifica e i controlli degli impianti termici;
  • l’atto notarile, repertorio n. 15083, raccolta n. 4836, del notaio F. Greco, di “costituzione di società a responsabilità limitata con unico socio”, con il quale in data 28.4.05 è stata costituita la società Multiservizi Energia srl unipersonale;
  • la Determinazione del Dirigente del Settore VIII, n. 78 del 29.06.2005, con la quale la Provincia di Enna ha preso atto del provvedimento con il quale la******tà Multiservizi spa ha conferito alla società Multiservizi energia srl unipersonale l’attività di verifica degli impianti termici e tutti i concernenti rapporti attivi e passivi;
  • la Deliberazione di **** n. 245 del 06.12.99, con la quale è stata costituita la società a capitale misto pubblico-privato denominata Enna Servizi spa, successivamente denominata Multiservizi spa;
  • le Deliberazioni di G.P. nn. 216/99, 446/2000, 64 e 96/2001, 191/2002, con le quali la Provincia di Enna ha affidato alla società Multiservizi spa, per dieci anni a decorrere dalla data di stipula della convenzione e sino al 30.12.2012, il servizio di controllo degli impianti termici ubicati nel territorio di competenza della Provincia;
  • l’avviso a firma del responsabile tecnico della società Multiservizi Energia srl Unipesonale, ing. ******** ***, Rif. EN39319, recapitato al sig. ****** ***, con il quale si comunica il controllo dell’impianto di riscaldamento per il giorno 14.02.07 ed il costo della verifica.
Nei confronti di tali provvedimenti, l’associazione propone i seguenti motivi di ricorso:
1)      illegittimità derivata, per gli stessi vizi già fatti valere con il ricorso principale;
2)      violazione dei principi vigenti in materia di concorrenza, di appalti di servizi e di concessioni di pubblici servizi – Alterazione della libera concorrenza, in relazione agli artt. 41 ss. Cost., ed al diritto dell’Unione Europea – Eccesso e sviamento di potere;
3)      violazione e falsa applicazione dell’art. 113, comma 5, lett. a) e b) D.Lgs. n. 267/2000 – Violazione dei principi di imparzialità e buon andamento – Eccesso di potere;
4)      illegittimità derivata e per vizi propri dell’atto notarile, rep. n. 15083 raccolta n. 4836 del notaio F.Greco, di “costituzione di società a responsabilità limitata con unico socio”, con il quale in data 28.04.2005 è stata costituita la società “Multiservizi Energia srl Unipersonale”, e ad integrale sottoscrizione del capitale sociale la società Multiservizi spa ha conferito il ramo aziendale formato dall’insieme delle risorse destinate alla gestione ed allo sviluppo del settore relativo al servizio impianti termici e tutti i concernenti rapporti attivi e passivi – Incompetenza – Violazione delle norme in materia di concorrenza, di appalti di servizi e di concessioni di pubblici servizi;
5)      illegittimità della determinazione dirigenziale n. 78 del 29.06.2005 – Atipicità – Eccesso e sviamento di potere – Inesistenza.
Una prima eccezione preliminare, sollevata dalla controinteressata, riguarda un presunto difetto di giurisdizione di questo Tribunale.
Secondo la società, “in ogni caso, lo svolgimento del servizio da parte di Multiservizi Energia discende dalla decisione, assunta dall’assemblea straordinaria di una società di capitali (******à Multiservizi), di costituire una nuova società, interamente partecipata dalla stessa, mediante conferimento del relativo ramo d’azienda. Come è facilmente evincibile, si tratta di atti di natura privatistica, assunti da un soggetto privato (la ******à Multiservizi), aventi autonoma consistenza giuridica per effetto della loro iscrizione nel registro delle imprese (a seguito della quale, hanno assunto autonoma e piena esistenza nel mondo giuridico) e, in quanto tali, del tutto sottratti alla giurisdizione del giudice amministrativo”.
L’eccezione è del tutto infondata.
Infatti, contrariamente a quanto affermato dalla società, lo svolgimento del servizio da parte di Multiservizi Energia non discende affatto dalla decisione, assunta dalla ******à Multiservizi, di costituire una nuova società, interamente partecipata dalla stessa, bensì, più semplicemente, da una decisione della Provincia di affidare alla ******à Multiservizi prima, ed a quella unipersonale, poi, la gestione del servizio.
Ed è appena il caso di rilevare che l’art. 244 del D.Lgs. 163/2006 (Codice dei contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture), al comma 1, dispone inequivocabilmente che “sono devolute alla giurisdizione esclusiva del giudice amministrativo tutte le controversie, ivi incluse quelle risarcitorie, relative a procedure di affidamento di lavori, servizi, forniture, svolte da soggetti comunque tenuti, nella scelta del contraente o del socio, all’applicazione della normativa comunitaria ovvero al rispetto dei procedimenti di evidenza pubblica previsti dalla normativa statale o regionale”.
Quindi, non vi è dubbio che la giurisdizione spetti a questo Tribunale, e le spetterebbe anche se la gestione del servizio fosse stato affidato realmente dalla Multiservizi, considerato che in capo ad essa sono ravvisabili tutti i requisiti per essere considerato “organismo di diritto pubblico”, che ai sensi del comma 25 dell’art. 3 del D.Lgs. 163/2006 tali organismi rientrano tra le “amministrazioni aggiudicatici” cui il Codice si applica, e che per il comma 26 “l’organismo di diritto pubblico è qualsiasi organismo, anche in forma societaria:
  • istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale;
  • dotato di personalità giuridica;
  • la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico”.
4.2. Secondo altra eccezione, il ricorso per motivi aggiunti sarebbe inammissibile per difetto di interesse e di legittimazione attiva.
Secondo la ******à controinteressata, “la scelta di un’amministrazione di organizzare un pubblico servizio secondo lo schema dell’autoproduzione (in house providing) o del partenariato pubblico-privato (PPP), in luogo della pubblica gara può essere contestata soltanto da chi vi abbia un interesse giuridicamente apprezzabile e, cioè, da un imprenditore del settore che si veda negata, in base a tale scelta, la possibilità di acquisire il bene della vita (la gestione del servizio) sotteso alla scelta amministrativa. L’ASSOUTENTI è portatrice di un interesse collettivo che non è in alcun modo collegato al bene della vita (la possibile acquisizione di un servizio mediante la partecipazione alla relativa procedura concorsuale) azionato, mediante il ricorso per motivi aggiunti, nel presente giudizio. Né, per altro verso, la ricorrente ha fornito alcun elemento di prova circa l’eventuale pregiudizio che tale scelta (affidamento diretto a società mista) comporterebbe in capo agli utenti. In altre parole, circa il collegamento tra tale scelta e l’eventuale pregiudizio subito dagli utenti. La tariffa del servizio è fissata dal regolamento e non subirebbe modifiche in ragione della diversa natura del soggetto gestore; così come non è stata data prova che tramite la gestione da parte di un soggetto diverso dalla società mista vi sarebbe una maggiore efficienza o una diversa, possibile ricaduta di costi in capo agli utenti”.
Analoghe osservazioni propone la Provincia.
Anche tale eccezione è infondata.
Innanzitutto, è palese che il bene della vita che il ricorso per motivi aggiunti in esame ha ad oggetto non è certo la possibile acquisizione di un servizio mediante la partecipazione alla relativa procedura concorsuale, bensì, più semplicemente, l’affidamento della gestione del servizio tramite procedure trasparenti, nel rispetto dei principi di imparzialità e buon andamento, a tutela della collettività degli utenti, di cui viene fatto valere l’interesse giuridicamente garantito a che il servizio venga reso dal migliore soggetto possibile, in possesso dei necessari requisiti, nonché l’interesse a non subire l’imposizione di tariffe determinate in assenza di qualsiasi procedura rispettosa del principio di concorrenza, e senza alcun parametro certo legato ai costi effettivi del servizio.
E come si dimostrerà trattando più specificamente delle modalità di affidamento del servizio, l’interesse fatto valere coi motivi aggiunti riceve senz’altro, dai provvedimenti impugnati, una lesione concreta, diretta e attuale, tale da legittimare al ricorso.
Non può ritenersi che la ricorrente fosse tenuta a fornire prova del pregiudizio che l’affidamento diretto a società mista comporti in capo agli utenti, perché l’aspetto che, di per sé, legittima l’associazione a ricorrere è, come già precisato, la pretesa a che la gestione del servizio sia affidata a soggetto in possesso dei necessari requisiti, cosa ovviamente da dimostrare, e scelto nel rispetto dei principi, oltretutto di derivazione comunitaria, di concorrenza e pari trattamento, essendo fatto più che notorio, e che necessiterebbe, semmai, di prova contraria da parte dei soggetti intimati nel presente giudizio, che solo un soggetto scelto in tal modo garantisca l’espletamento del servizio alle migliori condizioni possibili per l’Amministrazione. Da questo punto di vista, quindi, la circostanza che le tariffe siano state determinate con il regolamento, e che non subirebbero modifiche in ragione della diversa natura del soggetto gestore, non soltanto appare tutta da dimostrare, ma può anche risultare irrilevante.
