Risarcibilità del danno ambientale

Vinci Paolo 10/02/11
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 Per dare una definizione di danno ambientale e del suo risarcimento possiamo fare una macro distinzione tra ordinamenti di common law e di civil law.

Gli ordinamenti di common law, nonostante negli ultimi anni ci sia stato un surplus normativo in materia ambientale (aria, acqua, suolo, inquinamento atmosferico, rifiuti), essendo ancorati al diritto giurisprudenziale la definizione di danno ambientale e le modalità di risarcimento sono legate all’orientamento della giurisprudenza.

Negli ordinamenti di civil law, invece, si possono distinguere 2 gruppi:

1. Per paesi come l’Austria, Belgio e Grecia non è prevista una normativa specifica dell’ambiente e pertanto la tutela rientra in quella di carattere generale data dalle norme ordinarie.

2. Per ordinamenti come l’Italia vi sono norme speciali a tutela dell’ambiente che hanno definito anche il danno ambientale e il relativo risarcimento.

Inoltre nel civil law si deve tenere presente:

a. il quadro costituzionale più ampio in cui si inserisce la tematica ambientale unitamente alla

normativa settoriale, cioè quella dettata per materie specifiche;

b. l’assetto istituzionale dello Stato, cioè federale, regionale, unitario, ecc.,

c. la regolamentazione delle attribuzioni assegnate ai vari pubblici poteri, cioè chi si occupa di monitorare l’ambiente, chi è l’autorità competente ad irrogare le sanzioni se vi è un danno ambientale, chi è legittimato ad agire in giudizio per ottenere un risarcimento.

Queste linee guida sono molto importanti per la tendenza all’armonizzazione legislativa dei paesi dell’Unione Europea che dovrebbe portare alla creazione di un modello comune per il

riconoscimento del danno ambientale e del suo risarcimento.

In quest’ottica, a livello europeo e internazionale, è sorto un dibattito tra gli anni ’70 e ’80, sull’utilizzo dell’istituto della responsabilità civile come strumento di politica ambientale, sia come deterrente contro l’inquinamento (quindi di prevenzione) che come sistema di risarcimento del danno.

Per citare alcuni esempi, sono entrati in vigore a partire dall’inizio degli anni ’80:

1980: Comprehensive Environmental Response Compensation and Liability Act (il c.d. ******) negli Stati Uniti;

1981: legge federale sulla protezione dell’ambiente in Svizzera;

1986: legge di base sull’ambiente portoghese e legge italiana istitutiva del Ministero dell’ambiente che è la prima norma in materia di danno ambientale (L. 349/86).

1991: la prima legislazione in Germania sulla responsabilità civile per danni all’ambiente (Umwelthaftungsgesetz).

Un analogo trend è rinvenibile anche nel contesto europeo ed internazionale, con l’elaborazione di apposite Convenzioni e progetti come ad esempio il Libro Verde della Comunità Europea e la Convenzione di Lugano sulla responsabilità civile derivante dall’esercizio di attività pericolose, entrambe del 1993, esperienze poi riprese dal Libro Bianco del 2000 e che hanno influenzato la successiva legislazione europea e in particolare la Direttiva 35/2004 (direttiva quadro europea in materia di responsabilità ambientale).

Gli ordinamenti nazionali nel trattare la tematica del danno ambientale hanno dovuto affrontare vari aspetti che sono stati trattati in maniera diversa:

1. oggetto della tutela (i legislatori hanno dovuto dare una definizione di danno all’ambiente);

2. legittimazione processuale (stabilire chi è titolare del diritto per cui può chiedere il risarcimento del danno ambientale);

3. modalità di riparazione del danno e relativi criteri;

4. criteri di imputazione della responsabilità (si è dovuto scegliere se imputare la responsabilità per colpa o in base a un semplice nesso di causalità tra l’azione lesiva e l’evento che si è verificato – responsabilità oggettiva – oppure optare per un regime misto);

5. identificazione del nesso di causalità;

6. assicurabilità del rischio ambientale.

Ora affrontiamo questi sei aspetti in riferimento alla legislazione degli Stati Uniti, della Germania e dell’Italia.

