La sentenza di applicazione della pena che abbia omesso di disporre, o di valutare, l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero per uno dei reati indicati nell’art. 86 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, può essere impugnata dal p.m. con ricorso per Cassazione

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(Annullamento senza rinvio la sentenza impugnata, limitatamente alla valutazione dell’applicabilità della misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato)

(Riferimento normativo: d.P.R., 9 ottobre 1990, n. 309, art. 86).

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Il fatto

Il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Bergamo, con sentenza di patteggiamento del 4 luglio 2018, applicava a E. G. T. la pena di anni 3 e mesi 9 di reclusione ed C 14.000,00 di multa, relativamente ai reati di cui all’art. 73, comma 1, T.U. stup. unificati con la continuazione; disponendo altresì la confisca, con la distruzione della droga in sequestro.

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

La Procura Generale della Repubblica presso la Corte di Appello di Brescia proponeva ricorso per cassazione per il seguente motivo: a) violazione di legge (art. 86, T.U. stup.) per l’omessa applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione non avendo il giudice ordinato l’espulsione dell’imputato dal territorio dello Stato a pena espiata, come espressamente previsto dalla norma (art. 86, T.U. stup.), né motivato sull’assenza di pericolosità che avrebbe legittimato l’omessa applicazione della misura di sicurezza pur con una condanna a pena superiore ai tre anni, a fronte del fatto che l’imputato si trova illegalmente sul territorio dello Stato, senza occupazione, e pienamente inserito nel circuito dello spaccio di diversi stupefacenti.

Proponeva a sua volta ricorso in Cassazione anche l’imputato, tramite il difensore, con due distinti motivi di ricorso, ossia: a) violazione di legge, relativamente all’art. 73, quinto comma, T.U. stup., per omessa valutazione della qualificazione del fatto nell’ipotesi autonoma di lieve entità dato che solo uno degli involucri contenenti lo stupefacente era stato sottoposto ad analisi qualitative mentre per gli altri si era solo presunto che fosse della stessa natura e purezza di quello analizzato e dunque, in mancanza di una certezza sulla qualità della sostanza stupefacente, e del suo principio attivo, ad avviso del ricorrente, doveva qualificarsi il fatto ex art. 73, quinto comma, T.U. stup.; b) mancanza della motivazione relativamente alla sussistenza di cause di non punibilità ex art. 129, cod. proc. pen..

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il Supremo Consesso riteneva inammissibile il ricorso formulato nell’interesse dell’imputato in quanto proposto nei casi non previsti dalla legge in quanto, ai sensi dell’art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen. «Il Pubblico Ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di patteggiamento solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza», e di conseguenza, non risultava proponibile un ricorso per il vizio di motivazione, relativamente alla omessa valutazione delle ipotesi di cui all’art. 129, cod. proc. pen..

Oltre a ciò, si faceva altresì presente, per l’erronea qualificazione del fatto, come dovesse ribadirsi la giurisprudenza della Cassazione che richiede la presenza di un errore manifesto o palesemente rilevabile essendo stato postulato quanto sussegue: «In tema di patteggiamento, l’erronea qualificazione giuridica del fatto ritenuto in sentenza può costituire motivo di ricorso per cassazione, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., come modificato dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, solo quando detta qualificazione risulti, con indiscussa immediatezza, palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione o sia frutto di un errore manifesto» (Sez. 6, n. 2721 del 08/01/2018 – dep. 22/01/2018).

Invece, pur in presenza di questo orientamento nomofilattico, gli ermellini rilevavano come il ricorso sul punto fosse generico in quanto si limitava a prospettare una errata qualificazione del fatto senza nulla aggiungere, se non genericamente l’assenza di analisi chimiche di tutta la sostanza.