In quest’ottica, le sentenze citate dalla difesa della ******à e della Provincia, Cons. St., sez. VI 1° febbraio 2007 n. 416, e Cons. St., Ad. Pl., 11 gennaio 2007 n. 16, risultano del tutto non pertinenti, e inadatte a sostenere la tesi del difetto di interesse e di legittimazione.
Infatti, la prima si limita ad esprimere l’ovvio principio che “è preclusa ai soggetti collettivi, alla stessa stregua dei soggetti individuali, la tutela giudiziale della astratta legalità dell’azione amministrativa, non essendo le associazioni, allo stato attuale, legittimate ad agire a difesa obiettiva dell’ordinamento violato, ma solo a presidio di situazioni soggettive concretamente e direttamente incise dalle violazioni del diritto”; situazioni soggettive che, come precisato, sono invece fatte valere nel presente giudizio.
La seconda sentenza, nel ribadire il principio secondo cui “la normativa a tutela dei consumatori non attribuisce alle associazioni riconosciute…un generale potere di vigilanza sulle vicende attinenti al consumo…”, si limita a concludere che tale principio, “per quanto concerne le eventuali azioni innanzi al giudice amministrativo, si traduce nell’impossibilità di qualificarle come litisconsorti necessari, veri e propri controinteressati, nel caso di giudizi aventi ad oggetto atti e provvedimenti amministrativi recanti disposizioni favorevoli ai consumatori ed agli utenti”.
Anzi, in contrasto con la tesi sostenuta dalle parti intimate, tale seconda sentenza precisa, semmai, che tali associazioni “possono sempre esperire azioni per l’annullamento di atti amministrativi ritenuti pregiudizievoli”.
Infatti la giurisprudenza – che questo Collegio, per quanto già precisato, non può che condividere – ritiene in modo pacifico che le associazioni di utenti sono legittimate ad impugnare avanti al giudice amministrativo le disposizioni contenute in atti amministrativi generali, anche a contenuto normativo, ritenute lesive degli interessi sostanziali degli associati, laddove si tratti di disposizioni autoritativamente determinate da una pubblica Amministrazione in virtù di specifici poteri ad essa attribuiti (cfr., ex multis, Cons. St., sez. V, 23 maggio 2003 n. 2782ad impugnare una delibera di Giunta con la quale era stata aumentata l’aliquota i.c.i.). , che ha ritenuto legittimata una associazione di proprietari di case
4.3. Dei motivi aggiunti, nella parte in cui si fa valere l’illegittimità dei nuovi provvedimenti per vizi derivati dal regolamento già impugnato con il ricorso principale, viene eccepita l’inammissibilità per difetto di interesse, a causa della tardività della prima impugnazione, che però questo Collegio ha già ritenuto inesistente.
In proposito, il Collegio ritiene però di dover precisare che se anche il ricorso principale fosse stato effettivamente tardivo, sui motivi aggiunti continuerebbe a sussistere un autonomo interesse a ricorrere, atteso che, mentre con il primo si fanno valere una serie di vizi – legati alla percentuale di controlli, alla mancata previsione di dichiarazioni sostitutive, alla determinazione delle tariffe, ecc. – con i secondi si fa valere un interesse del tutto autonomo, e cioè quello, già specificato, alla migliore realizzazione possibile del servizio.
4.4. Secondo la controinteressata, le censure sollevate in via autonoma sarebbero comunque inammissibili (rectius, irricevibili), sotto ulteriore duplice profilo, perché tardive.
Da un lato, infatti, la ricorrente era al corrente della qualità di affidataria diretta di Multiservizi Energia già al momento della proposizione del ricorso principale (come provato dalla notifica effettuata nei confronti della medesima); dall’altro, l’affidamento del servizio in favore della ******à Multiservizi è avvenuto con la delibera di Giunta Provinciale n. 216 del 10 giugno 1999, mai impugnata, mentre l’ultima delibera di modifica si limita a prendere atto della necessità – alla luce delle intervenute modifiche del quadro regolamentare – di addivenire (attraverso la stipula consensuale di una nuova convenzione), ad una novazione del rapporto contrattuale, che tuttavia non metterebbe in discussione il sottostante rapporto di affidamento, risalente al 1999 e mai venuto meno.
Il Collegio ritiene che anche tale eccezione vada disattesa.
Innanzitutto, l’avvenuta notifica del ricorso principale anche alla Multiservizi Energia dimostra solo che la ricorrente era a conoscenza che tale società espletava già il servizio di verifica degli impianti termici.
Quanto alla considerazione che la deliberazione di Giunta Provinciale, impugnata coi motivi aggiunti, n. 121 del 24 novembre 2006, si sia limitata a “modificare” la convenzione già in essere con la ******à Multiservizi Energia srl Unipersonale, e che tale deliberazione non sia quindi autonomamente impugnabile, il Collegio ritiene invece, proprio per le rilevanti modifiche apportate alla convenzione ed al rapporto, che questo nuovo provvedimento abbia concretizzato un vero e proprio nuovo affidamento, che ha rinnovato la lesione degli interessi che l’associazione ricorrente ha inteso far valere, e che rende tale provvedimento di per sé impugnabile.
Infatti, come la stessa difesa della Multiservizi Energia non ha potuto fare a meno di ammettere (vedi memoria depositata il 29.11.2007), con l’ultima delibera di “modifica”, in questa sede impugnata, la Provincia ha realizzato – nel dichiarato intento di adeguare l’espletamento del servizio (vedi premesse della convenzione) alle intervenute modifiche del quadro normativo ed al nuovo regolamento da essa approvato – una vera e propria “novazione del rapporto contrattuale”, con la conseguente stipula consensuale di una nuova convenzione.
Ora, al di là del fatto che (solo) nell’atto deliberativo, e non anche nella convenzione, si faccia riferimento ad una mera “modifica” della precedente convenzione, in realtà si tratta della stipula di una vera e propria nuova e diversa convenzione, con condizioni, costi ed obblighi diversi, racchiusi in un documento contrattuale che, lungi dal limitarsi a modificare alcuni aspetti di un rapporto contrattuale in essere, in realtà lo stravolge e lo rimodula, prevedendo nuove modalità di espletamento del servizio, per le quali in convenzione si fa espresso rinvio (vedi art. 3) al nuovo regolamento approvato il 27.09.2006.
E d’altra parte, l’art. 1230 del codice civile, inserito nel Capo IV, relativo ai “modi di estinzione delle obbligazioni diversi dell’adempimento”, e che si occupa specificamente della “novazione oggettiva”, dispone che “l’obbligazione si estingue quando le parti sostituiscono all’obbligazione originaria una nuova obbligazione con oggetto o titolo diverso. La volontà di estinguere l’obbligazione precedente deve risultare in modo non equivoco”.
Nel caso di specie, non può esservi dubbio che l’obbligazione originaria, sorta a seguito della stipula della prima convenzione, si sia estinta, visto che, oltretutto, nella nuova convenzione, contrariamente a quanto sostenuto dalla difesa della ******à, non si fa alcun riferimento agli obblighi ed alle prestazioni previste dalla precedente, che non viene neppure citata, se non alla fine, all’art. 12, per precisare che “la presente convenzione decorre dalla data di stipula della stessa e ha scadenza in data 30 dicembre 2012, così come previsto nella precedente convenzione n. 8709 del 30 dicembre 2002”.
Nel comportamento delle parti è cioè ravvisabile ciò che in dottrina e giurisprudenza viene definito “animus novandi”, che può essere desunto anche per implicito da fatti concludenti.
È inoltre ravvisabile anche il c.d. “aliquid novi”, atteso che le parti hanno realizzato una situazione di sostanziale incompatibilità tra le due obbligazioni (visto che non sono esigibili entrambe), con un mutamento sostanziale dell’obbligazione (cfr. Cass., sez. II, 12 settembre 2000 n. 12039; Id., sez. III, 12 gennaio 2006 n. 421).