1. L’oggetto della tutela

Non tutte le leggi che hanno introdotto la responsabilità civile come strumento di politica ambientale condividono lo stesso oggetto di tutela.

Alcuni interventi legislativi (la legge tedesca del 1991) prendono in considerazione solo i danni a cose e persone derivanti da attività inquinanti (danno da inquinamento), tutelando, quindi, l’ambiente solo in via indiretta; in altre legislazioni (in USA con la CERCLA e in Italia con il d.lgs. 152/2006) vi è un’apposita disciplina per il danno ambientale in senso stretto, indipendentemente dalle lesioni arrecate alle persone e ai beni e per tal via si è elaborata una clausola generale di responsabilità civile per danni all’ambiente, ma tale scelta ha comportato delle difficoltà nella enucleazione di un concetto di ambiente tutelabile, nella individuazione del portatore di diritti nei confronti di questo nuovo bene e dei criteri per addivenire ad una quantificazione del danno in terminimonetari.

In particolare la legge tedesca del 1991 (Umwelthaftungsgesetz) prevede: “Qualora da una immissione nell’ambiente, proveniente da uno degli impianti indicati nell’appendice 1 (della medesima legge, n.d.r.), derivi la morte, la lesione del corpo o della salute, oppure della proprietà di un soggetto, il proprietario dell’impianto è tenuto a risarcire il danno che ne è derivato”.

La legge tedesca si rifà dunque ad una concezione di danno tradizionale, evitando di affrontare lo spinoso problema del danno all’ambiente in senso stretto, limitandosi a considerare i danni alle persone ed alle cose che possano derivare da immissioni nocive nell’ambiente.

Con questa soluzione il legislatore tedesco ha messo fine a quella lunga discussione presente in Germania circa la possibilità di risarcire i c.d. danni ecologici (c.d. Ökoschäden), ossia quelli che ledono la natura in quanto tale, indipendentemente da chi appartiene quell’ambiente.

Nei lavori preparatori alla legge tedesca del 1991 traspare il motivo principale di questa scelta: il timore derivante dalla difficile determinazione di criteri per quantificare il valore del bene ambiente.

Motivazioni opposte a quelle tedesche le troviamo negli USA con il CERCLA che dispone la risarcibilità del danno causato alle risorse naturali, indipendentemente dalla lesione di altri diritti individuali come la salute e la proprietà:

Le “natural resources” vengono definite dalla legge come l’insieme delle “terre, della fauna ittica e selvaggia, dell’aria, delle acque di superficie e sotterranee, nonché di tutte le risorse

appartenenti, sottoposte a trust, amministrate o in qualsiasi altro modo controllate dal governo federale degli Stati Uniti, o da altro ente locale appartenente all’amministrazione statale o

federale”.

Alla luce dei lavori preparatori e delle interpretazioni fornite dalla dottrina americana, scopo precipuo della clausola generale di cui sopra, doveva essere quello di considerare le risorse ambientali come qualsiasi altra risorsa per il cui uso l’imprenditore è tenuto a corrispondere un prezzo.

Considerando l’ambiente alla stregua di una risorsa primaria, i potenziali fruitori/danneggiatori avrebbero dovuto tenere in debito conto anche il suo prezzo, così internalizzando i costi delle esternalità negative create dall’esercizio delle loro attività.

Conseguentemente il CERCLA non prevede nessun meccanismo per il risarcimento dei danni ai singoli privati. In questo caso, infatti, i rimedi disponibili sono quelli di diritto comune.

In Italia il codice dell’ambiente d.lgs n. 152/2006 disciplina l’intera materia recependo anche la direttiva 2004/35/CE. In particolare l’art. 300 comma 1, definisce danno ambientale “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”.

Il comma 2 riprende pedissequamente la definizione della direttiva europea, senza fare sforzo di adattamento della norma comunitaria all’ordinamento nazionale, infatti prevede: “ai sensi della Direttiva 2004/35/CE costituisce danno ambientale il deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato:

a) alle specie e agli habitat naturali protetti dalla normativa nazionale e comunitaria (…);

b) alle acque interne (…);

c) alle acque costiere ed a quelle ricomprese nel mare territoriale (…);

d) al terreno, mediante qualsiasi contaminazione (…)”.

