Sulle orme della suprema Corte – sezione tributaria – in punto d’elusione e causa negoziale

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SOMMARIO: 1. L’ambiguità “politica” – ma non soltanto – tra evasione fiscale ed elusione in subjecta materia. – 2. Le due sentenze clou della Suprema Corte in tema di elusione fiscale, emanate nell’autunno del 2005: a) incipit. – 3. (Segue): b) l’argomento dell’assenza di causa contrattuale, stante l’esclusività del “motivo” del risparmio fiscale. – 4. (Segue): c) ipotesi di reperimento di una novella potenza “costituente” nelle sentenze medesime. – 5. Confutazione di critiche e svilimenti calcati sul Supremo Collegio (Sezione Tributaria), da taluni commentatori od operatori in relazione alla elusione fiscale, così come concepita nelle due sentenze in parola: a) l’argomento dell’abuso del diritto. – 6. (Segue): b) l’argomento dell’assenza di causa contrattuale, stante l’esclusività del “motivo” del risparmio fiscale. – 7. La necessità necessitata d’un colpo d’ala, adesso in Italia più che mai, come ethos ”altro” nel/del Diritto: a) i punti di decollo. – 8. (Segue): b) ritornare a Mazzini, cominciando dai Doveri – prima che da (lagnose) pretese -, stando (anziché nell’ossession della pecunia) in una (laicamente sacra) altura etico-idealista.
 
 
1. L’ambiguità “politica” – ma non soltanto – tra evasione fiscale ed elusione in subjecta materia
 
  Che il buzz dei comizi elettorali – prima, durante, e dopo voti  – confonda e ottunda, è cosa assai scontata.
 In questo noi Italiani non siamo più folcloristici di altri. Basti pensare alle “primarie” statunitensi, poi alle “presidenziali” coi palloncini da circo; per tacere in extremis delle schermaglie legali – tutte botton down – in Florida ai tempi del “primo” Bush jr. vs. Al Gore.
Gli Inglesi – si sa – sono un caso a sé stante. S’involano, con uno stacco difficilmente eguagliabile, rispetto alla frattaglia che dicesi Potere. Ricordo, giusto a questo proposito, un sublime face to face in BBC, poche ore prima dell’ultimo voto nel Regno Unito, dove sembrava che gli aspiranti premiers stessero assaggiando un nuovo tè nella campagna dell’Oxfordshire, mentre il sole calava lentamente a picco sui castelli vittoriani ([1]).
E così, essendo noi Italians tutto meno che Albionici (anche se tendenti oggi al Bìo-nici), abbiamo udìto – e udremo sempre e ancora dai mass media – i politici di mestiere sciorinare, per settimane e mesi ad libitum, la litania del settore fiscale come centro dell’azione necessaria dell’Esecutivo, ou quelque chose dans ce genre.
Pur tuttavia – sia da una parte sia dall’altra dell’assetto parlamentare -, così messa la cosa è povera assai, e opaca, e direi anche un poco storpia. Ciò affermo per un aspetto tecnico-giuridico, fondamentale e fondante.
Mi riferisco al tema della elusione fiscale, che differisce in essenza – e lo vedremo – da quello della evasione. Nondimeno, soltanto di quest’ultima – a ben vedere e ascoltare – molto si è detto e si dice sui media e da parte dei politici, in modo a-tecnico “per la massa” – ma così si fa – opìno – solamente ad usum delphini.
Gli è che quando si parla reiteratamente di lotta necessaria alla evasione tributaria, si fa un’affermazione banale e scontata, come – che so? – scoprire l’endiadi “malore e languore”, già ampiamente sceverata in letteratura ([2]). E, d’altronde, il percepire la ripetizione ossessiva d’una cosa ambigua fa nascere il sospetto che sia meglio non ascoltare nulla, anche perché – magari – sotto s’annida quella cosa la quale reca seco il marchio putrido della Mala Fede.
          Certo, vero si è che la evasione va combattuta e duramente colpita; ma questo – parbleu! – è Monsieur Lapalisse. Col tintinnar di manette o meno (leopardiano verso, così “ri-arrangiato” nel 2006 da Silvio Berlusconi nel secondo face to face televisivo con Romano Prodi: sic) – e in quali casi circostanziati, e come esattamente – è poi questione antica. Risale a Rino Formica ([3]).
Nondimeno il punto cruciale, su cui si gioca gran parte della questione erariale italiana – la “partita doppia” del bilancio statale -, risiede non tanto nella evasione tributaria, bensì nella omologa elusione.
Il fenomeno elusivo fiscale si dà siccome tale, e in netta dis-tinzione, perché l’evasione impinge contro la norma impositiva frontalmente, senza arzigogolare affatto – e anzi, tutto sommato, ciò fa ingenuamente: si pensi alla doppia contabilità e al c.d. “nero” (che il neo-fascismo conosce soltanto come tondelliano stupefacente soi disant devastante più del Fernet).      
La elusione, dal canto suo, è un astuto giuoco per lo più dei consulenti, inventato per aggirare il Diktat impositivo, congegnando la fattispecie concreta in guisa tale da ottenere vantaggi fiscali lungo un tortuoso sentiero, ché se si andasse a fare la strada normale sarebbe ben più costoso in termini d’imposte, o meno vantaggioso nello stesso senso ([4])
Eppure questa idea – in politica – non è mai espressa da nessuno.
E i c.d. “tecnici” – volenti o nolenti – non mi pare giovino alquanto nel fare doverosa luce sul questo punto ([5])
           Anzi, è proprio ai tecnici settoriali che spesso il tema non garba punto, sebbene il de-composto fariseismo – spesso necessitato in loro – tenti goffamente di negarlo.
Tant’è che tempo fa, dopo avere scritto questo (volutamente breve, né brutale direi) elaborato, lo inviai – senza pensarci più di tanto – al direttore di un noto periodico di diritto tributario. Ebbene, esso non è stato accettato da quella Rivista, perché – mi scrisse appunto il direttore – il testo (pur nella sua bellezza e attualità, ecc.) non fornirebbe ai lettori quelle esplicazioni e/o applicazioni delle norme tributarie che essi si attendono dalla rivista da lui diretta.
Ora, è lapalissiano – come si vedrà – che qui non ci occupiamo né di prosodìa né di metrica. E’ altresì lapalissiano che, a fronte della Suprema Corte la quale ha posto in iscacco – nell’autunno 2005, come diremo – a qualunque ricerca di vantaggio fiscale come scopo concreto eminente di negozi o contratti -, dopo averci riflettuto alcuni mesi si sente l’esigenza di segnalare ciò come si conviene – cioè seccamente – a professionisti e/o manager e/o consulenti, proprio perché una sottovalutazione di questa impostazione del Supremo Collegio può portare conseguenze devastanti per i contribuenti, e di riflesso per i consultori loro – spesso male assisi, con italica spocchia, su tarlati scranni d’accademia (non delle Belle Arti).
Fra l’altro – si noti bene – le norme da interpretare/applicare – cioè l’ossigeno che mancherebbe all’editor di cui sopra in questo scritto – quinon ci sono tout court e a priori.
Per la semplice ragione che, acutamente, i Giudici della Suprema Corte hanno demolito l’elusione fiscale col metodo induttivo: cioè non già partendo da uno o più norme scritte di legge, ma – in stile common law (come, cioè, avrebbe più facilmente fatto un Giudice inglese o statunitense) – costruendo essi stessi, Magistrati in nomofilachìa, talune regole antielusive – il c.d. “formante” giurisprudenziale -, e ricavandole, quali corollari logico-ontologici, dal sistema normativo (anche in ambito CEE) nella sua totalità.
E allora non vi sono dubbi.
Questo tema – la elusione fiscale dopo il revirement severo della Cassazione nell’autunno 2005 – non piace a nessuno; né a politici, né a direttori di riviste più o meno prezzolate, e via dicendo ancora – poiché vi sono innumerevoli persone che vivono agiatamente facendo “giochi” tra le norme impositive. Milioni di contribuenti e milioni di loro consultori, che fino a quelle sentenze stavano nella sfera del lecito; mentre oggi – per diritto vivente formatosi per effetto del revirement della Corte Suprema – spesso sono fuori dalla sfera legittima del risparmio d’imposta consentito.
Sì che il dire che una cospicua parte dei “giochi” elusivi è finita, costituisce cosa sgradevole a pubblicarsi. Ché si rischierebbe di perdere cliente o lettore.
Edipo, in confronto, meno patì.
Non commento, e sospendo il giudizio su chi di mestiere campava (con famiglia a carico), grazie all’aggiramento – ancorché in allora consentito – di norme impositive. Una vita abbrutita, temo; ma sempre cosa loro restava – e resta, per fortuna nostra..
Però adesso -a mio parere – les jeux sont perdus comme le temp, fino a che la stessa Corte di Cassazione – le sue Sezioni Unite già investite, magari – non ribalterà eventualmente ciò che è stato statuito dal Supremo Collegio (Sezione Tributaria) nell’autunno del 2005 (su cui infra).
Così è, se vi pare. Se non pare, si deve capire che il danaro è volatile, più volubile delle donne bellissime. E si deve pure comprendere che sottovalutare la Corte Suprema di Cassazione della Repubblica può essere molto rischioso, per i consultori oltre che per i contribuenti.
Allora, visto quale pare essere il trend (volutamente uso l’orrido anglicismo), qui s’impone una radicale ri-educazione del pensiero.
E in tale direzione qui batto i miei passi da civilian, as when I was serving the army. Lo faccio pour cause in questo modo e in questa sede. Se poi, a dritta o a manca, vi sono coloro che non vogliono cogliere (come le rose di Gozzano) il punto, allora costoro proseguano pure sulla loro via. Da me, per essi, semplicemente parte – direbbe Sylos Labini  – il (più che legittimo, se non si estrinseca in ingiuria o altri reati) interiore disprezzo ( [6]).
Non ci si venga a dire d’altro canto – come è già successo con un interlocutore non tributarista – che dobbiamo citare (improvvida carenza) questo e quell’autore in questa o quella rivista degli ultimi mesi, e/o che non teniamo in conto della sentenza della Sezione Tributaria asseritamene meglio scritta – coeva alle altre due, sempre di Cass. -, in cui il relatore Cicala si sarebbe meglio – per così dire – posto in luce in verbis rispetto al relatore Altieri nelle altre due. Né ci si venga a dire che di evasione -e non già di elusione – trattasi. Noi respingiamo questi cortesi inviti.
Non stiamo candidandoci a un italico concorso – quindi le citazioni non si danno come carenze (carenza è semmai in chi le sente come necessitate); e ci rifiutiamo di prendere Diktaten su questa o quella etichetta, su questa o quella nozione abrasiva. Quando noi diciamo che la Sezione Tributaria della Suprema Corte ha centrato/suonato un allarme – con le due sentenze facenti riferimento alla elusione fiscale in termini di mancanza di causa negoziale in concreto –, riteniamo che così sia e che lo stesso non valga per la coeva sentenza facente riferimento invece al negozio in frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 c.c..
Questa risulta essere la nostra meditata visione intellettuale, che non teme d’esporsi siccome tale pur nella imminenza del pronunciamento delle Sezioni Unite sul tema.
 
