Dalla sentenza della Corte di Giustizia Europea del 4 luglio 2023 (causa C‑252/21) ai profili social a pagamento. 

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Il problema dei rapporti tra trattamento dati personali da parte dei social network, ed in generale da parte delle società del web e normative nazionali ed europee è quanto mai attuale soprattutto nel più ampio contesto in cui le IA diventano protagoniste della gestione e del trattamento degli stessi.
Il tema è reso ancora più complesso dal fatto che non si è provveduto a una normativa “ex ante” rispetto al fenomeno, ma gli interventi anche regolativi generali sono avvenuti ex post. Ciò ha determinato che il processo normativo non è stato libero, ma sempre condizionato dall’esigenza di bilanciamento tra gli interessi dei cittadini e i diritti in qualche modo “acquisiti di fatto” da parte delle aziende, in un contesto di rapido progresso tecnologico e di processo e di contestuale sostanziale vuoto normativo.
Il quadro non è stato semplificato dalla transnazionalità e transcontinentalità del fenomeno – il primo veramente globale di un’economia soft – che ha messo in evidenza inconguenze e incompatibilità delle regolamentazioni.
Il caso oggetto di commento è esemplificativo della situazione “ad oggi” e di come questa sia destinata ad essere solo uno dei primi passi di un processo di inseguimento in cui la lentezza pubblica non riesce a stare al passo con la rapidità tecnologica e gestionale e decisionale dei soggetti privati.
Di qui la necessità di ripensare con largo anticipo un quadro generale che faccia da cornice di principi normativi entro cui agire.
Alle tematiche del rapporto con le AI abbiamo dedicato il volume “Il nuovo diritto d’autore -La tutela della proprietà intellettuale nell’era dell’intelligenza artificiale

Indice

1.I piani di utenza pagamento


La decisione di Meta – il conglomerato delle attività di social network di Facebook, Instagram,  WhatsApp – di introdurre “piani di utenza a pagamento” svela e chiarisce definitivamente un equivoco a lungo scientemente occultato, e quando impossibile occultarlo, strumentalmente sottostimato e sotto dimensionato, da parte del cyber-utopismo (l’ufficio propaganda della Silicon Valley).
La favola per cui “creiamo applicazioni che vi migliorano la vita” sostanzialmente gratis, e in cambio di qualche “messaggio pubblicitario” da parte di inserzionisti che agiscono come “qualsiasi” altro inerzionista televisivo.
E come spesso accade il prezzo di adeguamento ad una normativa – che arriva sempre dopo che il danno è stato fatto – viene scaricato sugli utenti. 
Ma se scaviamo nella proposta di Meta scopriamo che anche questa formula è elusiva del senso della norma. 
Meta ha deciso che c’è un prezzo da pagare “per proteggere i propri dati” sui social. 
Da novembre 2023 sarà lanciata una versione a pagamento di Facebook e Instagram per tutti quegli utenti che non vogliono vedere usare i loro dati per creare delle pubblicità personalizzate. Chi non vorrà sottoscrivere l’abbonamento mensile potrà comunque continuare a utilizzare i sevizi di Meta gratuitamente, ma visualizzando inserzioni inviate in base ai dati raccolti.
“Crediamo fermamente in una rete internet gratuita supportata dagli annunci e continueremo a offrire l’accesso gratuito ai nostri prodotti e servizi indipendentemente dalle diverse disponibilità economiche. Ci impegniamo a mantenere le informazioni delle persone private e sicure, ai sensi delle nostre normative e del Regolamento Ue sulla protezione dei dati”, si legge in una nota della società fondata da Mark Zuckerberg. 
“Per ottemperare alle normative europee in continua evoluzione stiamo introducendo la possibilità di sottoscrivere un abbonamento in Ue, See e in Svizzera. A novembre, offriremo alle persone che utilizzano Facebook o Instagram che risiedono in queste regioni la possibilità di continuare a utilizzare questi servizi personalizzati gratuitamente con la pubblicità, oppure di sottoscrivere un abbonamento per non visualizzare più le inserzioni. Le informazioni delle persone che decideranno di sottoscrivere l’abbonamento non saranno utilizzate per gli annunci pubblicitari”.

