Successioni di leggi penali nel tempo: principio di irretroattività

Redazione 13/12/18
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L’art. 25 della Costituzione sancisce il principio di irretroattività della legge penale, in forza del quale è fatto divieto di applicazione delle norme di legge che prevedano illeciti penali a fatti posti in essere prima della loro introduzione. Il principio ha natura assoluta e inderogabile.
La materia della successione di leggi penali nel tempo trova disciplina a livello di legge ordinaria all’art. 2 c.p.

L’art. 2 c.p.

Detta disposizione prevede tre distinte ipotesi di successioni di norme: – la nuova incriminazione (co. 1),
- l’abolizione di incriminazione (co. 2),
- la successione di leggi meramente modificatrici (co. 3 e 4). Il primo comma dell’art. 2 c.p., ribadendo quanto previsto dall’art. 25, co. 2, Cost., esclude che la nuova incriminazione possa operare retroattivamente. La previsione in esame preclude anche la possibilità di reprimere penalmente un fatto commesso dopo l’abrogazione o la perdita di efficacia della norma incriminatrice (c.d. divieto di ultrattività della legge penale). Lo stesso principio è sancito dall’art. 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e dall’art. 9, L. 24 novembre 1981, n. 689, in relazione all’illecito amministrativo.

Occorre precisare che si considera sfavorevole, oltre alla norma che introduce un nuovo precetto, anche quella che, modificando i tratti di una fattispecie già esistente, determini la punizione di comportamenti prima ritenuti leciti, o un trattamento sanzionatorio più severo per un fatto già preveduto dalla legge come reato. Il secondo e il quarto comma dell’art. 2 c.p. prevedono, invece, espressamente la retroattività della legge più favorevole. Il principio di retroattività della lex mitior, pur non indicato espressamente dall’art. 25, co. 2, Cost., si ritiene implicitamente contemplato dalla stessa Costituzione agli articoli 3 e 117 (principi di uguaglianza, ragionevolezza e giusto processo).
Il secondo comma dell’articolo in esame disciplina l’abolizione di incriminazioni preesistenti, o di una norma extrapenale integratrice del precetto (c.d. abolitio criminis). Tale fenomeno può investire tutto il precetto o solo una parte di esso. Si potrà così avere un’abolizione totale o parziale, a seconda che divenga lecito il fatto nel suo insieme, o solo una parte di esso.

L’abolitio criminis

Alla luce di tale ricostruzione va ricondotta ad una ipotesi di abolitio criminis anche l’introduzione di una nuova causa di giustificazione, posto che le scriminanti fanno venire meno l’illiceità stessa del fatto realizzato che viene ad essere tipico, ma non antigiuridico. Tra le principali depenalizzazioni si segnalano quelle operata dalla legge n. 689 del 1981, dal d.lgs. n. 507 del 1999 e dai Decreti legislativi nn. 7 e 8 del 2016.

La disciplina dettata dal secondo comma dell’art. 2 c.p. sancisce la c.d. ultrattività dell’abolitio criminis: della nuova legge che disponga l’abolizione del precetto penale potrà usufruire anche chi sia stato già condannato con sentenza irrevocabile. Specificamente, la previsione deve essere letta in combinato disposto con l’art. 673 c.p.p., che prevede la revoca della sentenza di condanna. Oltre a cessare l’esecuzione della pena, vengono meno anche i c.d. effetti penali, intesi quale l’insieme delle conseguenze pregiudizievoli che discendono dallo status di condannato. Nel caso in cui l’abolitio dipenda da una dichiarazione di incostituzionalità, ai sensi dell’art. 30, ult. co., l. n. 87 del 1953, si producono effetti analoghi a quelli stabiliti dall’art. 2, co. 2, c.p. (“Quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale è stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali.”).

Lex mitior

L’art. 2, co. 4, c.p. disciplina la successione di una norma penale modificativa, nella quale viene data nuova disciplina ad un fatto che resta configurato come reato. In tal caso si applica la previsione le cui disposizioni siano più favorevoli al reo, salvo che sia già intervenuta sentenza irrevocabile: a differenza dell’ipotesi di cui al comma 2, infatti, la retroattività della legge semplicemente modificativa incontra un limite invalicabile nel giudicato. E’ opportuno precisare che l’art. 2, comma 4, c.p. si riferisce alla “legge” più favorevole nel suo complesso, con applicazione integrale della nuova o della vecchia disciplina. Secondo costante giurisprudenza il giudice non potrà scegliere gli aspetti più favorevoli della nuova legge (es. intervenuta prescrizione) e quelli più favorevoli della vecchia disciplina (es. minimi edittali inferiori), applicandoli congiuntamente, in quanto si finirebbe per dare vita ad una terza legge inesistente, mai approvata dal legislatore e dunque contraria al principio di legalità.
Tra le “disposizioni più favorevoli al reo” possono essere ricomprese tutte le norme che apportino modifiche migliorative per quest’ultimo, secondo il criterio della valutazione in concreto: sarà più favorevole la legge il cui complesso di disposizioni determini un risultato meno rigoroso per quello specifico autore, imputato di quel reato, in quella specifica e concreta situazione processuale.