Ciò posto, i giudici di piazza Cavour osservavano che, ai fini dell’applicazione della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, è necessario non solo il previo accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale del condannato, in conformità all’art. 8 CEDU in relazione all’art. 117 Cost., ma anche l’esame comparativo della condizione familiare dell’imputato, ove ritualmente prospettata, con gli altri criteri di valutazione indicati dall’art. 133 cod. pen., in una prospettiva di bilanciamento tra interesse generale alla sicurezza sociale ed interesse del singolo alla vita familiare (Sez. 4, n. 52137 del 17/10/2017 – dep. 15/11/2017) rilevando però al contempo che la discrezionalità della misura di sicurezza, conseguente alla considerazione in concreto della pericolosità sociale del reo, non significa assenza assoluta di valutazione del caso concreto da parte del giudice del patteggiamento.

Si registravano a tal proposito una diversità di pronunciamenti della Suprema Corte dopo la riforma della norma con la legge 103 del 2017 che ha introdotto il citato art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen.; in particolare, si denotava come un primo orientamento fosse stato espresso da Sez. 3, n. 45559 del 07/03/2018 – dep. 10/10/2018, nei seguenti termini: «La sentenza di applicazione della pena che abbia omesso di disporre l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero per uno dei reati indicati nell’art. 86 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 non può essere impugnata dal p.m. con ricorso per cassazione, ostandovi la previsione dell’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen., introdotta dall’art.1, comma 50, della legge 23 giugno 2017, n. 103, che individua ipotesi tassative per la proponibilità di detta impugnazione, tra le quali l’effettiva adozione di una misura di sicurezza» (nello stesso senso, S. 6 del 7 febbraio 2019, n. 6136).

Dunque, per questa giurisprudenza, rilevava la Corte nella pronuncia qui in commento, la misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero, anche se non disposta nella sentenza ex art. 444, cod. proc. pen., e in assenza assoluta di motivazione sulla pericolosità sociale, non rientra nell’ipotesi di possibile ricorso in Cassazione, come previsto dalla norma (art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen.: «all’illegalità della pena o della misura di sicurezza»).

Chiarito ciò, a questo punto della disamina, i giudici di legittimità ordinaria mettevano in risalto il fatto che il quesito al quale bisogna rispondere fosse quello della considerazione, o no, di una misura di sicurezza illegale nelle ipotesi di assoluta mancanza di motivazione sulla sussistenza dei presupposti della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero prevista dalla citata disposizione del T. U. stup. poiché se è vero che la Cassazione ha ritenuto la misura di sicurezza diversa dalla pena nel senso che è «”convenzionalmente” legittima l’applicazione retroattiva delle misure di prevenzione patrimoniale, con riferimento a fatti anteriori all’entrata in vigore delle norme che le disciplinano, poichè le stesse, in quanto connotate da natura preventiva e non sanzionatoria, non sono riconducibili alla nozione di “pena” di cui all’art. 7 CEDU» (Sez. 2, n. 30938 del 10/06/2015 – dep. 16/07/2015), è altrettanto vero che ciò non esclude che, anche, la misura di sicurezza deve ritenersi sottoposta alla legalità della sua irrogazione ex art. 25 della Costituzione e 199, cod. proc. pen., al pari della pena.

Precisato questo, veniva altresì chiarito che per pena illegale comunque deve intendersi quella che si risolve in una pena diversa, per specie, da quella stabilita dalla legge, ovvero quantificata in misura inferiore o superiore ai relativi limiti edittali essendo stato postulato in sede nomofilattica che non «configura un’ipotesi di pena illegale “ab origine” la sanzione che sia complessivamente legittima ma determinata secondo un percorso argomentativo viziato (nella specie: erroneo aumento della pena per le circostanze aggravanti, pur muovendo da una pena base corretta), sicchè, in tal caso, la relativa questione non è rilevabile d’ufficio dalla Corte di cassazione in presenza di ricorso inammissibile» (Sez. 5, n. 8639 del 20/01/2016 – dep. 02/03/2016).

Da ciò se ne faceva conseguire che, nel concetto di misura di sicurezza illegale, così come per la pena illegale, deve rientrare anche l’omessa applicazione (e l’omessa motivazione in assoluto sulla pericolosità) della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero prevista dalla legge (art. 86, T.U. stup.) atteso che il trattamento sanzionatorio per il caso concreto sarebbe diverso da quello stabilito dalla legge, relativamente all’importante misura di sicurezza, espressamente prevista per la condanna dall’art. 86, T.U. stup..