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2. La decisione della Corte di Giustizia Europea sui profili social a pagamento


L’annuncio arriva dopo la decisione dello scorso luglio della Corte di Giustizia dell’Unione Europea [Causa C‑252/21 – Meta Platforms Inc., già Facebook Inc., Meta Platforms Ireland Ltd, già Facebook Ireland Ltd, e Facebook Deutschland GmbH contro Bundeskartellamt (l’equivalente dell’autorità antitrust tedesca) su domanda di pronuncia pregiudiziale proposta dalla Oberlandesgericht Düsseldorf (l’Alta Corte Regionale di Dusseldorf)]
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La Corte aveva stabilito che le compagnie dovrebbero considerare [non un obbligo, ma una facoltà] di offrire un servizio alternativo a pagamento per i clienti che non vogliono che siano raccolti i loro dati.  
La sentenza della Corte del 4 luglio aveva confermato quella dell’autorità antitrust del governo tedesco del 2019, la quale ordinava a Facebook di modificare il modo in cui traccia i comportamenti di navigazione web degli utenti e l’uso delle applicazioni del browser. Il che ostacolava il modo di Facebook di raccogliere i dati con lo scopo di personalizzare la pubblicità. 
Secondo la Corte, gli utenti del social network devono disporre della libertà di rifiutare di prestare il loro consenso a operazioni particolari di trattamento di dati quando questi non sono necessari all’esecuzione del contratto. 
“Questo implica che a detti utenti venga proposta, se del caso a fronte di un adeguato corrispettivo, un’alternativa equivalente non accompagnata da simili operazioni di trattamento di dati”, riporta la sentenza.

3. I piani tariffari


Il costo dell’abbonamento mensile sarà rispettivamente di 9,99 euro sul web o di 12,99 euro sui dispositivi mobili iOS e Android. “Fino all’1 marzo 2024, l’abbonamento iniziale sarà valido per tutti gli account collegati al Centro gestione account dell’utente. Dall’1 marzo 2024 in poi, per ogni ulteriore account inserito nel Centro gestione account dell’utente, si applicherà un costo aggiuntivo di 6 euro al mese per gli abbonamenti sottoscritti sul web, e di 8 euro al mese per quelli attivati su iOS e Android”, si legge nella nota di Meta.
Non è chiaro se l’utente debba pagare 12,99 per l’account su dispositivo mobile e anche 9,99 per accedere da desktop, nè se avendo accesso da tre dispositivi allo stesso accont (ios, android e desktop) si paghi tre volte o prevalga il più oneroso, ma questo sarà un elemento di valutazione commerciale ex post. E siamo certi che la evidente eccessiva onerosità sarà foriera di ulteriori azioni.
Il calcolo economico è evidente: visto che dal 2019 si è arrivati a questa decisione nel 2023, l’asimmetria della tempistica decisionale è tutta a favore delle imprese private che beneficieranno di non meno di ulteriori cinque anni per eventualmente rivedere in pochi giorni le proprie politiche tariffarie (per poi ricominciare daccapo).