 
2. Le due sentenze clou della Suprema Corte in tema di elusione fiscale, emanatenell’autunno del 2005: a) incipit
 
Certamente il tema della elusione fiscale non fa audience, né in periodi di comizi elettorali né in periodi di comizi tout court – cioè 365 (o 6, dipende) giorni l’anno. Sarebbe un po’ come mandare in onda a tarda notte – che dire? – lo sceneggiato d’antan L’idiota con Albertazzi nei panni del principe Myskin, al posto di Markette con Piero Chiambretti e la Signora Calderoli.
  Pur tuttavia, audience o non-audience, gli è che non si capisce affatto se, volutamente o no, quando si nomina la evasione fiscale in politica, si intende o meno fare riferimento anche alla elusione.
Eppure in una certa prospettiva – e forse proprio questo è il punto “impopolare” nella strategia di tutti -, risulta essere più malizioso e socialmente più riprovevole – perché più mala(ta)mente artificiale – l’elusore rispettoall’evasore.
Rispetto all’evasore “brutale”, che ha il suo il “nero” in doppia contabilità aut similia, più inviso alla moltitudine risulta essere l’altro soi disant “sofisticato” contribuente il quale –  anche grazie a ottimi consultori – fa slalom tra i paletti di parole (les mots), con cui son fatte norme – e Jus a noi si dà siccome tale. In cotale guisa l’elusore consegue un vantaggio fiscale, che l’evasore “brutale” nemmeno si raffigura, spesso e (mal)volentieri ([7]).
D’altronde, dialetticamente, bisogna stare attenti alle petizioni di principio, e vedere di procedere con ordine.
Ciò che rende la questione della elusione fiscale di grande attualità non sono certamente le recenti elezioni politiche e il nuovo governo “che avanza” (al pari di qualunque altro fosse stato), ma il fatto che la Corte di Cassazione, non più tardi dell’autunno scorso, ha emanato due grands arrets di ribaltamento sulla materia, quasi a fornire – con (para-pasoliniana) “disperata vitalità” e tempistica, mentre tutto rovina(va) giù –  spunti e aperture di gran peso, di notevole momento interpretativo e applicativo, teorico e operazionale insieme, per il prossimo futuro del Popolo Italiano.
Trattasi di due revirements dotati, a mio avviso, di una potenza costituente – se pure in senso ermeneutico intesa -, capace di lasciare il solco degli anni a venire.
Mi riferisco a Cass., Sez Trib., 21 ottobre 2005, n. 20398, nonché a Cass., Sez Trib., 14 novembre 2005, n. 2932; rispetto a queste due sentenze, il “dissenziente” terzo pronunciamento coevo – Cass Sez Trib., 26 ottobre 2005, n. 20816 – a noi pare decisamente non degno di nota, se non per essere da esso (e dalla sua distonia) scaturita poi una ordinanza di remissione della questione della elusione fiscale, coi relativi aspetti privatistici, alle Sezioni Unite della Corte Suprema – Sezioni Unite di cui si attende a breve il provvedimento ([8]).
Diciamo che la sentenza del 26 ottobre 2005 per noi poco rileva – in sé e per sé – per una ragione essenziale, che può essere condensata come segue. La riesumazione dell’art’ 1344 c.c. in materia fiscale – e più specificamente in tema d’imposizione sui redditi – ci pare destinata a essere accantonata, magari già dalle Sezioni Unite chiamate ora a pronunciarsi sull’argomento della elusione. Gli è infatti che, ormai da decenni, l’estraneità dell’art. 1344 alla materia tributaria è dato per assodato in giurisprudenza e in dottrina – e ciò sulla base, anzitutto e per lo più, di un argomento assai difficilmente superabile (checché ne dicano sul punto il Collegio del 26 ottobre 2005 e il relatore Cicala, argomentando in estensione sulla scorta di spunti diversi); e cioè la disposizione del Codice Civile sul contratto in frode alla legge è posta – in quanto tale – a tutela di interessi diversi da quelli erariali.
Epperò a nostro avviso la vera forza innovatrice e fondante sta nelle sentenze di Cass., Sez. Trib., 21 ottobre 2005 e 14 novembre 2005. Qui vi sono già Diktaten di notevole spessore; qui le Sezioni Unite sono chiamate a un compito decisionale alto e (nel contenuto) nuovo – ri-fondante.
 