In definitiva, la circostanza che l’affidamento originario risalga a deliberazioni adottate parecchi anni addietro può valere, tutt’al più, a far ritenere irricevibili i motivi aggiunti (solo) nella parte in cui vengono impugnati tali provvedimenti, nonché la stessa costituzione della originaria società, poiché questi, nel presupposto della loro conoscibilità legata alla loro pubblicizzazione, erano già allora lesivi delle posizioni giuridiche fatte valere col ricorso per motivi aggiunti, ma non certo a far ritenere tardivamente proposto anche tale ultimo ricorso (in senso conforme vedi Cons. Giust. Amm. Reg. Sic., 4 settembre 2007 n. 719).
Di contro, il Collegio ritiene che le considerazioni sulla tardività dell’impugnazione dei provvedimenti più risalenti non possano valere per la Determinazione del Dirigente del Settore VIII, n. 78 del 29.06.2005, con cui la Provincia ha preso atto del conferimento alla Multiservizi Energia srl, da parte della ******à Multiservizi spa, dell’attività di verifica degli impianti termici.
Trattasi di una fattispecie disciplinata dall’art. 116 del citato D.Lgs. 163/2006, relativo alle “vicende soggettive dell’esecutore del contratto”, secondo cui “1. Le cessioni di azienda e gli atti di trasformazione, fusione e scissione relativi ai soggetti esecutori di contratti pubblici non hanno singolarmente effetto nei confronti di ciascuna stazione appaltante fino a che il cessionario, ovvero il soggetto risultante dall’avvenuta trasformazione, fusione o scissione, non abbia proceduto nei confronti di essa alle comunicazioni previste dall’articolo 1, e non abbia documentato il possesso dei requisiti di qualificazione previsti dal presente codice. 2. Nei sessanta giorni successivi la stazione appaltante può opporsi al subentro del nuovo soggetto nella titolarità del contratto, con effetti risolutivi sulla situazione in essere, laddove, in relazione alle comunicazioni di cui al comma 1, non risultino sussistere i requisiti di cui all’articolo 10-sexies, e successive modificazioni. 3. Ferme restando le ulteriori previsioni legislative vigenti in tema di prevenzione della delinquenza di tipo mafioso e di altre gravi forme di manifestazione di pericolosità sociale, decorsi i sessanta giorni di cui al comma 2 senza che sia intervenuta opposizione, gli atti di cui al comma 1 producono, nei confronti delle stazioni appaltanti, tutti gli effetti loro attribuiti dalla legge della legge 31 maggio 1965, n. 575 del decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri 11 maggio 1991, n. 187”.
Con tale determinazione, in sostanza, il dirigente dell’VIII Settore della Provincia, a seguito di formale comunicazione da parte della Multiservizi spa relativa all’avvenuta costituzione della Multiservizi Energia srl, ha preso atto dell’avvenuta cessione a tale società del ramo aziendale relativo al servizio di verifica degli impianti termici, “e che, pertanto, tutti i concernenti rapporti attivi e passivi sono da riferire ad essa e quindi per la stessa vigono tutti gli obblighi di legge e norme contrattuali derivanti dalla convenzione n. 8501 di rep. del 19.10.1999, successivamente modificata dagli atti n. 8577 di rep. del 13.07.2001 e n. 8709 di rep. del 30.12.2002, relativamente all’affidamento del servizio per la verifica degli impianti termici, di cui alla L. 10/91, da parte della Provincia Regionale di Enna alla ******à Multiservizi spa”.
Il fatto è, però, che mentre per i precedenti provvedimenti la tardività dell’impugnazione può essere affermata perché trattasi di deliberazioni la cui pubblicazione all’albo pretorio è prevista da norme di legge, già citate, e tale pubblicazione è stata quindi utile a far decorrere il termine per una eventuale loro impugnazione, per la determinazione de qua, invece, non soltanto la sua pubblicazione non risulta sia prevista da alcuna norma regolamentare della Provincia (mentre con certezza non vi è alcuna norma di legge che la preveda), ma, in ogni caso, di una eventuale avvenuta pubblicazione non vi è traccia.
Con la conseguenza che, in modo ufficiale, di tale determinazione si è avuta pubblica notizia, per la prima volta, solo allorquando, con l’impugnata deliberazione di G.P. n. 121 del 24.11.2006, la Provincia ha nuovamente affidato il servizio di verifica degli impianti termici alla Multiservizi Energia, citando espressamente, nelle premesse di tale deliberazione, la citata determinazione dirigenziale.
Pertanto, l’impugnazione di quest’ultima con i motivi aggiunti va senz’altro ritenuta tempestiva.
4.5. La Provincia eccepisce la nullità della notifica dei motivi aggiunti, perché ai sensi dell’art. 170 c.p.c. l’atto doveva essere notificato al procuratore costituito.
Il Collegio condivide quell’orientamento giurisprudenziale secondo cui la disposizione di cui all’art. 21, comma 1, L. n. 1034/1971, nella parte in cui prevede che “tutti i provvedimenti adottati in pendenza del ricorso tra le stesse parti, connessi all’oggetto del ricorso stesso, sono impugnati mediante proposizione di motivi aggiunti”, ha inteso solamente consentire un processo simultaneo mediante la riunione di azioni connesse, che possono riguardare, per ipotesi, anche amministrazioni diverse e nuovi soggetti controinteressati i quali, per tale ragione, non sono stati evocati con il ricorso introduttivo. Non può pertanto ritenersi inammissibile l’azione giudiziale proposta avverso un atto, distinto da quello anteriore già impugnato ma con lo stesso connesso, soltanto perché tale azione venga instaurata mediante la proposizione di motivi aggiunti notificati, ai fini della nuova instaurazione del contraddittorio, direttamente all’Autorità che tale ulteriore atto ha emanato ed ai soggetti che, rispetto a tale successivo atto, sono divenuti controinteressati alla stessa impugnativa (cfr. T.A.R. Lazio, Roma, sez. II, 19 aprile 2005 n. 2826 “i motivi aggiunti possono essere legittimamente notificati sia al domicilio «reale» che a quello «eletto» dalle parti costituite”; in termini identici T.A.R. Liguria, Genova, sez. I, 25 maggio 2004 n. 813).; cfr. anche T.A.R. Sardegna, Cagliari, sez. I, 14 luglio 2006 n. 1460. Per T.A.R. Lazio, Latina, 1° febbraio 2007 n. 100:
Oltretutto, la giurisprudenza citata a sostegno della tesi sostenuta, non afferma affatto la necessità giuridica della notifica al procuratore costituito, ma della mera “possibilità di notificare i motivi aggiunti anche direttamente presso il difensore domiciliatario dell’Amministrazione” (cfr. Cons. St., sez. V, 19 febbraio 2007 n. 831; Id., sez. V, 6 luglio 2002 n. 3717).
In ogni caso, c’è da dire che ai sensi dell’art. 156, comma 3, c.p.c. (“la nullità non può mai essere pronunciata, se l’atto ha raggiunto lo scopo a cui è destinato”), la costituzione in giudizio della controparte ha effetto sanante sulla notifica dei motivi aggiunti, asseritamente non effettuata nel domicilio eletto presso il procuratore costituito entro il termine di decadenza (cfr., ex multis, T.A.R. Lazio, sez. II, 13 novembre 2002 n. 9974).
4.6. Un’ultima eccezione sollevata dalla Provincia con riferimento ai motivi aggiunti attiene ad una presunta inammissibilità degli stessi, “per mancanza dei presupposti per l’applicazione dell’istituto del ricorso per motivi aggiunti”, perché tutti i provvedimenti menzionati dalla ricorrente sarebbero stati adottati prima che il ricorso principale fosse pendente, per cui coi motivi aggiunti la ricorrente intenderebbe ovviare alla intervenuta tardività.
Ma è evidente che non tutti i provvedimenti impugnati coi motivi aggiunti sono antecedenti alla proposizione del ricorso principale, perché il nuovo affidamento disposto nei confronti della Multiservizi Energia è certamente successivo, per cui l’eccezione è infondata, o per lo meno è fondata, come si è già precisato, solo per quanto riguarda i provvedimenti non impugnati tempestivamente a suo tempo.
Per quanto concerne il nuovo affidamento, invece, l’impugnazione è ammissibile, perché il presupposto necessario e il limite di operatività dell’istituto dei motivi aggiunti è l’accertata sussistenza di un rapporto di connessione tra i diversi provvedimenti, intendendosi per tale non la connessione agli atti già impugnati ma, più in generale, all’oggetto del giudizio instaurato (cfr. Cons. St., sez. V, 19 marzo 2007 n. 1307).
E l’identità di parti, di cui all’art. 21, comma 1, L. Tar, deve essere intesa, per quanto attiene a quella pubblica, in senso lato, dovendosi ritenere comprensiva di tutte le pubbliche amministrazioni (ancorché soggettivamente distinte), che intervengono nella medesima vicenda procedimentale e per la cura del medesimo interesse pubblico o di interessi pubblici strettamente connessi, in quanto attinenti al medesimo bene della vita cui aspira la parte privata (cfr. Cons. St., sez. IV, 31 ottobre 2006 n. 6463).