Gli ermellini, alla stregua di quanto appena esposto, ne facevano conseguire, come logico corollario, che l’omessa valutazione della pericolosità e l’omessa applicazione della misura di sicurezza (conseguente alla valutazione di pericolosità) risultavano certamente una violazione “della pena legalmente prevista” dalla norma (anche la misura di sicurezza rientra nella previsione “sanzionatoria” prevista dalla norma) in quanto la pena irrogata, senza la misura dì sicurezza, risulterebbe illegale, cioè non conforme alla previsione normativa per i fatti giudicati.

Si evidenziava a tal riguardo che, nel procedimento di applicazione di pena su richiesta, le parti non possono vincolare il giudice con un accordo avente ad oggetto anche le pene accessorie, le misure di sicurezza o la confisca, essendo dette misure fuori dalla loro disponibilità e, pertanto,, nel caso in cui il consenso si riferisca anche ad esse, il giudice non è obbligato a recepire o non recepire per intero l’accordo, rimanendo vincolato soltanto ai punti concordati riguardanti elementi nella disponibilità delle parti (vedi Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015, dep. 2016, omissis, Rv. 265823/01; Sez. 5, n. 1154 del 22/03/2013, dep. 2014, omissis, Rv. 258819/01; Sez. 2, n. 19945 del 19/04/2012) fermo restando che il fatto che il legislatore abbia sottratto all’accordo delle parti le suddette misure – confisca e misure di sicurezza -, non significa che le parti, nell’ambito della loro discrezionalità ed autonomia, non possano inserire, nell’accordo sul trattamento sanzionatorio, anche un accordo sulle suddette misure ma tuttavia, proprio perché la legge è categorica nello stabilire che le suddette misure non rientrano nella disponibilità delle parti, essendone riservata l’applicazione al giudice, è ovvio che un eventuale accordo potrebbe avere solo una semplice funzione di orientamento nella decisione del giudice il quale, quindi, può tenerne conto o no, avendo solo l’obbligo di motivare sulla decisione adottata (in questi termini, Sez. 2, n. 19945 del 2012 e, Sez. 5, n. 1154 del 2014).

Ciò posto, a questo punto della sentenza, gli ermellini affrontavano un’altra tematica, vale a dire quale debba essere il significato da attribuire alla nozione di illegalità della misura di sicurezza.

Nell’esaminare tale problematica, si evidenziava prima di tutto come la nozione di misura di sicurezza illegale non risultasse analizzata efficacemente in dottrina e giurisprudenza stante il fatto che se la nozione di pena illegale, come visto e anche ritenuto dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018, e Sez. U, n. 33040 del 26/02/2015, omissis), attiene a quella pena che, per specie ovvero per quantità, non corrisponde a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice in questione, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio come delineato dal codice penale, o che, comunque, è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su una cornice edittale inapplicabile, perché dichiarata costituzionalmente illegittima o perché individuata in violazione del principio di irretroattività della legge pena più sfavorevole mentre, invece, ad avviso del Collegio, la nozione di misura di sicurezza illegale non sembra essere determinabile, almeno in linea generale, utilizzando i parametri cui si fa riferimento per individuare il significato della nozione di pena illegale.

Si denotava in particolare come, nei casi di confisca a norma dell’art. 240 cod. pen. e di confisca in casi particolari ex art. 240-bis cod. pen., ma anche, ad esempio, di espulsione od allontanamento dello straniero dallo Stato, sembrasse davvero difficile ipotizzare una misura che, per specie ovvero per quantità, non corrisponda a quella astrattamente prevista, o che è stata determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su parametri edittali inapplicabili atteso che la nozione di misura di sicurezza illegale sembra piuttosto far riferimento alle misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge, cioè dagli artt. 25, secondo comma, Cost., e 199 cod. pen.; difatti, l’art. 25 della Costituzione prevede quanto sussegue: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza se non nei casi previsti dalla legge» mentre l’art. 199, cod. pen. dispone quanto segue: «Nessuno può essere sottoposto a misure di sicurezza che non siano espressamente stabilite dalla legge e fuori dei casi dalla legge stessa preveduti».