 
 
3.(Segue): b) una certa quale sotto-valutazione della portata dirompente delle duepronunce sul tema specifico (anche tra gli esperti, forse)
 
Ho percepito troppo poco entusiasmo, su queste due sentenze, tra gli “addetti ai lavori”, nel milieu del diritto tributario. Ne accennavo già sopra.
Mi pare si sia – certo non casualmente – troppo glissato sul tema, relegando massime e motivazioni dei due dicta del Supremo Collegio ai fatti risalenti a quindici anni fa in quei due processi; dal che si è desunto il corollario per cui codeste pronunzie sarebbero afflitte da una intrinseca, vetusta, inevitabile in-attualità.
Si è osservato – in sostanza – che a nulla esse ormai oggi rileverebbero, poiché nate già morte, quelle due pur ampie pronunce. Esse, si dice, costruiscono i loro argomenti sistematici avendo presente – perché ciò imponeva la vecchiezza dei fatti della sentenza di secondo grado sub judicio – un assetto normativo-tributario scarno e disadorno, entro il quale non soltanto non esistevano ancora le due norme anti-elusive specifiche contro il dividend washing e l’usufrutto azionario Estero-Italia – operazioni oggetto del contendere nei due casi di specie-, ma addirittura non esisteva neppure lontanamente (ancora) una norma antielusiva di più ampio respiro, quale l’art. 37-bis, d.p.R. n. 600 del 1973, introdotta non prima della estate del 1997.
Così si è opinato quel che segue: qui la Corte Suprema, se mai a ragione diventa rigorista, lo fa “a scoppio ritardato” (per così dire), perché scatena la sua innovazione su di un dividend washing esasperato a “mosconata” (avente cioè durata di poche ore), e s’impunta – cambiando sua rotta – su di un usufrutto azionario Estero-Italia, i cui inventori (merchant bankers, bene lo rammento) già ultra-pensionati sono, se non proprio cosificatisi.
E allora – in codesta prospettiva un poco allegra e un poco macabra – tutto l’assetto motivazionale esteso dal Giudice Relatore Altieri  (Relatore in entrambe le sentenze, in uno dei cui Collegi anche Presidente), si risolverebbe in un esercizio di stile, finanche discutibile se rapportato al trattamento che tanti altri contribuenti hanno avuto in giurisprudenza per anni, a parità di norme di disposizioni vigenti per l’usufrutto azionario Estero-Italia, ad esempio.
Ora, questa Kritik – da taluno mossa alla Cassazione in varie sedi – poggia su due puntelli ragionativi, sintetizzabili come segue:
 a) il Supremo Collegio ha dovuto giudicare oggi, con un plesso di norme antielusive a sua disposizione quasi paleolitico (quello della lontana epoca dei fatti), sì che i Magistrati si sono inventati un guizzo per non sentire stridere le proprie orecchie nel momento stesso del dettare il dispositivo, e/o nel (forse ancor più tormentato) compito di redigere la motivazione;
 b) oggi c’è la norma antielusiva (sostanzialmente) generale di cui all’art. 37-bis, del decreto sull’accertamento; e quelle specifiche norme antielusive contro il dividend washing e l’usufrutto azionario Estero-Italia – che furono introdotte dal legislatore quando la giurisprudenza si manifestò anni fa contra fiscum sul punto – nemmeno più hanno ragione d’essere. Tant’è in una con le rispettive operazioni posto che, dal 1° gennaio 2004, il nostro sistema non utilizza più il credito d’imposta ma l’esenzione, quale strumento rimediale rispetto alla doppia imposizione economica sui dividendi.
 
 
4. (Segue): c) ipotesi di reperimento di una novella potenza “costituente” nelle sentenze medesime
Io però, in questo modo di ragionare – che fu anche mio (almeno in parte) in una prima fase autunnale del 2005  –, vedo ora nell’Aufhebung di me medesimo un insabbiamento, corrivo e fallace, di due sentenze le quali debbono piuttosto diventare una linea di guida forte, efficace per il nostro futuro di Italiani.
Le due motivazioni della Corte di Cassazione affermano con chiarezza l’essere il Giudice di Legittimità pienamente consapevole di porre in essere un ribaltamento totale – e ciò anche rispetto al modo di ragionare della stessa Corte in precedenza. Ciò si legge bene in motivazione; e lo si legge appunto come non riferito soltanto al dividend washing e/o all’usufrutto azionario Estero-Italia; lo si legge per vero in tema di elusione fiscale tout court.
Ebbene, una sì conclamata volontà di ripensamento – da parte della Corte Suprema – non può essere con raziocinio archiviata en souplesse dagli operatori di settore – a mio parere meditato.
La Cassazione, nel reasoning delle due pronunce, vede nella elusione fiscale un malcostume in cancrena della nostra Italia, originatore di danni diretti e devastanti all’Erario, nonché enormi – se pure indiretti – a tutti coloro i quali le imposte dovute scontano sino all’ultimo Euro. E, su quest’ultimo punto, se non è la Corte certo sono io, da sempre, a percepire i passi pesanti di monatti per gli infetti, nell’incedere di elusori e di loro consultori malafideistici.
Sono da anni allineato a questo modo di ragionare, contrario duramente all’implicita astuzia di chi – al fondo d’un barile dorato – fa sì che tutto ciò che è suo sia suo, e tutto ciò che è di tanti altri (ingenui) sia – pur esso – suo. Ciò capita, appunto, nella mente disturbata dell’elusore, ove ristagna l’idea di una soi disant imbecillità totale degli altri, che tanto più sono tali meglio è per lui: homo duro e puro, certo d’essere tale, e anche tutto d’un pezzo.
Per non apparir mentitore, mi vedo costretto – senza vanità veruna (nello sfacelo dell’esser-ci c’è poco da vantarsi) – a ricordare un mio scritto pubblicato, quasi un lustro fa (al solito mi pare ieri), in questa Rivista ([9]). Ivi, in un contesto di etica e di norme di legge, ripercorrevo una lettura assai originale della epistola paolina ad Romanos, fatta trent’anni prima da Franco Cordero ([10]) – e ne traevo qualche modesta riflessione autonoma, per lo più deduttiva e conclusiva, sul coté della normativa e normazione tributaria.
Ebbene, oggi forse come mai prima, sento questa “ragion pratica” che urge, su me e su tutti gli Italiani. Lo sento d’istinto e di mente, e anche perché leggo i contemporanei: da Sylos Labini a Guido Rossi, da Joseph Ratzinger a Norberto Bobbio, da Emanuele Severino a Natalino Irti, a Francesco Galgano.
Invero quest’ultimo, con taglio particolare rispetto ad altri, si sforza di ritrovare un ordine transnazionale del giure, il che manifesta – a mio parere – l’intelligente inquietudine di chi non si rassegna e allora, lottando forse in primo luogo con sé stesso ed in sé stesso come intellettuale prima che come giurista e dunque ri-elaborando, cerca – attraverso un acuto superamento teorico-pratico – un ubi consistam che ancora qui a noi resti, pena – a rigore di logica – la sola soluzione  à la Michelstaedter ([11]).
Della necessità necessitata – per una sopravvivenza di un Stato di diritto – d’una ventata forte di rigore morale e razionale, non posso certamente qui e ora dire comme petit clerc che sia un’idea che (s)fugge: un cipiglio isolato dell’esiliato in patria. Sarebbe fare come quel barone il quale, per uscire dalle sabbie mobili, si tirava su per i capelli; la quale azione s’addice tristemente al più becero modello di pensatore/operatore italico, in questi nostri tempi di non-geniali bluffs.
 