4.7. Nel merito, il ricorso per motivi aggiunti risulta fondato.
L’affidamento del servizio disposto nei confronti della Multiservizi Energia risulta illegittimo, innanzitutto, perché risultano violate le disposizioni relative ai soggetti investiti dei compiti di controllo, in quanto, al di là del fatto che all’art. 5 della nuova convenzione è previsto che “le ispezioni…saranno effettuate mediante personale qualificato dall’**** o in ogni caso secondo quanto previsto dai commi 18 e 19 dell’art. 11 del DPR 412/93…”, ai sensi del quale “i comuni con più di quarantamila abitanti e le province per la restante parte del territorio,…effettuano, con cadenza almeno biennale e con onere a carico degli utenti…i controlli necessari ad accertare l’effettivo stato di manutenzione e di esercizio dell’impianto termico”, “anche avvalendosi di organismi esterni aventi specifica competenza tecnica”, non risulta però che a monte, al momento cioè dell’affidamento del servizio alla Multiservizi Energia, la Provincia si sia accertata che tale società fosse in grado di garantire che il servizio sarebbe poi stato effettuato da soggetti in possesso di tutti i requisiti richiesti.
Infatti, la citata direttiva comunitaria, all’art. 10 prevede che “gli Stati membri si assicurano che…l’ispezione delle caldaie e dei sistemi di condizionamento d’aria vengano effettuate in maniera indipendente da esperti qualificati e/o riconosciuti, qualora operino come imprenditori individuali o impiegati di enti pubblici o di organismi privati”.
La L.R. 22.12.2005 n. 19,all’art. 20, comma 21, dispone che “le operazioni di ispezione degli impianti devono essere condotte da organismi i cui operatori abbiano i requisiti minimi previsti dall’allegato I del D.P.R. 23 agosto 1993, n. 412…”.
Secondo tale ultima normativa, “il personale incaricato deve possedere i requisiti seguenti: a) una buona formazione tecnica e professionale, almeno equivalente a quella necessaria per l’installazione e manutenzione delle tipologie di impianti da sottoporre a verifica; b) una conoscenza soddisfacente delle norme relative ai controlli da effettuare ed una pratica sufficiente di tali controlli; c) la competenza richiesta per redigere gli attestati, i verbali e le relazioni che costituiscono la prova materiale dei controlli effettuati. Deve essere garantita l’indipendenza del personale incaricato delle verifiche. La remunerazione di ciascun agente non deve dipendere né dal numero delle verifiche effettuate né dai risultati di tali verifiche”.
Il D.Lgs. 192/2005, all’art. 9, stabilisce, fra l’altro, che le autorità competenti realizzano, con cadenza periodica, gli accertamenti e le ispezioni necessarie, “anche attraverso altri organismi pubblici o privati di cui sia garantita la qualificazione e l’indipendenza”.  
Infine il recente D.Lgs. 29.12.2006 n. 311, all’allegato A, nel definire i “controlli sugli edifici o sugli impianti”, precisa che “sono le operazioni svolte da tecnici qualificati operanti sul mercato”, con ciò ribadendosi la necessità che alle proprietà accedano soggetti muniti della necessaria qualificazione, prescelti, è da aggiungere, attraverso il ricorso a procedure concorrenziali; e il punto 13 dell’allegato L ribadisce che in caso di affidamento ad organismi esterni delle attività di accertamento ed ispezioni “le Amministrazioni pubbliche stipulano con detti organismi apposite convenzioni, previo accertamento che gli stessi soddisfino, con riferimento alla specifica attività prevista, i requisiti minimi di cui all’allegato I al decreto del Presidente della Repubblica 26 agosto 1993, n. 412, e successive modifiche, ribadendosi in maniera inequivoca che “requisito essenziale degli organismi esterni è la qualificazione individuale dei tecnici che opereranno direttamente presso gli impianti dei cittadini”.
Non a caso, quindi, anche in giurisprudenza si è chiarito che “l’attività di controllo degli impianti termici, seppur ontologicamente diversa da quella di installazione e di manutenzione, esige logicamente la conoscenza dei meccanismi di funzionamento degli impianti stessi e la loro capacità all’attivazione e cura, sicché la scelta dell’amministrazione appaltante il servizio di censimento, controllo e verifica degli impianti termici di richiedere ai concorrenti, ai fini della documentazione del requisito di capacità tecnico-professionale, la produzione del "certificato rilasciato dall’organo competente dal quale si evince che il concorrente è in possesso dei requisiti di cui alla l. n. 46 del 1990 lett. c), d), e)", si rivela coerente con le finalità del servizio appaltato e con le competenze richieste dal corretto esercizio della relativa attività (cfr. Cons. St., sez. V, 18 settembre 2003 n. 5327).
Ebbene, nel caso in questione non vi è traccia del necessario preliminare accertamento in capo ai soggetti investiti dei compiti di controllo del possesso della necessaria “idoneità tecnica”, “qualificazione e indipendenza” (senza contare che nonconsta nemmeno che sia stato eseguito alcun necessario confronto concorrenziale ai fini dell’assegnazione dell’appalto del servizio in questione), per cui, sotto tale profilo, l’affidamento del servizio alla società resistente è da ritenere illegittimo.
4.8. Nella presente vicenda, sono prospettate, sia con il ricorso principale che con i motivi aggiunti, numerose questioni di massima, di portata generale, attinenti alla legittimità dell’affidamento di contratti pubblici o servizi a società miste, in assenza di un’apposita procedura di gara, e quindi al noto problema del c.d. in house providing.
Il Collegio ritiene quindi necessario esaminare le problematiche sorte in proposito, per come affrontate in giurisprudenza (vedi in particolare, per la ricostruzione del problema che il Collegio si accinge ad esporre, Cons. St., sez. II consultiva, 18 aprile 2007 n. 456).
Come è noto, tale espressione (usata per la prima volta in sede comunitaria nel Libro Bianco sugli appalti del 1998) identifica il fenomeno di “autoproduzione” di beni, servizi o lavori da parte della pubblica amministrazione: ciò accade quando quest’ultima acquisisce un bene o un servizio attingendoli all’interno della propria compagine organizzativa senza ricorrere a terzi tramite gara e dunque al mercato (cfr., Cons.St., sez. VI, 3 aprile 2007 n. 1514).
Il modello si contrappone a quello delloutsourcing, o esternalizzazione, in cui la sfera pubblica si rivolge al privato, demandandogli il compito di produrre e /o fornire i beni e servizi necessari allo svolgimento della funzione amministrativa.
La prima definizione giurisprudenziale della figura è fornita da Corte Giustizia C.E. 18 novembre 1999, causa C-107/98 – Teckal, che ha affermato che non è necessario rispettare le regole della gara in materia di appalti nell’ipotesi in cui concorrano i seguenti elementi:
a) l’amministrazione aggiudicatrice esercita sul soggetto aggiudicatario un “controllo analogo” a quello esercitato sui propri servizi;
b) il soggetto aggiudicatario svolge la maggior parte della propria attività in favore dell’ente pubblico di appartenenza.
In ragione del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi “terzo” rispetto all’amministrazione controllante, ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa: non è, pertanto, necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti di lavori, servizi e forniture.
Naturalmente, la figura dell’in house providing si configura come un modello eccezionale, i cui requisiti vanno interpretati restrittivamente, poiché costituiscono una deroga alle regole generali del diritto comunitario (cfr. Cons.St., sez. VI, 3 aprile 2007 n. 1514).
Ciò è stato chiarito con fermezza dalla Corte di giustizia nelle sue successive pronunce (cfr. le note sentenze 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – *********** e **********; 21 luglio 2005, causa C‑231/03 – Corame; 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH; 10 novembre 2005, causa C-29/04 – Mödling o Commissione c/ Austria; 6 aprile 2006, causa C-410/04 – ANAV c/ Comune di Bari; 11 maggio 2006, causa C-340/04 – Carbotermo; 18 gennaio 2007, causa C-220/05 – ***********).