Come ribadito dalla Corte Costituzionale, 19 Luglio 2011, n. 236, occorre fare riferimento a tutte le modifiche che migliorino la disciplina di una fattispecie criminosa, ivi comprese quelle relative alla prescrizione del reato, stante la natura sostanziale della prescrizione, in quanto il decorso del tempo non si limita ad estinguere l’azione penale, ma elimina la punibilità in sé e per sé, nel senso che costituisce una causa di rinuncia totale dello Stato alla potestà punitiva.

Non è sempre agevole distinguere le ipotesi di abolitio criminis di cui al co. 2 (espunzione di precedenti fattispecie criminose dall’ordinamento giuridico), da quelle di abrogatio sine abolitione di cui al co. 4 (successione di norme penali che non cancellano ipotesi criminose preesistenti, né ne introducono di nuove, ma disciplinano diversamente fatti già costituenti reato e destinati ancora ad esserlo). L’indirizzo più accreditato ricorre ad un confronto strutturale tra fattispecie – c.d. tesi della specialità in astratto – che muove da un confronto tra le due fattispecie astrattamente considerate: se intercorre una relazione di genere a specie, si avrà una successione modificativa di leggi penali nel tempo, ossia un’abrogatio sine abolitione.

Nell’ambito del rapporto di specialità, dottrina e giurisprudenza distinguono la specialità per specificazione, nella quale la norma penale successiva si limita a descrivere un fatto che contiene gli identici elementi costitutivi della fattispecie generale, con specificazione di uno di quegli elementi, e la specialità per aggiunta, nella quale la norma successiva speciale presenta, oltre a tutti gli elementi della fattispecie generale, un elemento aggiuntivo.
Nella specialità per specificazione, se è la norma successiva ad essere speciale, si registra un fenomeno di limitata continuità e di parziale abolitio, in relazione agli elementi non richiamati dalla nuova disposizione. Viceversa, allorché i fatti siano punibili anche alla stregua della norma sopravvenuta, si è in presenza di un’ipotesi di limitata continuità, con conseguente applicazione della disciplina dettata dall’art. 2, co. 4, c.p.

Norme extrapenali integratrici

La modificazione di una disciplina di legge penale può avvenire non solo in via immediata, mediante riformulazione del precetto, ma anche in via mediata, per successione delle norme extrapenali integratrici (siano esse una norma giuridica, o un elemento extragiuridico richiamato dalla norma penale incriminatrice). Nel caso in cui il precetto della fattispecie incriminatrice sia integrato dalla norma non incriminatrice extrapenale, in caso di mutamento di quest’ultima, saranno applicabili le regole poste dal secondo e dal quarto comma dell’articolo 2 c.p.
Ai sensi dell’art. 2, co. 5, c.p., il principio della retroattività in senso più favorevole al reo è inoperante rispetto alle leggi temporanee ed alle leggi eccezionali.
Si definiscono eccezionali quelle leggi il cui ambito di operatività temporale è segnato dal persistere di uno stato di fatto caratterizzato da accadimenti fuori dall’ordinario (guerre, epidemie); sono temporanee le leggi rispetto alle quali è lo stesso legislatore a prefissare un termine di durata.

Da ultimo, l’art. 2, co. 6, c.p. disciplina i casi di decadenza e di mancata verifica di un decreto- legge e nel caso di un decreto-legge convertito in legge con emendamenti. L’art. 77 Cost. ha posto il principio della cessazione “ex tunc” (da allora) degli effetti del decreto non convertito. Ne consegue che nell’ipotesi di decreti non convertiti che eventualmente introducano, modifichino o abroghino fattispecie penali preesistenti, viene meno la possibilità stessa di configurare una successione di leggi penali nel tempo: il fenomeno della successione presuppone la valida applicazione della legge preesistente al fatto, mentre la caducazione con efficacia ex tunc di un decreto-legge ne impedirebbe l’applicazione anche a fatti commessi sotto la sua vigenza.
La ritenuta esclusione del fenomeno successorio, se da un lato appare coerente col nuovo disposto dell’art. 77 Cost., suscita dall’altro riserve per gli effetti in malam partem che possono derivarne nel caso in cui i decreti non convertiti contengano disposizioni più favorevoli al reo. Sul punto è intervenuta la Corte Costituzionale (sentenza n. 51 del 1985) che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del sesto comma dell’art. 2 c.p., nella parte in cui rende applicabili alle ipotesi da esso previste le disposizioni contenute nel secondo e quarto comma dello stesso articolo. Ne consegue l’impossibilità di applicare retroattivamente il decreto non convertito che contenga disposizioni più favorevoli al reo, o abroghi una disposizione previgente, ai fatti pregressi alla sua entrata in vigore. La Corte ha lasciato irrisolta la questione in ordine ai fatti concomitanti, ossia commessi durante il periodo di vigenza del decreto: per essi, l’orientamento dominante riconosce la piena operatività del decreto-legge in quanto una diversa conclusione comporterebbe una deroga al principio di irretroattività della legge penale incriminatrice più sfavorevole in violazione dell’art. 25, co. 2, Cost.

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