 
5. Confutazione di critiche e svilimenti calcati sul Supremo Collegio (Sezione Tributaria),  da taluni commentatori od operatori in relazione alla elusione fiscale, così come concepita nelle due sentenze in parola: a) l’argomento dell’abuso del diritto
 
Si sono criticati, in sede consulenziale, gli argomenti che la Suprema Corte in quelle due sentenze ha sviluppato per colpire negozi elusivi anche in assenza di norme fiscali ad hoc.
Certo, questa non è la sede per entrare nel dettaglio.
Rilevo soltanto che il riferimento del Supremo Collegio alla categoria concettuale dell’abuso del diritto, così come elaborata dalla Corte di Giustizia delle Comunità Europee ([12]) non deve essere preso – per così dire – “di petto”, facendo dell’attorcigliamento – e della rabbia aprioristica con l’Erario (ché quello non onera parcelle) – la spada della confutazione.
 Piuttosto mi sembra che il concetto di abuso delle norme sia stato invocato dalla Cassazione a un duplice scopo, il quale potrebbe grosso modo suonare così:
a) gli aggiramenti astuti delle disposizioni imperative, piegando le medesime a fini del tutto diversi rispetto a quelli, per soddisfare i quali esse sono nate, è cosa che un sistema rigetta siccome tale, perché esso non può (con)vivere in presenza di una simile infezione al suo interno – viceversa ammalandosi in essenza, credibilità, e potenza fondante di Grundnorm;
 b) l’impiego forzosamente astuto della norma, il cui dettato di parole diventa strumento della ossessione pecuniaria, coinvolge non soltanto forze di tenuta (democratica) della Legge come Potenza, ma anche forze etiche, le quali non possono lasciarsi andare all’abbandono malato de l’argent pour l’argent, de l’argent de l’enterprise pour l’argent du conseil.
Se il passo/ritmo/andazzo di questa “marcetta” all’italiana d’oggi (penso un poco all’adorato e omonimo Fellini, e un poco a me – goffo – sotto le armi) continuerà a essere così suonata, stonata ed eseguita fuori tempo, non credo che si andrà molto lontano.
 Si calerà e si colerà; si scenderà nel gorgo – pavesianamente – muti. Lo si farà come cera di candela accesa, come disgraziati che si sono cacciati – da sé soli – in un artesiano pozzo viscidamente infangato.
E a chi invece im-porta l’altura dell’ex-sistere – per avventura in Italia -, anche in esilio vero fosse non potrebbe darsi come tollerabile che Jus si risolva nella più frusta e scontata delle sue satire: il trucco verbale e la maschera isterica post-bellica, magistralmente resi da Vittorio Gassman (la sola possibile incarnazione dell’oltreuomo nicciano ch’io conosca) in uno scintillante episodio de I mostri di Mario Monicelli.
Questo stridore s’acuisce poi sol che si pensi, in termini di consultori, a quel ruolo alto il quale, alla avvocatura in quanto tale – per la garanzia istituzionale del giusto processo e dello Stato di diritto –, ha di recente attribuito la Risoluzione del Parlamento Europeo del 23 marzo 2006 – bene ripresa da Guido Alpa in nome del Consiglio Nazionale Forense da lui presieduto, in un appello pubblicato e indirizzato agli allora candidati premier Silvio Berlusconi e Romano Prodi (nonché ai leader dei partiti dell’intero arco costituzionale), giusto alla vigilia delle ultime elezioni politiche del 9 aprile 2006.
E’ un ruolo secondo me, quello che l’Assemblea di Strasburgo conferisce all’attorney nell’Unione Europea, il quale più non si concilia col trucco – da Italia post-agricola/proto-capitalistica – sul dettato delle norme, né con l’ossession de la pecunia travestita d’agudeza del consultorio sedicente esimio. Sedicente tale sì, ma al fondo invece un Ugolino per il quale – gira che ti rigira – più che l’Umano poi (in sé già Troppo Umano) sempre può, senza fallo di sorta, tutto men che il digiuno: scil. villa para-presidenziale – du coté du Billionaire – a Porto Cervò, eretta ad essentia ex-sistentiae.
 
 
6.  (Segue): b) l’argomento dell’assenza di causa contrattuale, stante l’esclusività del “motivo” del risparmio fiscale
 
Quanto al secondo argomento della Cassazione – quello, cioè, per cui un negozio posto in essere soltanto al fine di risparmiare imposte, è nullo per mancanza di sostanza come causa ai sensi del Codice Civile -, si è anche qui fatta della critica al ragionamento dei Giudici di Legittimità. E lo si è fatto in odore, mi pare, di caccia ebbra alle streghe.
La Corte – si è detto – cade in auto-contraddizione, perché da un lato essa adotta un concetto di causa negoziale in concreto – la volontà effettiva delle parti, anziché la funzione economico-sociale del contratto nella mente del legislatore -, e nel contempo però – si è aggiunto – la stessa Corte relega apertamente l’intento di conseguire un vantaggio fiscale tra i “motivi” del negozio; laddove invece, a quel punto, proprio sul terreno della causa in concreto si poteva/doveva inserire la ricerca del vantaggio fiscale al centro della “causa” sostanziale del contratto. E, in cotale ultima guisa, tutto l’operato del contribuente – si è concluso – sarebbe rimasto assolutamente legittimo e intatto.
Dico che l’auto-contraddizione, ravvisata da codesto conato di Kritik alla Cassazione, risiede invece proprio in quanto appena sintetizzato, come espressione di chi pensa d’avere così individuato un’auto-contraddizione nel ragionamento della Cassazione.
Ci si auto-contaddice spesso, arrapati dal cogliere auto-contraddizioni altrui – magari, così per avventura, a pena interessati sub speciae pecuniae.
Sì, perché nel tentativo di dimostrare che la elusione fiscale nel nostro ordinamento è sempre legittima fino ai limiti dell’art. 37-bis (quando quest’ultimo c’è), tale visione critica – rispetto alla Corte – finisce per dare per assodato che la elusione in quanto tale possa stare nel cuore del contratto, cioè nella sua causa, e finanche quale unico componente della causa negoziale medesima.
E la petizione di principio auto-contraddittoria, qui, mi pare di tutta evidenza. In termini à la Popper, diciamo che quel conato di confutazione inciampa goffamente e cade, nel suo stesso dar-si come tale – avverso la Logik della Corte Suprema.
Aspettiamo confutazioni nuove. Questo significa pensare.
Confutazioni alla nostra confutazione della confutazione altrui.
 