In particolare, la citata sentenza Carbotermo dell’11 maggio 2006, causa C-340/04, ha affermato che la partecipazione pubblica totalitaria è necessaria, ma non sufficiente. Difatti, per giustificare la deroga alle regole europee di evidenza pubblica occorrono maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile. La giurisprudenza comunitaria e nazionale li ha nel tempo individuati affermando, in particolare, che:
  • il consiglio di amministrazione della società in house non deve avere rilevanti poteri gestionali e l’ente pubblico deve poter esercitare maggiori poteri rispetto a quelli che il diritto societario riconosce alla maggioranza sociale;
  • l’impresa non deve aver “acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico (tale vocazione risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero (cfr., in particolare, le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-29/04 – Mödling o Commissione c/ Austria);
  • le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante (cfr. Cons. St., sez. V, 8 gennaio 2007 n. 5, che ha affermato che se il consiglio di amministrazione ha poteri ordinari non si può ritenere sussistere un “controllo analogo”);
  • il controllo analogo si ritiene escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati (Tar Puglia, 8 novembre 2006, n. 5197; Consiglio di Stato, V sez., 30 agosto 2006, n. 5072).
La giurisprudenza ha anche chiarito che, in astratto, è configurabile un “controllo analogo” anche nel caso in cui il pacchetto azionario non sia detenuto direttamente dall’ente pubblico, ma indirettamente mediante una società per azioni capogruppo (c.d. holding) posseduta al 100% dall’ente medesimo. Tuttavia, una tale forma di partecipazione “può, a seconda delle circostanze del caso specifico, indebolire il controllo eventualmente esercitato dall’amministrazione aggiudicatrice su una società per azioni in forza della mera partecipazione al suo capitale” (cfr. la citata sentenza Carbotermo, 11 maggio 2006, causa C-340/04). In tale ottica, la partecipazione pubblica indiretta, anche se totalitaria, è in astratto compatibile, ma affievolisce comunque il controllo.
I principi giurisprudenziali sopra accennati appaiono, ormai, largamente condivisi dalle ************* nazionali, ivi compreso il Consiglio di Stato, il quale (cfr. Cons. St., sez. VI, 3 aprile 2007 n. 1514)ha anche rilevato che, nel nostro ordinamento, una norma di carattere generale era stata proposta nel primo schema del codice dei contratti pubblici, ma non è stata poi inserita nel testo finale del d.lgs. n. 163/2006, a conferma della volontà del legislatore di non generalizzare il modello dell’in house a qualsiasi forma di affidamento di servizi, di lavori, o di forniture (la norma dell’originario schema era l’art. 15, rubricata “Affidamenti in house”, dal seguente testo: “Il presente decreto non si applica all’affidamento di servizi, lavori, forniture a società per azioni il cui capitale sia interamente posseduto da un’amministrazione aggiudicatrice, a condizione che quest’ultima eserciti sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’amministrazione aggiudicatrice”).
Il codice, tuttavia, ha conservato un riferimento generale alle società miste all’art. 1, comma 2, e all’art. 32.
Con la prima disposizione si afferma in modo chiaro che “nei casi in cui le norme vigenti consentono la costituzione di società miste per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica o di un servizio, la scelta del socio privato avviene con procedure di evidenza pubblica”; mentre la seconda, al comma 1, lett. c), dispone che le norme del titolo I (“contratti di rilevanza comunitaria”) della parte II (“contratti pubblici relativi a lavori, servizi e forniture nei settori ordinari”), nonché quelle della parte I (“Principi e disposizioni comuni e contratti esclusi in tutto o in parte dall’ambito di applicazione del codice”), IV “(contenzioso”) e V (“Disposizioni di coordinamento, finali e transitorie – Abrogazioni”), si applicano in relazione ai contratti – di importo pari o superiore alle soglie di cui all’articolo 28, di lavori, servizi, forniture – “affidati dalle società con capitale pubblico, anche non maggioritario, che non sono organismi di diritto pubblico, che hanno ad oggetto della loro attività la realizzazione di lavori o opere, ovvero la produzione di beni o servizi, non destinati ad essere collocati sul mercato in regime di libera concorrenza, ivi comprese le società di cui agli articoli 113, 113-bis, 115 e 116 del decreto legislativo 18 agosto 2000, n. 267”.
Per il comma 3 del medesimo art. 32 “le società di cui al comma 1, lettera c) non sono tenute ad applicare le disposizioni del presente codice limitatamente alla realizzazione dell’opera pubblica o alla gestione del servizio per i quali sono state specificamente costituite, se ricorrono le seguenti condizioni:
1)      la scelta del socio privato è avvenuta nel rispetto di procedure di evidenza pubblica;
2)      il socio privato ha i requisiti di qualificazione previsti dal presente codice in relazione alla prestazione per cui la società è stata costituita;
3)      la società provvede in via diretta alla realizzazione dell’opera o del servizio, in misura superiore al 70% del relativo importo”.
Con la citata sentenza della Corte 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – *********** e **********, nel dare atto che, in quella controversia, la *********** si era difesa proprio sostenendo che si sarebbe trattato “di un’«operazione di ‘in house providing’», alla quale non si applicherebbero le norme comunitarie in materia di appalti pubblici”, la Corte ha invece affermato che “la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi”.
Tale interpretazione è confermata, tra le altre, dalla citata sentenza 6 aprile 2006, causa C-410/04 – ANAV c/ Comune di Bari, laddove afferma che “se la società concessionaria è una società aperta, anche solo in parte, al capitale privato, tale circostanza impedisce di considerarla una struttura di gestione «interna» di un servizio pubblico nell’ambito dell’ente pubblico che la detiene (v. già, in senso analogo, anche la sentenza 21 luglio 2005, causa C‑231/03 – Corame)”, – e da quella 18 gennaio 2007, causa C-220/05***********, ove si afferma che “quanto dichiarato dalla Corte nella sentenza *********** e **********, cit., con riferimento agli appalti pubblici di servizi si applica anche con riferimento agli appalti pubblici di lavori”.
In altri termini, la Corte di giustizia ha ritenuto che qualsiasi investimento di capitale privato in un’impresa obbedisca a considerazioni proprie degli interessi privati e persegua obiettivi di natura differente rispetto a quelli dell’amministrazione pubblica. Pertanto, in sostanza, oggi si può parlare di società in house soltanto se essa agisce come un vero e proprio organo dell’amministrazione “dal punto di vista sostantivo”, non contaminato da alcun interesse privato.
Di tali conclusioni il Consiglio di Stato ha già preso atto quando, con la decisione n. 1514/07 della VI Sezione, ha affermato che, in un caso diverso da quello ivi deciso (e definito con la decisione n. 1513/07), “la Sezione ha ritenuto neanche configurabile l’affidamento in house in considerazione dell’assenza di una partecipazione pubblica totalitaria all’epoca…degli affidamenti in contestazione in quel procedimento. L’assenza della partecipazione pubblica totalitaria esclude, infatti, in radice la possibilità di configurare il requisito del controllo analogo, richiesto dalla giurisprudenza comunitaria per gli affidamenti in house”.
Da ciò consegue l’inutilità di ricercare, allo scopo di giustificarne la compatibilità con la disciplina europea, i (sempre più selettivi) requisiti richiesti per l’in house anche nel modello di parternariato pubblico-privato “società mista”.
La non riconducibilità alla figura dell’in house non implica, di per sé, la esclusione automatica della compatibilità comunitaria della diversa figura della società mista a partecipazione pubblica maggioritaria in cui il socio privato sia scelto con una procedura di evidenza pubblica.
Su tale specifica modalità organizzativa, infatti, non risulta che la Corte di giustizia abbia ancora avuto modo di pronunciarsi espressamente: anche nelle più importanti sentenze in cui si tratta di società miste (e in particolare la sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – *********** e **********, e la sentenza 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH), il privato era stato individuato senza gara.
Per la soluzione del problema in esame si impone, allora, una verifica autonoma, da condurre alla stregua dei rigorosi principi dettati dalla Corte di giustizia.
Tale verifica va condotta avendo sempre presente l’interesse fondamentale che sottende la attuale disciplina dell’evidenza pubblica: la tutela della concorrenza, cui si applicano anche i principi di parità di trattamento, di non discriminazione e di trasparenza. Tale interesse appare prevalente rispetto a quello della tutela dell’amministrazione.
Come è noto, il modello delle “società miste” è presente da tempo nel nostro ordinamento, ed è oggi previsto in via generale dall’art. 113, comma 5, lett. b), del d.lgs. n. 267/2000 (testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali), introdotto dall’art. 14 del d.l. 30 settembre 2003, n. 269, il quale dispone che l’erogazione dei servizi per la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali “avviene secondo le discipline di settore e nel rispetto della normativa dell’Unione europea, con conferimento della titolarità del servizio…”, tra l’altro, “…b) a società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche”.
Lo stesso art. 113 prevede, nella distinta lettera c), in alternativa al ricorso alla società mista, il modello della società in house a capitale interamente pubblico, richiedendo solo per tale caso i requisiti del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività” in favore dell’ente pubblico di appartenenza, identificati dalla sentenza Teckal.
