Diffonde una sentenza penale tra i vicini: è trattamento di dati giudiziari

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La diffusione di copia cartacea di una sentenza penale tra i vicini integra una condotta di trattamento dei dati giudiziari dell’imputato

 Indice

  1. I fatti 
  2. La decisione della corte

1. I fatti

Una persona era stata condannata nei due gradi di merito di un procedimento penale per aver violato gli articoli del codice privacy (versione precedente alle modifiche del 2018) che incriminavano le condotte di trattamento dei dati giudiziari dell’interessato, in quanto aveva comunicato e diffuso ripetutamente delle copie cartacee di una Sentenza penale emessa nel 2013 e altri due provvedimenti amministrativi tra le persone che vivevano nelle case vicine a quelle della persona imputata nel procedimento penale definito nel 2013.

In particolare, in detto procedimento penale definito nel 2013, l’imputato era stato condannato per abuso edilizio, mentre i due provvedimenti amministrativi avevano ad oggetto il rigetto dell’istanza di condono edilizio presentata da detto imputato e l’ordine di demolizione delle opere edilizie abusive.

I giudici di merito avevano, quindi, ritenuto che la diffusione di tali documenti costituiva illecito penale, in quanto sostanziava un trattamento di dati giudiziari dell’interessato (cioè il soggetto imputato nel procedimento penale conclusosi nel 2013), in quanto idonei (la sentenza del 2013) a rilevare la sua qualità di imputato e la condanna penale inflitta e (i due provvedimenti amministrativi) dati personali di soggetto identificato.

Conseguentemente avevano condannato il soggetto che aveva diffuso tali documenti ad un anno e tre mesi di reclusione.

Quest’ultimo, quindi, proponeva Ricorso in cassazione avverso la sentenza di condanna, sostenendo in primo luogo che i giudici di merito non avessero correttamente applicato l’art. 167 del codice privacy in quanto i documenti diffusi erano atti pubblici liberamente consultabili (la sentenza del 2013, poiché ormai divenuta definitiva e gli atti amministrativi poiché pubblicati nell’albo pretorio del Comune) e pertanto la condotta del ricorrente non avrebbe configurato un trattamento di dati protetti.

In particolare, il ricorrente evidenziava che l’art. 52 del codice privacy (vecchia versione) prevedeva la facoltà per l’interessato di chiedere l’omissione dei propri dati personali contenuti nella Sentenza, prima della sua irrevocabilità, e che, in mancanza dell’esercizio di tale facoltà, detto articolo permetteva la diffusione in ogni forma del contenuto anche integrale di sentenze e provvedimenti giudiziari dopo la loro definitività.

In secondo luogo, per quanto qui di interesse, il ricorrente rilevava che la modifica del codice privacy avvenuta nel 2018, aveva cambiato la condotta penalmente rilevante prevista dall’art. 167, comma 1, e quella prevista dal comma 2, determinando una abolizione dei due reati per i quali il ricorrente era stato condannato.


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2. La decisione della Corte

Preliminarmente, la Corte di Cassazione ha esaminato le due versioni della fattispecie penalmente rilevante prevista dalla suddetta disposizione normativa. Sulla base della valutazione delle due versioni, la Corte Suprema ha ritenuto che sulla base del quadro normativo dell’epoca in cui furono poste in essere le condotte di diffusione della sentenza e dei provvedimenti amministrativi, il Tribunale aveva correttamente condannato il ricorrente per la divulgazione di detti documenti, per il fatto che la diffusione della sentenza sostanziava un trattamento di dati personali non consentito.

Secondo gli Ermellini, infatti, l’art. 27 del codice privacy (vecchia versione) stabiliva che i dati giudiziari possono essere trattati dai privati solo se tale trattamento è autorizzato da una espressa previsione di legge o da un provvedimento del Garante privacy in cui sono indicate le finalità di interesse pubblico del trattamento e quali sono i trattamenti ammessi. Nel caso di specie, invece, non vi era stata tale autorizzazione.

I giudici supremi hanno poi ritenuto che l’argomentazione difensiva del ricorrente a sostegno del primo motivo di ricorso non fosse fondata. Infatti, la disciplina prevista dall’art. 52 del codice privacy, che permette la diffusione del contenuto integrale delle sentenze e di altri atti giurisdizionali, è limitata soltanto all’attività di informazione giuridica su riviste giuridiche, supporti elettronici o mediante reti di comunicazione elettronica: cioè all’attività di riproduzione e diffusione di tali documenti per finalità di informazione giuridica oppure di studio e ricerca in campo giuridico. Invece, è da escludersi che diffusioni diverse da quella di cui sopra possano essere ritenute lecite ai sensi dell’art. 52 del codice privacy e pertanto per la loro liceità è necessario il rispetto delle condizioni previste dall’art. 27 del codice privacy.

Con riferimento al secondo motivo di ricorso, il Supremo Collegio ha ritenuto che le due fattispecie previste dall’art. 167, comma 1 e comma 2, del codice privacy, anche dopo la modifica del 2018, sono sostanzialmente rimaste invariate nei loro elementi costitutivi: secondo la Corte, infatti, vi è una continuità tra la vecchia versione della disposizione e quella nuova, continuando a essere incriminate le condotte che si sostanziano in un trattamento di dati personali relativi a condanne o a reati, allorquando non sussistono le condizioni di liceità del trattamento medesimo previste dalla legge.

Nonostante tale conclusione, però, i giudici hanno ritenuto che il secondo motivo di impugnazione, relativo alla abrogazione della fattispecie penale avvenuta nel 2018 (seppure infondato), abbia comunque implicato una verifica della perdurante illeicità penale delle condotte addebitate al ricorrente anche successivamente alla modifica legislativa suddetta. In considerazione di ciò, secondo i giudici, si è legittimamente costituita una valida impugnazione della sentenza di appello e ciò ha fatto proseguire i termini di prescrizione del reato.

Pertanto, posto che nel caso di specie, le condotte per cui il ricorrente era stato condannato erano state poste in essere più di 7 anni e mezzo prima, i giudici hanno rilevato la prescrizione dei due reati contestati e conseguentemente hanno annullato la sentenza senza rinvio.

Tuttavia, in considerazione del fatto che la condotta realizzata dal ricorrente è comunque stata ritenuta illecita, in quanto in violazione delle norme del codice privacy, come sopra richiamate, i giudici hanno rigettato il ricorso nella parte relativa agli effetti civili della decisione.

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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