Alla tutela frazionata di alcune componenti del bene ambiente, segue la formulazione in termini generali dell’illecito ambientale dell’art. 311 comma 2: “chiunque realizzando un fatto illecito, o omettendo attività o comportamenti doverosi, con violazione di legge, di regolamento, o di provvedimento amministrativo, con negligenza, imperizia, imprudenza o violazione di norme tecniche, arrechi danno all’ambiente, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, è obbligato a ripristino della precedente situazione e, in mancanza, al risarcimento per equivalente patrimoniale nei confronti dello Stato”.

Vi è una mancanza di coordinamento tra l’art. 300 e l’art. 311 comma 2, perché:

l’art. 300 F limita la definizione di danno ambientale a quanto contemplato nella direttiva europea, con un’indicazione troppo tassativa di ciò che costituisce oggetto di “deterioramento significativo” e misurabile di una risorsa naturale o dell’utilità che assicura.

l’art. 311 comma 2 F dà rilievo a qualsiasi alterazione, deterioramento o distruzione in tutto o in parte dell’ambiente ed è una figura di illecito più ampia in cui l’ambiente è inteso come bene unitario.

Questa discrasia è dovuta al fatto che il legislatore ha voluto tener presente tutta una serie di statuizioni giurisprudenziali oscillanti susseguitesi nel tempo.

La prima è della Corte dei conti risalente agli anni ’80 che definiva il danno all’ambiente come danno patrimoniale allo Stato.

Nel 1987 è intervenuta la Corte costituzionale che con due sentenze storiche ha elaborato una concezione unitaria del bene ambiente, quale bene giuridico dotato di unitarietà e autonomia ed anche se è un bene immateriale, è comunque riconosciuto e tutelato dall’ordinamento.

L’ambiente è un bene giuridico formato da vari beni (aria, acqua, rifiuti, ecc), ma che si distingue ontologicamente da questi perché è espressione di un autonomo valore collettivo.

A questa statuizione della Corte costituzionale, si contrappongono quelle della Corte di cassazione penale che afferma l’opposto: l’ambiente non è un bene giuridico unitario, ma un bene scomposto e quindi la sua tutela deve riguardare solo le singole partizioni di cui si compone e da una triplice dimensione del danno ambientale (dimensione personale, sociale e pubblica).

 

2. La legittimazione processuale

La legittimazione processuale invece cambia a seconda della definizione accolta dall’ordinamento:

Negli ordinamenti che riconoscono la risarcibilità del danno da inquinamento, la legittimazione attiva spetta al titolare del diritto leso, quindi generalmente al proprietario o al titolare di un altro diritto reale minore, nonché al soggetto la cui salute o integrità fisica sia stata violata dal fenomeno di inquinamento ambientale.

Diversamente, negli ordinamenti che hanno assunto un modello di tutela diretta delle risorse ambientali (come USA e Italia), si è aperto il problema di individuare i soggetti titolari del diritto. Sia nel sistema statunitense che in quello italiano la legge stabilisce che siano innanzitutto lo Stato, o suoi rappresentanti, ed in particolare gli enti locali o territoriali, i legittimati attivi nell’azione diretta a richiedere o la restitutio in integrum, oppure il risarcimento del danno. Appare tuttavia interessante osservare come alcune funzioni vengano affidate alle associazioni ambientali o a singoli individui.

Negli Stati Uniti a partire dagli anni ‘70 il Congresso ha cominciato ad inserire negli statutes federali (es. Clean Water Act; Clean Air Act) particolari previsioni volte a legittimare singoli individui o associazioni ambientaliste a richiedere l’applicazione delle disposizioni poste a tutela dell’ambiente, indipendentemente dal fatto che tale violazione di legge avesse provocato un danno specifico agli stessi.