Del resto, osservava sempre la Corte in tale decisione, che il controllo sulla legalità della misura di sicurezza abbia una proiezione diversa rispetto a quello sulla legalità della pena è coerente anche con la diversità dei presupposti normativamente previsti per l’applicazione della prima rispetto alla seconda posto che, mentre la pena segue all’accertamento del reato, la misura di sicurezza presuppone sempre una valutazione ulteriore rispetto a quella relativa alla sussistenza della fattispecie di reato presupposta quale può essere, ad esempio, la tematica riguardante  l’applicabilità delle misure di sicurezza personale visto che non è mai sufficiente la verifica della commissione di un fatto di reato attribuibile al soggetto, ma occorre anche l’accertamento della pericolosità sociale del medesimo, e ciò rileva anche per l’applicazione della misura di sicurezza prevista dall’art. 86, T.U. stup.

Si sottolineava oltre tutto come la nozione di misura di sicurezza illegale, quale categoria concernente le misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge, consenta anche di assicurare il rispetto del principio costituzionale della necessità del ricorso in Cassazione «per violazione di legge» contro le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale, fissato dall’art. 111, settimo comma, Costituzione posto che la natura del giudizio di Cassazione, come «rimedio costituzionalmente imposto» nei confronti di tutte le sentenze ed i provvedimenti che riguardano la libertà personale previsto dall’art. 111, comma settimo, Costituzione, impone di verificare se l’interpretazione della non ricorribilità in Cassazione nelle ipotesi di sentenza di patteggiamento che abbia omesso di motivare sulla sussistenza dei presupposti di una misura di sicurezza (o anche della confisca) o al contrario abbia applicato una misura di sicurezza fuori dai casi previsti dalla legge (due facce della stessa medaglia) sia costituzionalmente corretta.

Difatti: incidendo la misura di sicurezza in modo concreto e diretto sulla libertà personale un sacrificio del ricorso per cassazione (ritenuto non ammissibile ex art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen.) in ragione e in contropartita della celerità e del premio (sconto di pena) per il rito del patteggiamento risulterebbe certamente incostituzionale e dunque l’unica soluzione costituzionalmente orientata risulta essere quella di ritenere possibile il ricorso in Cassazione ex art. 111, comma 7, Costituzione nelle ipotesi di omessa applicazione (identicamente di omessa valutazione per l’applicazione) o di illegittima applicazione con una sentenza di patteggiamento della misura di sicurezza tenuto conto altresì del fatto che, da un lato, l’altra interpretazione dell’art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen. risulterebbe palesemente incostituzionale in quanto nessun controllo sarebbe possibile in sede di legittimità su una misura di sicurezza certamente non concordata dalle parti, ma applicata dal Giudice (o non applicata o anche non valutata nella sussistenza dei presupposti legittimanti la possibile applicazione), dall’altro, l’applicazione (anche provvisoria) di una misura di sicurezza incide sulla libertà personale, al pari di una misura cautelare personale, come espressamente ritenuto dalla Corte di Cassazione nel seguente modo: «Ai fini dell’applicazione provvisoria di una misura di sicurezza, una volta accertata la persistente pericolosità del soggetto, non è necessaria la prova piena del fatto, essendo sufficienti i gravi indizi della sua sussistenza, atteso l’indubbio parallelismo tra applicazione provvisoria di una misura di sicurezza e applicazione di misura cautelare personale, come evincibile dal diretto riferimento dell’art. 313 cod. proc. pen. all’art. 292 cod. proc. pen., in relazione alle modalità di valutazione ed applicazione della misura, e dal fatto che il citato art. 313, al terzo comma, equipara, ai fini dell’impugnazione, la misura prevista all’art. 312 cod. proc. pen. alla custodia cautelare» (Sez. 5, n. 4144 del 03/10/2000 – dep. 24/11/2000).