Ciò sembra confermare una differenza di disciplina dei due modelli della società mista e della società in house, anche con riguardo ai requisiti richiesti dal diritto europeo.
Sempre in relazione al modello generale, l’art 13 del d.l. n. 223/2006, convertito dalla L. n. 248/2006, ha introdotto una articolata disciplina che mira ad evitare il fenomeno delle società pubbliche che operano al di fuori degli ambiti territoriali di appartenenza, acquisendo commesse da enti pubblici diversi da quelli controllanti od affidanti i contratti in house. In tale nuovo regime il d.l. n. 223/2006 ha equiparato i due diversi modelli delle società in house e del partenariato pubblico-privato. In particolare, si è disposto che le società a capitale interamente pubblico o misto, costituite o partecipate dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali (non da quelle statali) per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti in funzione della loro attività, con esclusione dei servizi pubblici locali:
  • devono operare esclusivamente con gli enti costituenti o partecipanti o affidanti (viene fissata, quindi, la regola dell’esclusività, in luogo di quella della prevalenza);
  • non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati, né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti;
  • sono ad oggetto sociale esclusivo.
La compatibilità del modello della “società a capitale misto pubblico privato” con il sistema comunitario può essere rinvenuta, alla stregua dei principi espressi, direttamente o indirettamente, dalla Corte di giustizia, quantomeno in un caso: quello in cui – avendo riguardo alla sostanza dei rapporti giuridico-economici tra soggetto pubblico e privato e nel rispetto di specifiche condizioni – non si possa configurare un “affidamento diretto” alla società mista ma piuttosto un “affidamento con procedura di evidenza pubblica” dell’attività “operativa” della società mista al partner privato, tramite la stessa gara volta alla individuazione di quest’ultimo.
In altri termini, in questo caso, indicato di regola come quello del “socio di lavoro”, “socio industriale” o “socio operativo” (come contrapposti al “socio finanziario”), può ritenersi che l’attività che si ritiene “affidata” (senza gara) alla società mista sia, nella sostanza, da ritenere affidata (con gara) al partner privato scelto con una procedura di evidenza pubblica che abbia ad oggetto, al tempo stesso, anche l’attribuzione dei suoi compiti operativi e quella della qualità di socio.
La peculiarità rispetto alle ordinarie procedure di affidamento sembra allora rinvenirsi, in questo caso, non tanto nell’assenza di una procedura di evidenza pubblica (che invece esiste e opera uno specifico riferimento all’attività da svolgere), quanto nel tipo di controllo dell’amministrazione appaltante sul privato esecutore: non più l’ordinario “controllo esterno” dell’amministrazione, secondo i canoni usuali della vigilanza del committente, ma un più pregnante “controllo interno” del socio pubblico, laddove esso si giustifichi in ragione di particolari esigenze di interesse pubblico.
Non appare condivisibile la posizione “estrema” secondo la quale, per il solo fatto che il socio privato è scelto tramite procedura di evidenza pubblica, sarebbe in ogni caso possibile, in un secondo momento, l’affidamento diretto.
Soprattutto, tale ipotesi suscita perplessità per il caso di società miste “aperte”, nelle quali il socio, ancorché selezionato con gara, non viene scelto per finalità definite, ma soltanto come partner privato per una società “generalista”, alla quale affidare direttamente l’erogazione di servizi non ancora identificati al momento della scelta del socio e con lo scopo di svolgere anche attività extra moenia, avvalendosi semmai dei vantaggi derivanti dal rapporto privilegiato stabilito con il partner pubblico.
Non sembra condivisibile neppure l’opposta ipotesi “estrema”, secondo la quale la giurisprudenza comunitaria in materia di in house – e in particolare quella secondo la quale il “controllo analogo” è escluso quando la società è partecipata da privati (cfr. la più volte citata sentenza 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – *********** e **********) – comporta anche l’incompatibilità assoluta con i principi comunitari, in qualunque caso, dell’affidamento a società miste.
In tal senso si è di recente pronunciato anche il Consiglio di Giustizia Amministrativa della Regione Sicilia (decisione 27 ottobre 2006 n. 589), che ha ritenuto “doversi pervenire ad una interpretazione restrittiva, se non addirittura disapplicativa, dell’art. 113, comma 5, lett. b), nel senso che la costituzione di una società mista, anche con scelta del socio a seguito di gara, non esime dalla effettuazione di una seconda gara per l’affidamento del servizio”. Se nessuno sembra porre in discussione la necessità della gara per la scelta del socio (ribadita in via generale, come si è detto, dal codice dei contratti pubblici all’art. 1, comma 2), il C.G.A. rileva, a sostegno di tale tesi estrema, che, pur “in un quadro giurisprudenziale in generale incline ad escludere la necessità della seconda gara (cfr. da ultimo Consiglio Stato, sez. V, 3 febbraio 2005 n. 272 sembrano emergere opinioni dottrinali di segno contrario”, secondo le quali: )
– configura una restrizione del mercato e della concorrenza l’obbligo per l’imprenditore di conseguire l’affidamento di un servizio, solo entrando in una società, per molti versi anomala, con l’amministrazione;
– la procedura di evidenza pubblica per la scelta del socio non è sovrapponibile, quanto ai contenuti e alle finalità, a quella per l’affidamento del servizio; la prima è preordinata alla selezione del socio privato in possesso dei requisiti non solo tecnici ed organizzativi, ma anche e soprattutto finanziari, tali da assicurare l’apporto più vantaggioso nell’ingresso nella compagine sociale; la seconda è invece esclusivamente diretta alla scelta del soggetto che offra maggiori garanzie per la gestione del servizio pubblico;
– il sistema di affidamento diretto alla società mista (sia pure dopo scelta tramite procedura ad evidenza del socio privato) concreterebbe nella sostanza un affidamento in house al di fuori dei requisiti richiesti dal diritto comunitario;
– se, infatti, un’impresa privata detiene delle quote nella società aggiudicataria occorre presumere che l’autorità aggiudicatrice non possa esercitare su tale società “un controllo analogo a quello da essa esercitato sui propri servizi”; una partecipazione minoritaria di un’impresa privata è quindi sufficiente ad escludere l’esistenza di un’operazione interna (cfr., anche per i richiami in essa contenuti, Corte di giustizia delle Comunità europee, sez. I, 10 novembre 2005, causa C-29/04 04 – Mödling o Commissione c/ Austria).
In conclusione, secondo tale ipotesi estrema, la costituzione di una società mista (con partner scelto dopo una gara) non esimerebbe in nessun caso dalla evidenza pubblica le procedure di affidamento del servizio.
Il Collegio ritiene – nel condividere le conclusioni cui giunge Cons. St., sez. II consultiva, 18 aprile 2007 n. 456 – che le ragioni poste a sostegno di tale tesi, anche se tutte condivisibili, possano tuttavia condurre a conclusioni differenti da quella dell’obbligo, in ogni caso, di una seconda gara.
Come già ricordato in precedenza, nelle fattispecie che hanno condotto alle decisioni più spesso richiamate in materia, la Corte di giustizia ha escluso che si potesse applicare il modello dell’in house, ma non si è pronunciata espressamente sulle condizioni di applicabilità di altri modelli (come sono, appunto, le società miste) nei quali fosse comunque presente un’applicazione dei principi dell’evidenza pubblica. Difatti, in quei casi il soggetto privato non era stato scelto con gara: sussisteva, quindi, una totale pretermissione delle procedure di evidenza pubblica.
A titolo di mero esempio, nella causa C-458/03 – Parking Brixen la gestione del parcheggio, già affidata ad un operatore, era stata revocata per trasferirla direttamente alla società partecipata, con evidente lesione dei principi di tutela della concorrenza; la causa C-26/03 – *********** si riferiva ad un affidamento diretto disposto nel 2001 a favore di una società mista, costituita nel 1996 senza alcuna connessione con l’esercizio dello specifico servizio. Anche nel caso C-340/04 – Carbotermo la procedura selettiva per l’affidamento del servizio era stata sospesa e poi revocata dalla stazione appaltante (lo stesso è avvenuto per la causa C-410/04 – ANAV), al solo scopo di affidare direttamente le prestazioni alla società mista da questa controllata.
La giurisprudenza comunitaria sopra richiamata appare dunque riferirsi a violazioni conclamate del diritto degli appalti, dal momento che l’affidamento dei relativi servizi era stato disposto senza alcuna possibilità per gli operatori di settore di concorrere per la sua aggiudicazione.