Lo scopo di tali rimedi, chiamati citizens suits, non era quello di fornire ai cittadini uno strumento per ottenere una migliore tutela dei loro interessi individuali, ma piuttosto quello di rendere possibile l’azione dei privati nei confronti di coloro che violavano delle disposizioni poste a tutela dell’ambiente (standards od altre misure previste dalla legge stessa). In questo modo i cittadini si venivano a porre in una posizione concorrenziale nei confronti delle istituzioni pubbliche create per attuare una politica dell’ambiente.

Oggi quasi tutti gli statutes in materia ambientale contengono delle clausole stabilenti che:

a. passato un certo lasso di tempo dal momento in cui si è verificato l’inquinamento senza che l’ente competente abbia proposto azione contro il presunto inquinatore, uno o più cittadini,oppure uno o più associazioni possano sostituirsi all’ente inerte per l’azione in giudizio;

b. che il risarcimento dei danni ottenuto dalle associazioni o dai cittadini finisca comunque nelle

casse dello Stato o dell’ente competente per il ripristino;

c. che nei confronti delle associazioni e dei cittadini che si siano attivati, il giudice possa almeno liquidare le spese processuali

Per l’Italia il d.lgs 152/2006 (Codice dell’ambiente) può chiedere il risarcimento del danno:

L’art. 311 comma 1, individua nel Ministero dell’ambiente il titolare delle azioni di risarcimento per i danni ambientali in senso stretto arrecati allo Stato.

L’art. 309 prevede che “le regioni, le provincie autonome e gli enti locali …, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale … possono

presentare al Ministro dell’ambiente … denunce e osservazioni, … concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l’intervento

statale a tutela dell’ambiente”.

L’art. 310: “I soggetti di cui all’art. 309, com.1, sono legittimati ad agire … per il risarcimento del danno subito a causa del ritardo nell’attivazione, da parte del medesimo Ministro, delle misure di precauzione, di prevenzione o di contenimento del danno ambientale”.

L’art. 313 comma 7: “resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.

Riassumendo: da un lato si stabilisce il principio generale della titolarità esclusiva in capo allo Stato della pretesa risarcitoria, assumendo così che esso agisca a tutela della collettività facendo valere un diritto superindividuale a tutela di una bene collettivo; dall’altro si ammette che anche tutte le persone fisiche o giuridiche, oltre che gli enti espressione della collettività locale, possano essere colpite dal danno ambientale in senso stretto e, quindi, agire per il risarcimento del danno subito a seguito del deterioramento delle risorse naturali.

Pertanto per il T.U. i privati sono legittimati ad agire per il ristoro del danno all’ambiente e non solo per la tutela dei diritti soggettivi eventualmente lesi dal medesimo fatto.

Infine, si considera il danno ai singoli beni lesi dal fatto produttivo di danno ambientale e come tali distinti da quest’ultimo ed oggetto di tutela in base alle norme ordinarie (anche se, poi, limita inspiegabilmente l’ambito dei diritti tutelabili in via ordinaria alla salute ed alla proprietà).

3. Le modalità di riparazione del danno e i relativi criteri per il risarcimento del danno Risarcibilità del danno all’ambiente: viene preferito il ripristino dello stato dei luoghi alla situazione preesistente al verificarsi dell’incidente, a svantaggio delle forme di risarcimento monetarie. Se questo il ripristino dello stato dei luoghi non è possibile, in alternativa è ammesso un risarcimento per equivalente patrimoniale, ma nel settore ambientale questo risarcimento va incontro a difficoltà derivanti dall’assenza di mercati per i beni oggetto di tutela. Mancano, cioè, criteri collaudati che possano essere utilizzati in sede giurisdizionale per addivenire alla quantificazione del danno ambientale.

La necessità di un’elaborazione di tali criteri, appare chiara laddove si collochi il problema delle stime nel più ampio contesto della responsabilità civile: ove la quantificazione fosse troppo bassa rispetto al risparmio od al guadagno ricavato dal polluter per una determinata attività inquinante, tale da costituire un valido disincentivo per il danneggiante, si verrebbe a vanificare anche ogni discorso sulla scelta del criterio di imputazione della responsabilità.