Tal che se ne faceva discendere come l’omessa applicazione della misura di sicurezza (o anche l’omessa valutazione sulla sussistenza delle situazioni concrete per la sua applicazione) dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, anche se non risulta automatica, deve ritenersi illegale (vedi nello stesso senso Sez. 3, n. 4252 depositata il 29 gennaio 2019).

Si evidenziava in conclusione, dopo aver fatto presente che il Procuratore Generale ricorrente aveva evidenziato, in concreto nel ricorso in Cassazione, alcuni dati significativi del caso in giudizio, ovvero la condizione dell’imputato quale straniero irregolarmente presente in Italia, senza occupazione e pienamente inserito nel traffico di stupefacenti di varia qualità, come l’applicazione della specifica misura di sicurezza dell’espulsione dell’imputato dal territorio dello Stato a pena espiata, di cui all’art. 86, T.U. stup., quale misura efficace per la prevenzione specifica e generale dei reati, dovesse essere adeguatamente valutata dal giudice del patteggiamento, in assenza di valutazione e di motivazione sul punto è possibile il ricorso in Cassazione.

La Corte di Cassazione, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva a postulare il seguente principio di diritto: “La sentenza di applicazione della pena che abbia omesso di disporre, o di valutare, l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero per uno dei reati indicati nell’art. 86 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 può essere impugnata dal p.m. con ricorso per cassazione, non ostandovi la previsione dell’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen., introdotta dall’art. 1, comma 50, della legge 23 giugno 2017, n. 103, che individua ipotesi tassative per la proponibilità di detta impugnazione, tra le quali l’illegalità della misura di sicurezza che deve ritenersi sussistente quando nessuna analisi del giudice del patteggiamento è stata effettuata sulla sussistenza o no delle condizioni di applicabilità della misura di sicurezza, l’interpretazione diversa dell’art. 448, comma 2 bis, cod. proc. pen. sarebbe palesemente incostituzionale in quanto non consentirebbe il ricorso in Cassazione come previsto dall’art. 111, Cost. per le decisioni sulla libertà personale”.

Una volta enunciato questo criterio ermeneutico, il Supremo Consesso disponeva, per un verso, l’annullamento senza rinvio della sentenza impugnata, limitatamente alla valutazione dell’applicabilità della misura di sicurezza dell’espulsione dal territorio dello Stato ex art. 86 d.P.R. 309/1990, per altro verso, la trasmissione degli atti al Tribunale di Bergamo per il prosieguo.

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Conclusioni

La sentenza in commento è sicuramente condivisibile in quanto il frutto di un articolato e ben ponderato ragionamento giuridico.

Infatti, dopo aver dato risposta affermativa al quesito se una misura di sicurezza debba considerarsi illegale nelle ipotesi di assoluta mancanza di motivazione sulla sussistenza dei presupposti della misura di sicurezza dell’espulsione dello straniero prevista dalla citata disposizione del T. U. stup. e dopo aver configurato del pari illegale l’omessa applicazione della misura di sicurezza (o anche l’omessa valutazione sulla sussistenza delle situazioni concrete per la sua applicazione) dell’espulsione dello straniero ex art. 86 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, per la avvenuta commissione di reati in materia di stupefacenti, gli ermellini giungevano ad asserire che l’applicazione della specifica misura di sicurezza dell’espulsione dell’imputato dal territorio dello Stato a pena espiata, di cui all’art. 86, T.U. stup., quale misura efficace per la prevenzione specifica e generale dei reati, dovesse essere adeguatamente valutata dal giudice del patteggiamento, e dunque in assenza di valutazione e di motivazione sul punto è possibile il ricorso in Cassazione, e precisamente, può essere impugnata dal p.m. con ricorso per cassazione la sentenza di applicazione della pena che abbia omesso di disporre, o di valutare, l’espulsione dal territorio dello Stato dello straniero per uno dei reati indicati nell’art. 86 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.

Pertanto, alla stregua di quanto enunciato in questa pronuncia, ben può l’autorità requirente ricorrere per cassazione in siffatta ipotesi.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in tale decisione, di conseguenza, si ripete, non può che essere positivo.

 

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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