La Sezione ritiene che non si possa far derivare da tale giurisprudenza anche la conseguenza – che appare estranea ai casi in quella sede esaminati – secondo la quale sarebbe necessaria l’indizione, da parte dell’amministrazione, di una gara nella quale lo stesso soggetto pubblico aggiudicatore possa anche partecipare come socio (addirittura maggioritario) della società mista aspirante aggiudicataria.
La negazione dei principi della concorrenza varrebbe, in questa ipotesi, non solo nel caso in cui il socio privato fosse stato scelto senza gara, ma anche nel caso in cui esso fosse stato scelto con una diversa e precedente procedura di evidenza pubblica: in entrambi i casi, sembrano comunque ravvisarsi elementi di conflitto di interessi e di distorsione del mercato, senza risolvere la pretesa “anomalia” della società mista ma anzi consentendole di conservare, nel confronto con le altre imprese “solo” private, la sua “situazione privilegiata” dell’essere partecipata dalla stessa amministrazione che indice l’appalto.
La difficile sostenibilità di un affidamento tramite una procedura di evidenza pubblica nella quale l’amministrazione abbia la duplice veste di stazione appaltante e di socio della società che aspira all’affidamento condurrebbe di fatto, ad avviso del Collegio, alla totale negazione del modulo.
Ma allora, nella visione estrema sopra descritta, la condivisa inconfigurabilità del modello dell’in house per le società miste rischierebbe di condurre a far valere gli indirizzi della Corte di Giustizia come una sorta di “incoraggiamento” alla costituzione di società pubbliche al 100%, senza alcuna procedura selettiva e senza alcun ricorso al mercato.
In altri termini, se è vero che la società mista, in quanto tale, non è sottoposta al controllo analogo, è dirimente la circostanza che proprio la componente esterna che esclude la ricorrenza dell’in house è selezionata con procedure di evidenza pubblica.
Sembra allora ammissibile il ricorso alla figura della società mista (quantomeno) nel caso in cui essa non costituisca, in sostanza, la beneficiaria di un “affidamento diretto”, ma la modalità organizzativa con la quale l’amministrazione controlla l’affidamento disposto, con gara, al “socio operativo” della società.
Inoltre, il ricorso a tale figura deve comunque avvenire a condizione che sussistano – oltre alla specifica previsione legislativa che ne fondi la possibilità, alle motivate ragioni e alla scelta del socio con gara, ai sensi dell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 163/2006 – garanzie tali da fugare gli ulteriori dubbi e ragioni di perplessità in ordine alla restrizione della concorrenza.
In particolare, appare possibile l’affidamento diretto ad una società mista che sia costituita appositamente per l’erogazione di uno o più servizi determinati, da rendere almeno in via prevalente a favore dell’autorità pubblica che procede alla costituzione, attraverso una gara che miri non soltanto alla scelta del socio privato, ma anche – tramite la definizione dello specifico servizio da svolgere in parternariato con l’amministrazione e delle modalità di collaborazione con essa – allo stesso affidamento dell’attività da svolgere e che limiti, nel tempo, il rapporto di parternariato, prevedendo allo scadere una nuova gara.
In altri termini, laddove vi siano giustificate ragioni per non ricorrere ad un affidamento esterno integrale, appare legittimo configurare, quantomeno, un modello organizzativo in cui ricorrano due garanzie:
1)      che vi sia una sostanziale equiparazione tra gara per l’affidamento del servizio pubblico e gara per la scelta del socio, in cui quest’ultimo si configuri come un “socio industriale od operativo”, che concorre materialmente allo svolgimento del servizio pubblico o di fasi dello stesso;
2)      che si preveda un rinnovo della procedura di selezione “alla scadenza del periodo di affidamento” (in tal senso, soccorre già una lettura del comma 5, lett. b), dell’art. 113 t.u.e.l. in stretta connessione con il successivo comma 12), evitando così che il socio divenga “socio stabile” della società mista, possibilmente prevedendo che sin dagli atti di gara per la selezione del socio privato siano chiarite le modalità per l’uscita del socio stesso (con liquidazione della sua posizione), per il caso in cui all’esito della successiva gara egli risulti non più aggiudicatario.
In particolare, in questo caso, grazie alla esistenza di una gara che con la scelta del socio definisca anche l’affidamento del servizio “operativo”, non sembrerebbe doversi temere quanto affermato nella più volte citata sentenza C-26/03 – *********** e **********, secondo la quale “l’attribuzione di un appalto pubblico ad una società mista pubblico-privata senza far appello alla concorrenza pregiudicherebbe l’obiettivo di una concorrenza libera e non falsata ed il principio della parità di trattamento degli interessati contemplato dalla direttive 92/50, in particolare nella misura in cui una procedura siffatta offrirebbe ad un’impresa privata presente nel capitale della detta società un vantaggio rispetto ai suoi concorrenti”.
Allo stesso modo, sembra non riferirsi al caso in esame anche l’altra importante affermazione della stessa sentenza, secondo la quale “il rapporto tra un’autorità pubblica, che sia un’amministrazione aggiudicatrice, ed i suoi servizi, sottostà a considerazioni e ad esigenze proprie del perseguimento di obiettivi di interesse pubblico. Per contro, qualunque investimento di capitale privato in un’impresa obbedisce a considerazioni proprie degli interessi privati e persegue obiettivi di natura differente”.
Ad avviso del Collegio, infatti, nel caso prospettato la presenza di un “interesse privato” appare ricondotta entro limiti corretti (e propri di tutti gli affidamenti in appalto) se la gara definisce con sufficiente precisione anche il ruolo “operativo” e non “finanziario” del socio privato da scegliere.
In tal caso dovrebbe, quindi considerarsi rispettato il precetto conclusivo di quella sentenza, laddove dichiara “che, nell’ipotesi in cui un’amministrazione aggiudicatrice intenda concludere un contratto a titolo oneroso relativo a servizi rientranti nell’ambito di applicazione ratione materiae della direttiva 92/50 con una società da essa giuridicamente distinta, nella quale la detta amministrazione detiene una partecipazione insieme con una o più imprese private, le procedure di affidamento degli appalti pubblici previste dalla citata direttiva debbono sempre essere applicate”: la stretta connessione, in una sola gara, della scelta del socio con l’affidamento dell’appalto sembra ottemperare all’affermato obbligo di applicazione della direttiva.
In questa impostazione, la normativa vigente non andrebbe quindi necessariamente “disapplicata”, ma, più semplicemente, interpretata in modo conforme ai principi comunitari descritti.
Peraltro, in senso pressoché analogo si era espresso anche il parere n. 355/06 del 6 febbraio 2006 della Sezione per gli atti normativi del Consiglio di Stato, relativo allo schema di codice dei contratti pubblici. In quella sede, si era anche affermato che “in ogni caso,…dovrebbe risultare chiaro che la gara per la scelta del socio è stata svolta in vista proprio della realizzazione dell’opera pubblica o del servizio che successivamente si affida senza gara, con menzione delle caratteristiche dell’opera e del servizio nel bando della gara celebrata per la scelta del socio. Ciò al fine di assicurare che il mercato sia stato messo in grado di conoscere la serie di atti che vengono poi posti in essere con l’affidamento diretto”.
Si veda pure, sempre nel senso anzidetto, Cons. St., sez. V, 1° luglio 2005 n. 3672; Id., sez. V, 30 aprile 2002 n. 2297). (che si riferisce ad un caso in cui un comune aveva bandito una gara per la costituzione di una società alla quale contestualmente affidare la gestione dell’anagrafe tributaria comunale), laddove afferma che, ovviamente, tale modello è ben diverso da quello dell’in house, ma soprattutto che “tale tipo di parternariato pubblico-privato altro non è che una “concessione” esercitata sotto forma di società, attribuita in esito ad una selezione competitiva che si svolge a monte della costituzione del soggetto interposto” (cfr. anche, nello stesso senso, Cons. St., sez. V, 3 febbraio 2005 n. 272
In definitiva, quindi, il minimo comune denominatore di tutti gli orientamenti in materia di in house è costituito dalla circostanza, comunque necessaria anche se non sufficiente, che il socio sia stato scelto dall’Ente pubblico con una procedura ad evidenza pubblica (cfr. poi Cons. Giust. Amm. Reg. Sic. 4 settembre 2007 n. 719, che precisa che “l’onere della prova della esistenza delle condizioni legittimanti l’eccezione spetta all’ente controllante ed all’affidatario diretto, come ritenuto dalla giurisprudenza comunitaria”).
Ma nel caso in esame, risulta evidente come non sussista alcuno dei requisiti legittimanti l’affidamento diretto.
Infatti, innanzitutto, se, come in questo caso, il consiglio di amministrazione ha poteri ordinari, non si può ritenere sussistere un “controllo analogo” (cfr. Cons. St., sez. V, 8 gennaio 2007 n. 5).