 
7.  La necessità necessitata d’un colpo d’ala, adesso in Italia più che mai, come ethos ”altro” nel/del Diritto: a) i punti di decollo
 
Al di là dei tipici ragionamenti causidici e delle relative repliche in diritto, è sull’etica che bisogna concludere.
Non occorre, nel nostro contesto, abbracciare le tesi di chi – come il gius-filosofo Joseph Ratzinger (ante cumclauvem) o il filosofo Marcello Pera – in Cristo individuano la guida della ragione e della legge/legificazione allo stesso tempo. Non occorre perché, peraltro, questa affermazione, nella sua eccezione meno esasperata, fa precipuo riferimento ai temi c.d. eticamente ipersensibili – alla persona umana di Karol Wojtyla -, che col diritto tributario poco – sen non nulla – hanno a che fare.
Molto più laicamente, vi sono giuristi italiani attenti, i quali – anche grazie al dialogo con autorevole pensiero filosofico italiano contemporaneo (Emanuele Severino) – hanno levato un grido di dolore verso uno Jus nullificato, cosificato a pura tecnica manipolatrice, tale per cui la norma si dà – anzitutto e per lo più – proprio per essere circumnavigata, e per potere essa in cotale guisa diventare – trista e abbrutita – un quid da cui suggere Tutto il fuggevole, con alienato godimento ([13])
Non occorre nemmeno essere imbevuti (fuori tempo e luogo) di gius-naturalismo, per comprendere che queste due sentenze della Cassazione in tema di elusione stanno nel medesimo solco di un pensiero che è ben laico non turbato dunque da spettri relativistici di sorta -, ma il quale pensiero tuttavia – pur nel suo voler tenere “il Tevere più largo” (sul monito di Spadolini) – coglie appieno che le norme da sé sole – in sé medesime così gettate al macero tecnicicistico-prassististico quale mero coagulo di parole -, se applicate senza un riferimento alto e valoriale, non colgono il centro delle cose; cosicché il loro stesso fine, spesso e purtroppo, va nel nulla di chi cerca il Nulla del più vetero/proto-capitalismo: il peggio del peggior materialismo, machiavellico e proto-marxista (proprio della cultura di massa, e del fascismo di sinistra pasoliniani).
E allora in Italia s’impone una svolta etica, e nella moltitudine; presto. Tutta e sùbito – qui sì, anziché nel meaningless slogan del ’68 – verrebbe da dire col Significante. E ciò vale a prescindere dalle recenti elezioni politiche, dal loro esito democratico e da molte altre cose.
Penso, insomma, a una svolta della multitudo, che sia però d’ascendenza mazziniana, non machiavellico-marxiana, quale quella divisata da Antonio Negri e da Michael Hardt ([14])
S’impone – dico – una rivoluzione etica di massa.
E ciò, in tema di elusione fiscale, vale più che altrove.
           In questa prospettiva, i due grands arrets della Cassazione dell’autunno scorso avranno ragione di essere, in futuro, per tutti i casi concreti nei quali – con sottigliezze più o meno ancorate alle nuances verbali – si affermerà la inapplicabilità dell’art. 37-bis, d.p.R n. 600/1973: norma, questa, vigente e antielusiva par excellence, che poi tanto “generale” – come pure autorevolmente sostenuto ([15]) – a chi scrive francamente non par proprio, specie sul piano pratico-operazionale del “business” del tax planning.
          Il che non significa affatto che la elusione diventerà l’onnipresente spauracchio di brame erariali.
          Significa diversamente che, al di fuori della sfera dell’art. 37-bis, un negozio astutamente raggirante una o più norme tributarie – magari proprio la norma anti-aggiramento stessa (cioè il 37-bis) – deve superare un ulteriore controllo, prima di essere affermata come non elusiva.
          Il controllo ulteriore è il seguente: qual è la causa – cioè la concreta essenza – di quel negozio/contratto e del suo ex-sistere?
Se la causa concreta è soltanto il risparmiare imposte, e oggettivamente quel contratto esula dall’applicazione dell’art. 37-bis  – per tipologia e oggetto del contratto -,  credo che ormai, dall’autunno scorso, molte cose siano finite. Il contatto/negozio è nullo; e non produce effetto verso lo Stato/Erario, senza che sia necessariamente emanata sentenza dichiarativa di nullità dalla giurisdizione civile; basta l’incidentale rilievo, in tal senso, fatto in ogni stato e grado del processo tributario, anche d’Ufficio fino alla Corte Suprema stessa.
Io penso che debbano essere finiti – i giochi -, sulla scorta dell’intervento della Corte di Cassazione.
E penso che si cominci così a respirare aria meno ammorbata, meno adusta da questo isterismo del fuoriuscire dall’art. 37-bis – isterismo che l’istituto dell’interpello specifico ha finito in prassi con l’esasperare e attizzare, anche se involontariamente nella mens legislatoris.
Non ce lo si era prefigurato, certo; ma su questo lo Statuto del contribuente è diventato come un film di James Bond, quando qualche scherano della Spectre dà in pastura carne al sangue – nella vasca – ai pescecani.
 
 
8.  (Segue): b) ritornare a Mazzini, cominciando dai Doveri – prima che da (lagnose) pretese -, stando (anziché nell’ossession della pecunia) in una (laicamente sacra) altura etico-idealista
 