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Il nuovo diritto d’autore

Questa nuova edizione dell’Opera è aggiornata all’attuale dibattito dedicato all’intelligenza artificiale, dalla Risoluzione del Parlamento europeo del 20 ottobre 2020 alla proposta di Regolamento europeo – AI Act.Il testo si configura come lo strumento più completo per la risoluzione delle problematiche riguardanti il diritto d’autore e i diritti connessi.Alla luce della più recente giurisprudenza nazionale ed europea, la Guida dedica ampio spazio alle tematiche legate alla protezione della proprietà intellettuale, agli sviluppi interpretativi in tema di nuove tecnologie e alle sentenze della Suprema Corte relative ai programmi per elaboratore, alle opere digitali e al disegno industriale.Il testo fornisce al Professionista gli strumenti processuali per impostare un’efficace strategia in sede di giudizio, riportando gli orientamenti giurisprudenziali espressi dalla Cassazione civile nel corso del 2023.Completano il volume un Formulario online editabile e stampabile, sia per i contratti che per il contenzioso, un’ampia Raccolta normativa e un Massimario di giurisprudenza di merito, legittimità e UE, suddiviso per argomento.Nell’area online saranno messi a disposizione del lettore anche il testo del final draft con gli ulteriori sviluppi relativi al percorso di approvazione del Regolamento AI Act, e la videoregistrazione del webinar del 23 febbraio, in cui parleremo con l’Autore delle sfide legali emerse con l’avvento dell’AI anche mediante l’analisi di casi studio significativi.Per iscriverti all’evento gratuito clicca qui Andrea Sirotti GaudenziAvvocato e docente universitario. Svolge attività di insegnamento presso Atenei e centri di formazione. È responsabile scientifico di vari enti, tra cui l’Istituto nazionale per la formazione continua di Roma e ADISI di Lugano. Direttore di collane e trattati giuridici, è autore di numerosi volumi, tra cui “Manuale pratico dei marchi e brevetti”, “Trattato pratico del risarcimento del danno”, “Codice della proprietà industriale”. Magistrato sportivo, attualmente è presidente della Corte d’appello federale della Federazione Ginnastica d’Italia. I suoi articoli vengono pubblicati da diverse testate e collabora stabilmente con “Guida al Diritto” del Sole 24 Ore.

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4. Le criticità della sentenza


Mentre il dibattito si è spostato sul piano distraente della conguità della proposta tariffaria dell’abbonamento ai servizi, si è perso di vista l’inadempimento tecnico – più complesso da attuare e da spiegare e da verificare – in relazione ai dati cui, in concreto, Meta non dà risposta.
La sentenza infatti stabilisce due punti essenziali:
offrire un servizio alternativo a pagamento per i clienti che non vogliono che siano raccolti i loro dati
 a detti utenti venga proposta, se del caso a fronte di un adeguato corrispettivo, un’alternativa equivalente non accompagnata da simili operazioni di trattamento di dati
Nel vulnus del non detto di Meta non si chiarisce il punto essenziale, ovvero che Meta implicitamente da un lato si impegna a non usare quei dati per la pubblicità profilata da somministare a questi utenti paganti, ma non dice come tratterà questi dati.
Meta non dice:che non li raccoglierà, che non li utilizzerà per gli aggregati in forma di meta-dati utili comunque alla profilazione dell’ecosistema degli utenti, non chiarisce e non dichiara un fatto: che continuerà nella raccolta, profilazione e segmentazione e aggregazione in forme di meta-dati utili a generare reddito pubblicitario (verso l’insieme più ampio dei clienti non paganti), non chiarisce come userà questi dati,
non chiarisce se per pubblicità intende solo quella diretta (contenuto sponsorizzato) o anche quella indiretta (ovvero tutte le forme di segnalazione e messa in evidenza di contenuti “di interesse” dell’utente),non chiarisce come inciderà questa distinzione di utenza sul Page e Content Rank interno per i criteri di selezione dei contenuti visibili nei feeds

