Risarcimento del danno da infortunio in piscina

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Il caso

Tizio, con atto di citazione conveniva in giudizio Caio, titolare di un’azienda di agriturismo, per sentirlo condannare, ai sensi dell’art.2050 c.c. o dell’art. 2043 c.c., al risarcimento dei danni che aveva riportato battendo la testa, in occasione di un tuffo, contro il pavimento della piscina della struttura di Caio, la cui profondità era risultata inferiore a quella ordinaria.

Si costituiva in giudizio il convenuto, resistendo alla domanda, osservando – fra l’altro- che nella struttura erano presenti cartelli che vietavano espressamente i tuffi nella piscina e chiamando in causa, per l’eventuale manleva, la relativa compagnia assicurativa.

Il Tribunale di primo grado, previo accertamento della responsabilità del convenuto ai sensi dell’art. 2043 c.c. e, riconosciuto un concorso colposo di Tizio nella misura del 50% alla determinazione dell’evento de quo, condannava Caio al pagamento delle somme in favore di Caio.

Ricorreva, quindi, in secondo grado Caio per ottenere l’integrale riforma della sentenza di cui sopra.

Il Giudice di seconde cure, riformando integralmente la sentenza di primo grado, rigettava la domanda del bagnante Tizio e lo condannava alla restituzione delle somme riscosse nonché al pagamento delle spese del doppio grado in favore del titolare della piscina.

A tal punto, pertanto, ricorreva in Cassazione Tizio con sei differenti motivi: A) nullità della sentenza “per contrasto irriducibile fra affermazioni contenute in motivazione e/o per motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”; B) violazione degli artt. 112, 113 c.p.c. nonché degli artt. 1218 e 2697 c.c. per avere la Corte d’Appello “erroneamente omesso di applicare le norme in tema di responsabilità contrattuale”; C) violazione o falsa applicazione dell’art. 116 c.p.c. per avere la Corte d’Appello “fatto cattivo uso del prudente apprezzamento, con effetti decisivi sulla ricostruzione del fatto e, quindi, sull’applicazione dell’art. 2043 c.c., sancendo in modo logicamente insostenibile ed irragionevole che un tuffo dal bordo di una piscina integri una condotta addirittura tale da doversi considerare, da sola, assorbente ed esclusiva ai fini dell’imputazione della responsabilità, e ciò con considerazione che non trovano riscontro nella realtà di ciò che accade di norma in frangenti simili secondo l’id quod plerumque accidit”; D ed E) violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. con riferimento alla contestazione delle testimonianze e, quindi, dell’attendibilità dei testi,  sui quali la Corte aveva fondato la propria decisione; F) violazione o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. per avere la Corte “abusando del principio di disponibilità delle prove, attribuito rilevanza alla circostanza che non si avesse notizia di incidenti similari per tutto il periodo in cui l’Azienda era rimasta aperta al pubblico, assumendo così illegittimamente ed acriticamente al rango di elemento valutativo un rilievo che non ha mai costituito oggetto di puntuale riscontro in causa”; G) violazione o falsa applicazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione alla condanna relativa al pagamento delle spese di lite in favore della compagnia assicurativa chiamata in causa.

Il dictum della Corte

La suprema Corte, rigettando il ricorso di Tizio, ha accolto la tesi del Giudice di seconde cure secondo cui la responsabilità era imputabile, esclusivamente, a chi si era tuffato.

Ciò in quanto, ribadisce altresì la Corte, a bordo della struttura di proprietà di Caio era stato regolarmente affisso il regolamento d’uso della piscina, il quale, peraltro, diffidava i bagnanti dall’eseguire tuffi o manovre pericolose.

L’incidente, quindi, era da imputarsi esclusivamente all’imprudenza del bagnante Tizio che, con totale spregio delle norme di sicurezza a lui note, si tuffava nella piscina sbattendo la testa.

Giova, inoltre, rammentare alcune specifiche considerazioni anche in relazione al motivo di gravame C), censurato dalla Suprema Corte poiché ritenuto infondato.

La Suprema Corte, infatti, con riferimento alla presunta erroneità nella valutazione delle prove, ha ribadito la corretta valutazione delle prove medesime nella fase di merito, affermando come non si potessero certamente rimettere in gioco nel grado di legittimità nuove prove o testimonianze.

A tal riguardo, quindi, non può che concordarsi nel ritenere che i principi cui al riguardo si è attenuta la Suprema Corte ai fini dell’individuazione della responsabilità extracontrattuale del gestore della piscina siano stati i seguenti.

-predisposizione, da parte del gestore, secondo le comuni regole di prudenza di idonei mezzi a segnalare la profondità dell’acqua nonché di un esplicito cartello per diffidare i bagnati dall’esecuzione di attività pericolose;

-responsabilità del gestore solo ove tale condotta risulti omessa e a seguito della quale andrà valutata l’incidenza causale di tale omissione rispetto all’evento.

In conclusione, quindi, può agevolmente ritenersi che il tuffo in piscina che cagioni al bagnante un incidente in quanto il livello dell’acqua sia più basso di quello presunto, non può determinare automaticamente la responsabilità del titolare della piscina, soprattutto quando vi sia un cartello che espressamente indichi ai bagnanti le modalità di utilizzo della piscina medesima.

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Andrea Ribichesu

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