Un ulteriore dato curioso è che, in un contesto italico come quello presente – con la zavorra etica che negli abissi scende -, soltanto a Sylos Labini, nel suo ultimo libro postumo ([16]), sia venuto in mente di ricordare  il nome di Giuseppe Mazzini. Il che la dice lunga sul tasso culturale dei saggisti italiani.
E invece va letto e riletto, l’Apostolo che non sorrideva mai, in tempi come questi – cupi e duri – come quelli che viviamo. Mette ciò conto, a nostro parere, anche da parte di chi fa cose con norme tributarie.
 Ora più che mai.
Lo affermiamo per chi, non avendo ancora avvicinato il grande Genovese, può ancora sentirne – sulle migliaia e migliaia di pagine scritte (i cento volumi nella opera omnia Treccani) l’idealismo e lo stile di parola, in una con la lezione altamente etica, e lo spirito – d’ascendenza hegeliana – inteso come fede nella moltitudine. E tutto questo sta in un vero rivoluzionario: l’unico italiano, peraltro radicalmente anti-marxista ([17]).
E si ri-cominci allora – ammesso e non concesso che si sia mai cominciato –  a ragionar di Doveri, prima di fare partire il solito disco rotto delle litanie su quello chea noi  è dovuto e invece e purtroppo  non è stato  – ancor, giammai a priori – dato.
Prima ai Doveri – è tempo di pensare -, rispetto al diritto che ancora ci aspettiamo: un Diritto con cui c’è poco da usare (machiavellici) toni cinici, collo strumento delle parole nelle norme. Perché il diritto non è soltanto scaltrezza figurativamente sodomita. Il diritto è cosa che può volare in alto, come accadde anche in Ugo Foscolo – giusto per restare in clima ottocentesco, e d’esilio londinese condiviso in parte ([18]).
Si proceda così anche in tema di tributi.
Ciascuno deve all’erario ciò che dice la legge.
Ma le arguzie de’ contribuenti, co’ loro consultori all’occorrenza – vox clamantes pecuniam in deserto – non reggono, rectius non possono reggere, la botta frontale dell’altura dell’uomo degno. In una con gli ultimi dicta della Corte Suprema, caro signor direttore de Il fisco: Vous comprenez? Bien. Mois non plus.
E degno fu il Mazzini condannato a morte, esule in miseria, il quale sempre visse in lutto per la Patria – non senza dandismo povero (pregiata carta da lettera, acqua di colonia, i soli/unici lussi), e senza mai portare indosso (piuttosto il foulard nero, fattogli avere dalla mammain genova) quel sorriso devastante/bestiale, su cui Umberto Eco ha costruito le fortune multimediali de Il nome della rosa.
Credo che, al cospetto dell’Apostolo Laico, soffochino – e rantolino sull’asfalto a sfracellarsi come il Godot atteso dell’assurdo beckettiano, come la festa di compleanno di Pinter  – elusori tutti e loro  mesti/lubrìchi – desertificati-si – consultòri in villa.
Ché, se si legge il Mazzini (non già Machiavelli o Marx, e nemmeno Spinoza suggerisco – se non si è previamente attrezzati), tosto ci si avvede di un possibile posizionamento d’assetto nobile in altura.
Ivi è l’antitesi totalizzante rispetto a chi (si) è fatto dentro solamente d’una materia vile e trista nel suo in-sé, dentro a sua quiddità: la pecunia – vogliam dire. Essa, comunque trasumatasi – in carta o vile metallo – una cosa riesce sempre e perfettamente a fare: in-aridire l’uomo (la peggiore miseria, diceva Vittorio Gassman), e la terra striare col rosso emetico dell’umano sangue.
Ci si augura dunque che, dalla giurisprudenza prossima – di merito prima ancora che di legittimità – giunga una valorizzazione nobile delle due sentenze innovative dell’autunno 2005 di cui abbiamo detto, in tema di elusione fiscale.
Ed auspichiamo che ciò accada anche nei processi civili sui contratti – dove la questione non dovrebbe tardare a emergere -, oltre che, più ovviamente, nelle prossime liti tributarie, scaturenti quali impugnative d’accertamenti impostati sul modo di ragionare delle due sentenze della Corte Suprema dell’autunno 2005.
E così, anche in questo, il pensiero e il monito sublime di Mazzini siano, a noialtri masticatori di – e faci-/dici-tori cose con – le norme (tributarie), maestri e donni: come Virgilio – si licet magna, per quel che mi concerne – fu per l’Alighieri.
O forse meglio ancora è reperire nell’oggi una solida com-parazione. Per noi il ritornare a Mazzini, nel Diritto (Tributario) Italiano, si impone come struttura originaria e fondante, al pari di Parmenide nella cattedrale del pensiero ontologico di Emanuele Severino ([19])
 
 
FEDERICO MARIA GIULIANI
 
LL.M., Int’l Tax’n, Regent (Christian) University, VA, USA
Già Prof.. a contratto nella Università del Piemonte Orientale
Avvocato in Milano
 


 
([1] ) Su queste atmosfere però non m’attardo, e faccio rinvio al primo libro di B. SEVERGNINI, Inglesi, Milano, 1990 – il solo per me degno di nota, scritto dal cremasco allievo di Montanelli, dacché i successivi suoi tomi non a caso si congelano vicino al reparto bevande nei supermercati (situazione, questa, tipicamente espressiva di gloria e rovina al contempo). Mai visto, invece, Inglesi alla Ipercoop o all’Esselunga. Può darsi che si tratti di mio moncone: un tozzo di Dasein perduto, l’amore di svogliata carezza – e un po’ di tenerezza-  di Fabrizio De Andrè. Ecco, un disco del Faber potrebbe stare anche coi crostacei vivi in acquario – e pure si staglierebbe lo stesso. Semplice: una questione di maledettismo, genialmente contra mundum – pur nella infinità delle contraddizioni, che ogni maudit ben sa, ma ciò non gli cale punto sennò più dandy più non sarebbe – trasumanando nell’antitesi bourgeoise, e per l’effetto organizzando-si a essere già Morte in Vita.
 
 
([2] ) Inter alios: T. MANN, La montagna incantata, trad. it. E. Pocar, Milano, 1992; M. TOBINO, Per le antiche scale, Milano, 2001; SATTA, La veranda, Milano, 1981.
([3] ) Egli era, come noto, Ministro delle Finanze all’epoca della emanazione della c.d. legge “manette agli evasori”, id est d.l. 10 luglio 1982, n. 429, convertito in legge 7 agosto 1982, n. 516.
([4] ) Vastissima è, ovviamente, la letteratura sui due concetti. Ci si limita qui a fare rinvio, con ampi riferimenti a margine, a: A. FANTOZZI, Diritto tributario, Torino, 2003, p. 160 ss.; G. FALSITTA, Diritto tributario. Parte generale, Padova, 2005, p. 194 ss.
([5]) D’altra parte – si sa – il vero “tecnico” [o, come noi amiamo dire – e à la Dario Fo/à la Trani – “tennico”] – in quanto tale non è, e dunque si dà come auto-contraddittorio. Egli diventa, cioè, un non-uomo – o un uomo a metà (in-completo come il Bell’Antonio di Vitaliano Brancati, quanto meno). Sic G. GENTILE, La filosofia dell’arte, Firenze, 2003, p. 5.
     E, nel milieu multimediale del XXI secolo, identico concetto espresso da F. FERRAROTTI, in Il Tornasole – programma Rai 2 di A. PEZZI -, puntata in onda nella seconda serata dell’11 aprile 2006 (disponibile ora in download su  http://www.andreapezzi.it).
 