5. Il vulnus della sentenza


La porta per continuare a trattare i dati degli utenti è offerta dalla formula generale e atecnica della sentenza nel passaggio secondo cui “gli utenti del social network devono disporre della libertà di rifiutare di prestare il loro consenso a operazioni particolari di trattamento di dati quando questi non sono necessari all’esecuzione del contratto”.
Nell’interpretazione “secondo Facebook” di questa espressione, in sostanza e in concreto, i social network potranno continuare a trattare i dati nello scudo interpretativo della loro “necessità all’esecuzione del contratto”.
Il rischio concreto quindi è che i dati degli utenti continuino – sotto altre forme, sempre più nascoste e complesse e quindi di difficile individuazione e chiarimento – ad essere usati come e più di prima per la profilazione e l’aggregato, per generare reddito, con in più la beffa di aver aperto le porte a formule di abbonamento “a pagamento”.
Non è Facebook che ha violato la promessa di essere “gratuito per sempre” ma è una sentenza che le ha imposto questa forma di reddito aggiuntiva.
E ciò senza minimamente incidere in concreto sulla capacità di raccolta ed elaborazione delle informazioni personali degli utenti.
La sentenza è importante sotto il profilo sia dei principi giuridici sia della posizione dei governi in relazione alla gestione dei dati privati dei propri cittadini.
Rischia tuttavia di restare una dichiarazione di principio nella misura in cui non prevede una restrizione in concreto all’utilizzo del “dato singolo” in funzione di componente del “meta dato aggregato” che costituisce la vera ricchezza (non solo finanziaria ma anche patrimoniale) del sistema di funzionamento dei social networks.
È entrare tecnicamente in questa logica che potrà determinare in concreto gli argini ad una gestione sempre più sfuggente e vischiosa dei dati.
Ciò per non finire nel “paradosso Google” che afferma il vero quando risponde che “non è in grado di dare accesso ai dati detenuti sul singolo utente… perchè non li conosce”.
Inseriti in un macro aggregato di algoritmi che macinano informazioni e le ri-aggregano secondo esigenze non compartimentate, nella meta-sfera di Google è tecnicamente impossibile risalire “al dato dell’utente”, e nemmeno volendo Google è in grado di dire e restituire il dato al suo “proprietario” anche perchè il dato ormai è tecnicamente disarticolato e diventato “qualcos’altro” che nemmeno può più essere riconducibile a “proprietà del titolare originario”.
Un pò come il chicco di caffè brasiliano macinato con migliaia di altri e divenuto caffè in una tazzina qualsiasi di Berlino: non è solo una parte, o disolacata altrove, è prpprio un’altra cosa!
Un approccio “old economy” a queste dinamiche è perdente in sé, non tanto e solo per ragioni cronologiche o di asimmetrie temporali tra la decisione dell’azienda privata e quelle di determinazione normativa pubblica.
È il chiarimento lessicale del concetto di dato ed informazione che va riformulato per essere concretamente aderente al suo utilizzo, che è evidentemente diverso tra la sede normativa, quella giudiziaria e quella dei social network.
Resta anche inalterato il processo di vendita del dato meta-elaborato, che costituisce un asset di enorme valore per le società del web.
Composto da aggregati di dati disaggregati di utenti (indistinti tra paganti e non), il dato meta elaborato è atecnicamente descrivibile in termini statistici, ma a ben vedere è molto più profondo di una apparente orizzontale descrizione statistica delle società e finisce con il diventare un vero e proprio potente indicatore stocastico dei processi decisionali (tanto della propensione di acquisto quanto di scellta politica e sociale).
Questo dato, il suo elaborato, la sua gestione e la sua commercializzazione, non viene minimante affrontato nè in questa sentenza nè nel processo decisionale normativo, che in vero dovrebbe agire secondo il principio di maggior tutela (preventiva) e non ex post, come momento normativo arginalizzante il fatto già compiuto (che come le problematiche di impatto ambientale dimostrano è difficilmente rimediabile).
Il vulnus in questo caso sta nella continua porta girevole tra pubblico e privato, dove le imprese private – che possono pagare stipendi molto più elevati – hanno maggiore capacità di assorbire “le menti migliori” per la definizione dei loro processi, ed hanno anche le borse più piene per finanziare i luoghi della ricerca scientifica, dove questi processi vengono studiati, immaginati e disegnati e da dove dovrebbero venire i rimedi e le soluzioni alle degenerazioni dei loro utilizzi.
Ma questo è un male endemico, che ha riguardato il comparto della difesa prima e della sanità poi, e da cui la silicon-valley-philosophy ha solo preso le scorciatorie più recenti e i rimedi più immediati, avendo altri settori prima di loro affrontato le tardive regolamentazioni antitrust e sul conflitto di interessi.

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Michele Di Salvo

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