Inoltre, il controllo analogo può ritenersi escluso dalla semplice previsione nello statuto della cedibilità delle quote a privati (cfr. Cons. St., sez. V, 30 agosto 2006 n. 5072).
Lo smisurato ampliamento negli anni dell’oggetto sociale della società realizza quella “vocazione commerciale che rende precario il controllo” da parte dell’ente pubblico (cfr., in particolare, le già citate sentenze 13 ottobre 2005, causa C‑458/03 – Parking Brixen GmbH e 10 novembre 2005, causa C-29/04 – Mödling o Commissione c/ Austria).
Ma l’argomento più forte a sostegno delle conclusioni a cui il Collegio ritiene di dover giungere è dato dal fatto che, a monte, la scelta del socio non è mai avvenuta a seguito di procedura ad evidenza pubblica.
Con una prima deliberazione di C.P., n. 245 del 6 dicembre 1989, la Provincia ha autorizzato la costituzione di una società mista, con il capitale sociale composto per il 70% da quote in mano alla Provincia, il restante 30% in mano a tre cooperative, detentrici di una quota del 10% ciascuna.
Nella deliberazione si legge che dette cooperative, con nota del 15 novembre 1989, avevano offerto la propria “disponibilità” a costituire la società mista.
Si può quindi escludere qualunque gara, della quale non vi è traccia, già allora nella scelta del socio.
Con successiva deliberazione di **** n. 75 del 19 marzo 1990 è stata autorizzata la convenzione con la società mista, la cui denominazione era allora “Enna Servizi spa”, per la gestione di “una serie” di servizi.
All’iniziale convenzione hanno fatto seguito negli anni svariate  modifiche relativamente ad aspetti delle attività affidate alla società mista, che qui non rilevano, nonché una serie di proroghe ed infine il rinnovo, essendo la convenzione scaduta nel 2000, aumentando i servizi affidati, tra i quali viene aggiunto il servizio riscossione tributi, con convenzione del 10 aprile 2002.
Il 23 febbraio 1996 con deliberazione di **** n. 9 è stato approvato il regolamento per il controllo sugli impianti termici.
Con successiva deliberazione di G.P. n. 216 del 10 giugno 1999, datosi atto che è stato modificato lo statuto di Enna Servizi, introducendo il servizio pubblico di controllo degli impianti termici, è stato affidato alla società mista anche questo servizio.
Segue la convenzione del 19 ottobre 1999, nella quale, alla fine delle premesse, si legge che in data 28 giugno 1999 Enna Servizi ha modificato la propria denominazione in società Multiservizi spa. Anche in questo caso seguono una serie di modifiche alla convenzione, relative, principalmente, all’adeguamento dei costi per gli utenti. Con convenzione del 13 luglio 2001 è stato disciplinato il regime degli oneri per gli utenti sui controlli relativi agli impianti termici; in tale occasione il servizio viene riaffidato alla società Multiservizi per 10 anni.
Con deliberazione di **** n. 93 del 12 dicembre 2001 la Provincia, “sia per assicurare la continuità nello svolgimento dei servizi che per conservare ed eventualmente incrementare gli attuali livelli occupazionali”, ha affidato alla Multiservizi spa una serie di nuovi servizi, tra cui, nuovamente, quello del controllo relativo agli impianti termici.
Con deliberazione di G.P. n. 191 del 6 novembre 2002 è stato modificato il servizio, prevedendo il versamento diretto degli oneri dagli utenti alla società mista, anziché alla Provincia.
In data 5 febbraio 2003, con determinazione presidenziale, nel presupposto che a causa dell’ampliamento dei servizi gestiti dalla società, rispetto alle previsioni iniziali, si era elevato il rischio imprenditoriale a suo carico, la Provincia ha deciso di porre in vendita il 19% del capitale sociale di sua competenza, con gara ad evidenza pubblica alla quale hanno partecipano solo due imprese, delle quali una si è aggiudicata questa quota del 19%.
Con tale determinazione si è dato atto che la Multiservizi aveva originariamente un capitale sociale così ripartito: Provincia 70%, le tre cooperative 10% ciascuna.
Successivamente, erano subentrati  alcuni soci pubblici, quindi la quota della provincia di Enna era scesa al 51,5%, mentre le rimanenti quote pubbliche erano detenute dalla Provincia di Caltanissetta (10%), Provincia di Messina (5,5%), Comuni di Barrafranca (2,5%) e Pietraperzia (0,5%) (mettendo insieme tutte le quote pubbliche sopra indicate si perviene al 70%,). 
Con deliberazione di G.P. n. 238 del 15 ottobre 2003 alla Multiservizi è stato affidato anche il recupero crediti per il periodo dal 2000 al 2002.
Con determinazione dirigenziale n. 78 del 29 giugno 2005 la Provincia ha preso atto che è stata costituita una nuova società, Multiservizi Energia srl, il cui socio unico è la stessa Multiservizi spa.
Sono allegati a tale determinazione l’atto costitutivo, lo statuto, la stima degli elementi patrimoniali, il certificato della camera di commercio.
Con deliberazione di G.P. n. 121 del 24 novembre 2006, ora impugnata coi motivi aggiunti, è stata infine approvata una nuova convenzione, a seguito della deliberazione di **** n. 50 del 26 settembre 2006, impugnata col ricorso principale, che ha approvato il nuovo regolamento per il controllo sugli impianti.
È quindi evidente che né per l’originaria scelta del socio, al momento della costituzione nel 1989 della Enna Servizi spa, poi trasformata in Multiservizi spa, nè per il relativo affidamento di servizi ad entrambe tali società, né per l’affidamento, da ultimo con l’impugnata deliberazione n. 121/2006, alla Multiservizi Energia srl, la Provincia ha mai operato con procedure che solo lontanamente potessero assomigliare a quelle c.d. ad evidenza pubblica.
5. In conclusione, assorbiti gli ulteriori motivi di ricorso non esaminati, il ricorso principale va accolto.
I motivi aggiunti, invece, vanno accolti (solo) nella parte in cui la ricorrente ha impugnato la deliberazione di G.P. n. 121 del 24 novembre 2006, di affidamento alla ******à Multiservizi Energia s.r.l. unipersonale del servizio di verifica degli impianti termici, nonché la Determinazione del Dirigente del Settore VIII n. 78 del 29.06.2005, con cui la Provincia ha preso atto dell’avvenuta cessione alla Multiservizi Energia srl, da parte della Multiservizi spa, del ramo di azienda relativo alla verifica degli impianti termici e di tutti i concernenti rapporti attivi e passivi; mentre vanno dichiarati invece irricevibili nella parte in cui impugnano i rimanenti provvedimenti ed atti.
In considerazione delle reiterate violazioni di legge da parte della Provincia, valutabili come gravi e ingiustificabili anche con riferimento ai numerosi precedenti giurisprudenziali nazionali e comunitari in materia, nonché alle precise norme di legge, recentissime e non, che impongono ormai il ricorso alle procedure ad evidenza pubblica per ogni forma di affidamento di servizi, o per la semplice scelta di un socio privato, il Collegio ritiene altresì doveroso trasmettere la presente sentenza, unitamente agli atti di causa, alla Procura Regionale presso la Corte dei Conti di Palermo, nonché alla Procura della Repubblica di Enna, per le valutazioni di competenza.
Le spese seguono la soccombenza, e vengono liquidate in dispositivo.
p.q.m.
il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia – Sezione staccata di Catania – Sezione Prima, definitivamente pronunciando sul ricorso principale in epigrafe e sui motivi aggiunti:
  • accoglie il primo, nei termini di cui in motivazione, e per l’effetto annulla il regolamento impugnato;
  • accoglie in parte, nei termini di cui in motivazione, i motivi aggiunti, e per l’effetto annulla la deliberazione di G.P. n. 121 del 24 novembre 2006, e la determinazione dirigenziale n. 78 del 29.06.2005;
  • condanna la Provincia regionale di Enna e la controinteressata al pagamento, in favore della ricorrente, delle spese di giudizio, liquidate in complessivi € 7.000,00, oltre IVA e CPA, da porre per due terzi a carico della Provincia, e per il rimanente terzo a carico della controinteressata;
  • incarica la Segreteria della Sezione di trasmettere copia della presente sentenza, unitamente agli atti di causa, alla Procura Regionale presso la Corte dei Conti di Palermo, nonché alla Procura della Repubblica di Enna;
  • ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’Amministrazione.
Così deciso, a Catania, nella Camera di Consiglio del 6 dicembre 2007.
            l’estensore                                               il presidente
dr.ssa **********************                              dott. *****************
 
 
 
            Depositata in Segreteria il 31/01/2008

sentenza

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