([6]) ) P. SYLOS LABINI, Ahi serva Italia, Bari, 2006, p. 42.
([7] ) Sulla distinzione tecnico-giuridica tra evasione ed elusione fiscale – nei termini sintetizzati supra nel testo – , oltre agli Autori menzionati alla nota 4, adde R. LUPI, Diritto Tributario. Parte generale, Milano, , 2000, p. 102 ss., tutti con ampi riferimenti a margine.
(8) Quanto alle due sentenze sulle quali s’accentra la nostra attenzione, le si veda ad esempio in http://www.altalex.com/index.php?idnot=10199 e in http://www.altalex.com/index.php?idstr=58idnot=10200.
La terza “dissenziente” è invece leggibile in fisconline.
La remissione degli atti – di una ulteriore vicenda in tema di "dividend washing" – al Primo Presidente della Suprema Corte, acciocché si valuti la opportunità di un pronunciamento delle Sezioni Unite sul tema della elusione fiscale, è avvenuta con ordinanza n. 12301, datata 24 maggio 2006, emessa dalla Sezione V – Tributaria – della Cassazione medesima, leggibile in fisconline.
 
 
([9] ) F.M. GIULIANI, La legge privatistico-fiscale e l’epistola paolina ad Romanos, in questa Rivista, 2002, p. 871 ss.
([10]) F. CORDERO, L’epistola ai romani. Antropologia del cristianesimo paolino, Torino, 1972.
([11] ) F. GALGANO, La globalizzazione nello specchio del diritto, Bologna, 2005, passim.
([12] ) Da ultima, fra le molte pronunzie della Corte di Giustizia CEE in tema d’abuso del diritto (alcune delle quali citate in motivazione proprio dalla nostra Suprema Corte nei due grands arrets in parola), vedasi C-419/02, 21 febbraio 2006, BUPA Hospital Ltd,. Goldsborough Developments v Commissioners of Custums & Excise, in http://www.europalex.kataweb.it/article_view.jsp?idArt=32935&idCat=546.
     Il caso verte in tema di VAT inglese, rispetto al sistema comunitario di norme sul tributo medesimo. Ebbene, i Giudici del Lussemburgo non esitano a delineare, nei fatti concreti posti in essere da un gruppo ospedaliero britannico, la creazione di una società ad hoc, maliziosamente conceived come “scatola vuota”. E ciò per capziosa ricerca di una fatturazione infra-gruppo – originativa di detrazioni VAT – nel momento in cui sopravvenneper dicta della High Court of Appeal e poi della House of Lords – la impossibilità di recuperare l’imposta stessa versata a monte, sull’acquisto di prodotti medicali (protesi, etc.) presso i fornitori – laddove il consumatore finale (scil. il paziente) acquistava dall’ente nosocomiale ad aliquota zero nella più parte dei casi. E così, quel che più non poteva farsi co’ malati, ci s’invento di farlo (passi l’anacoluto) co’ la società infra-gruppo, costituita all’occorrenza e avente la facciata – in aero-sabbiatura da “pianificazione fiscale” – di neo-fornitrice di dentiere.
     Questo è – in buona sostanza – ciò che, senza esitazione, la Corte di Giustizia bandisce come bieco abuso delle leggi. Sic est. Certo non l’abbiamo scritta noi questa sentenza (secondo anacoluto, ahi!); e nemmeno ebbe modo di vederla – ché cronologicamente posteriore essa fu di qualche mese – la nostra Suprema Corte (anacoluto 3°) nelle due sentenze – a detta di taluno irrilevanti –, da cui prende le mosse questo scrittarello.
     Ora, per quegli acuti osservatori i quali – all’indomani dei due grands arrets italiani/autunnali – ebbero a opinare che l’idea di abuso del diritto, da parte della Corte di Giustizia, sarebbe stata “stonata” rispetto a un caso di elusione fiscale, questo ulteriore pronunciamento dal Lussemburgo si configura come il Fato per Edipo.
     Certo, siamo in tema di VAT – imposta comunitaria par excellence -, e non già d’imposta sui redditi come nei due casi decisi dal Supremo Collegio in Roma (fino a questo punto, se pure arrancando asmatici à la Proust, finanche noi giungiamo). Pur tuttavia, certe attestazioni sofistiche ad oltranza provano un po’ troppo; ed evocano, a chi scrive, quell’angoscia compulsiva di asseriti brogli elettorali risicati/invasori, la quale – come HIV dentro a lupanare non igienicamente protetto – sembra avere colpito, devastandoli inside, taluni nostri parlamentari, specie allorquando alla Presidenza della Repubblica non fu di recente eletto Martin Heidegger, ma persona che – assai più modestamente – non scrisse Sein und Zeit. A noi risulta che, in democrazia, un solo voto solo in più conchiude i comizi elettorali e il loro effetto. Forse, se in TV dessero più spazio (come ai tempi della Debby) allo slalom speciale, sottentrerebbe il rammemorare che le medaglie olimpiche si vincono con un colpo di reni – solo e secco – fra tre paletti tre, messi giusto in linea sul pianetto finale – di talché un centesimo di secondo, con il fotofinish, fa la différence (anzi la différance, à la J. DERRIDA, Marges – de la philosophie, Paris, 1972, passim). Dipoi chi perde tace; piuttosto, se in lui non c’è cadaverina in corpore, va tosto a sedurre donne bellissime e lontane – dannunzianamente “semper paratae” a chi però soltanto le sa fare sognare. Sognare che? Giusto questa picciola Cosetta, che esse – oh, sì! – sanno davvero essere una Vita Dolce. Chi scrive non è andrò-gino – e pure non andrò-geno – giusto per magia codesta, tutta dell’Eterno Femminino Regale: Poesia-la Vita; quella che i sedicenti ommini – le bbestie trilussiane – perdono di vista quasi sempre, pur senza nostrana endoftalmite endogena auto-immune: (di)stòlti/stolti..
     
([13] ) N. IRTI, Il nichilismo giuridico, Bari, 2004, passim.
Va d’altra parte ricordato che, secondo un’autorevole filone di pensiero gius-filosofico, Jus in altro non si risolverebbe – ancor di più di un qualsiasi rapporto inter-esistenziale – una questione di pura Forza/Potenza. In questo senso ricordiamo – prima, e forse sopra, tutti – le scintillanti pagine di B. PASCAL, I pensieri, trad. it. di B. Nacci, Milano, 1994, p. 13 ss. Per un commento acuto a questi frammenti pascaliani, per tutti vedasi B. NACCI, L’immaginazione in Pascal, in AA.VV., Nella dispersione del vero. I filosofi: la ragione, la follia, a cura di Borrelli e Papparo, 1997 (Atti di un Seminario tenutosi, tra il gennaio e il maggio 1997, presso il Dipartimento di Filosofia della Università Federico II di Napoli).
 
([14]) Si vedano, tra i molti lavori: A. NEGRI, Il potere costituente, Roma, 2002; ID., Movimenti nell’Impero. Passaggi e paesaggi, Milano, 2006, spec. a p. 57 ss.; A. NEGRI e M. HARDT, Impero, Milano, 2000; IDD., Moltitudine, Milano, 2004. Questi pur acuti Autori, della “moltitudine” assai ricorrente nelle pagine del Mazzini,  non citano mai nulla – quanto meno nelle opere appena ricordate. Che sia cosa voluta o meno, resta comunque – a nostro avviso – gracile carenza: ché nel saggismo si può/si deve, di fronte a taluni Scrittori di spessore – quali il pluri-condannato-al-cappio Genovese senza fallo fu – mentovare per forza delle cose l’autore medesimo , e nel contempo sobbarcarsi l’onere di con-futare – se ciò s’intende, in buona fede nella propria mente, fare. Ma ignorare il Pondus sul Begriff è un non-porsi la questione – forse – di che cosa significa il pensare: questo ci pare errore da traison des clercs; e addio fermezze nelle sfumature!h
     Sulla querelle londinese tra Mazzini e Marx, da ultimo vedasi P. LINGUA, Mazzini il riformista, Genova, ECIG 2005, p. 33 ss. Certo, pur senza sapere di economia, il genovese intuì – se si vuole con 150 d’anticipo -che fare gli uomini uguali (es)poneva (a) tensioni e frustrazioni spasmodiche; pur tuttavia va detto che l’ideale di eguaglianza – se adeguatamente (quasi psico-analiticamente) rielaborato – può invece costituire ancor oggi, forse più che nel secolo diciannovesimo, un punto forte e cardinale della teoria marxiana, notoriamente caro al c.d. “marxismo religioso” (per tutti P. P. PASOLINI, Una discussione del ’64, in Saggi sulla politica e sulla società, Milano, 2005, p. 748 ss.). E allora lì, forse, una ricerca sì dà tuttora come possibile, intorno a quell’Assoluto in sintesi saggistica e pro-positiva, di cui facciamo menzione infra al capoverso della nota 16.
     Il “socialismo reale”, come noto, è stato oggetto di una massiva devastazione revisionistica, spesso condotta sul filo delle possibili e plurime con-nessioni al nazismo: E. NOLTE, Nazionalsocialismo e bolscevismo. I grandi totalitarismi Europei del XX secolo, trad. it., Milano, 1996; AA.VV, Stalinismo e nazismo, a cura di I. Kershaw e M. Lewin, trad. it., Roma, 2002.
     Ciò, se da un lato scuote e inquieta fino alle midolla – unitamente a libri quali A. SOLZENICYN, Arcipelago Gulag, trad. it. in 3 tomi, Milano, 1995 -, dall’altro lato acuisce l’attenzione intellettuale per riflessioni diverse e pure serie, quelli ad esempio quelle di G. GALLI, In difesa del comunismo nella storia del XX secolo, Milano, Kaos edizioni, 1998.
      Il punto gnoseologico ed euristico – a nostro avviso – è che non si pone una questione di dimenticare Marx, ma di non potere – né dovere, diremmo – dimenticare Hegel, pur nella consapevolezza del fatto (e forse anche proprio per ciò) che – nel pensiero del genio Speculativo stoccardiano – già pullulano più che in nuce non pochi bacilli di nichilismo (AA.VV., Hegel e il nichilismo, a cura di F. Nichelini e R. Morani, Milano, 2003).
      Su questo ha ben ragione Emanuele Severino – che per il vero tali cellule dannose già ravvisa in Platone (v., infra, nota 17) -, ma la sfida è quella (per noi doverosa) di non rassegnarsi mai: non alla patologia nichilistica insita in Hegel, né a ciò che ne è sortito per l’effetto in Marx; non al fatto che Marx scrivesse a Engels che Mazzini era un “prete” e un “leccapiedi della borghesia” (per intanto l’uomo di Treviri su Mazzini non si è pubblicamente scagliato à la – pure a lui postuma – Ideologia tedesca); e nemmeno – rassegnarsi bisogna – al fatto che il Mazzini respingesse l’idea socialista d’un appiattimento sociale, perché poi le soluzioni alternative, capaci di rispondere in alternativa ai suoi altissimi ideali, rischiano di essere giudicate prassisticamente utopiche o banali – quanto meno ex post. Il Pensiero è movimento; e la ricerca, la speculazione, le dottrine politiche per ciò non debbono – non possono a sé permettere – di arrestar-si.
([15]) G. FALSITTA, op. cit., p. 66, ove – al solito acutamente – si argomenta sulla scorta del principio costituzionale della parità di trattamento fiscale, quale esso emerge ex artt. 2, 3 e 53 Cost.. Sulle stesse orme del Falsitta vedasi R. LUPI, op. cit., p. 107 ss., secondo cui – al di fuori dei beni oggetto di cessione sussumibili sotto il terzo comma dell’art. 37-bis, decreto accertamento – resterebbe in rerum natura ben poco: per lo più – scrive l’Autore capitolino (a noi assai caro invero) – la cessione, anzitutto e per lo più, di marchi e brevetti.
     Poco “malizioso” – dacché infatti malitia in quest’ultimo Scrittore semper vacat –, e per certi versi troppo (lodevolmente) “puro” ci appare il Lupi. Ché purtroppo tax planners sunt janae ridentes, e infatti già più oltre sono andati, in ciò (non) sentendosi Ulisse nel Canto infernale, forse. Essi hanno, ad esempio, individuato – nel “giusto” contesto comparatistico – altre cose, altri beni, altro agire, contraddistinti da una oggettiva estraneità al 3° comma dell’art. 37-bis.: si pensi a taluni titoli esteri i quali – nel senso di cui alla norma appena richiamata – tra quei titoli ivi mentovati dal legislatore proprio non stanno, dacché non liberamente trasferibili per diritto commerciale della legge del Paese d’emissione (Pese UE, peraltro, non Bahamas o Cayman à la Grisham).
     Del resto, a chi per codeste “ingegnerie” è predisposto – e compulsato dall’ossession de la pecunia che fa, in certo quale modo, creativo pure un tramway – sempre si sono aperti, aurei, i battenti del giubileo fiscale, elusivamente trionfale in contenzioso e/o in amnistia. Ora non più – diciamo noi: l’art. 37-bis non è omnicomprensiva in prassi avallata, e soltanto la neo-giurisprudenza della Suprema Corte – in tema di elusione fiscale -, quale ristà dall’autunno del 2005, pone fine al risparmio fiscale come fine unico o prevalente – pone fine all’aggiramento della norma anti-aggiramento.
     Et alors – disons nous aussi – les jeux sont fait. Ne quittez pas, ne quittez pas. Restez. Il faut seulement devenir des hommes – pas plus des dindons – au fond.     
 
 
([16] ) P. SYLOS LABINI, op.cit. , p. 66.
 
([17] ) Dell’immane opus mazziniano, ci limitiamo qui a segnalare due recenti antologie: MAZZINI, Opere politiche, a cura di Grandi e Comba, Torino, sec. ed., 2005; ID., ne I Classici del Pensiero Italiano, a cura di Della Peruta, Firenze e Milano, 2006.
Una sintesi dialettica tra il volo mazziniano e la lama devastante di Marx sarebbe – forse – l’Assoluto del saggismo politico.
([18] ) Cfr. GAVAZZENI, Introduzione a U. FOSCOLO, ne I Classici del Pensiero Italiano, a cura di Gavazzeni, Milano-Napoli, 2006, p. XXI, ove si ricorda come fu il Mazzini in primis a trs-mettere e sottolineare ai postumi l’altezza del poeta, retore e giurista di Zante.
 
 
([19]) Nell’ampia bibliografia severiniana, qui ci limitiamo a far menzione di: SEVERINO, La struttura originaria, Milano,, 1981; ID. Essenza del nichilismo, Milano, 1995; ID., Fondamento della contraddizione, Milano,, 2005; ID, Tautotes, Milano, 1995.
 
 

Giuliani Federico Maria

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