La scelta a favore di un regime di responsabilità più severo, come quello che presume la colpa, non porterebbe comunque a risultati soddisfacenti ove tale opzione non fosse coadiuvata da criteri di quantificazione che perseguissero il medesimo scopo. I criteri di quantificazione vengono, quindi,ad incidere direttamente sulla funzione preventiva della responsabilità civile.

L’esigenza di sviluppare criteri univoci è dovuta anche alla necessità di raggiungere decisioni omologhe in tutte le corti. È auspicabile che i giudici abbiano delle direttive prestabilite da seguire, onde evitare che la quantificazione del danno possa portare a risultati difformi – e quindi sostanzialmente iniqui – a seconda della giurisdizione che si trovi a decidere su di una determinata causa ambientale.

Infine, l’esistenza di tali criteri rende in qualche modo prevedibile la quantificazione del danno, fatto di non poco conto e che soprattutto gli assicuratori tengono in debita considerazione quando propongono una polizza.

Tuttavia né l’esperienza italiana, volta ad addivenire alla quantificazione del risarcimento del danno all’ambiente secondo un criterio di equità, né quella statunitense, che si rifaceva a specifici criteri di valutazione economica, sembrano avere dato buoni risultati fino ad ora.

Alla luce di questa esperienza negativa del tentativo di monetizzare il danno ambientale e soprattutto di elaborare criteri univoci di quantificazione si potranno comprendere meglio ed

apprezzare le scelte effettuate dalla Convenzione di Lugano e poi riprese dal Libro Bianco.

Nel caso in cui il ripristino non sia tecnicamente possibile, il Libro Bianco riprende, infatti, un suggerimento fatto proprio già dalla Convenzione di Lugano, stabilendo che “la quantificazione del danno debba basarsi sui costi delle soluzioni alternative, finalizzate all’introduzione nell’ambiente

di risorse equivalenti a quelle distrutte”.

 

4. I criteri di imputazione della responsabilità per danno ambientale

Nelle moderne leggi a tutela dell’ambiente si tende ad introdurre un criterio di imputazione della responsabilità di tipo oggettivo (indipendentemente dall’elemento soggettivo, considera solo il

nesso di causalità tra l’azione lesiva o l’omissione e l’evento che si determina) ed è una scelta condivisa dalla legislazione statunitense, tedesca, svizzera e portoghese. Le giustificazioni addotte per suffragare tale criterio sono varie:

alleviare il compito del giudice, che nel caso di un processo per colpa, oltre a determinare l’entità del danno dovrà accertare il giusto livello di diligenza che il convenuto avrebbe dovuto tenere;

costringere i potenziali danneggianti dell’ambiente a modulare anche il proprio livello di attività in funzione della probabilità di causare un danno ambientale e conseguentemente internalizzare

tutti i costi sociali e non solo di quelli causati da negligenza;

venire incontro altresì alle esigenze della vittima, la quale in caso di responsabilità per colpa si troverebbe di fronte al difficile compito di dover dimostrare la negligenza dell’agente.

In Italia il d.lgs. 152/2006, pur presentando soluzioni diverse e tra loro disomogenee, l’imputazione della responsabilità oggettiva è un eccezione mentre la regola è la responsabilità per la colpa.

In Germania la legge del 1991 (Umwelthaftungsgesetz) introduce un sistema di responsabilità oggettiva per tutti quei danni causati alla salute ed all’integrità sia delle persone che delle cose che siano state la conseguenza di una immissione nociva nell’ambiente. Infatti il § 1 della legge dispone a carico del titolare di uno degli impianti specificatamente indicati dalla legge l’obbligo di risarcire il danno cagionato.

Tale responsabilità viene estesa a quegli impianti, delle categorie prese in considerazione dalla legge, che non siano ancora in funzione, a quelli che siano già fuori esercizio, l’impianto che abbia funzionato a norma di legge (c.d. Normalbetrieb), ossia che sia stato fatto funzionare dopo avere

ottenuto le eventuali richieste autorizzazioni e rispettando gli standards previsti dalla legge.

La legge stabilisce inoltre alcune ipotesi di esclusione della responsabilità, specificatamente nei casi di forza maggiore, oppure qualora vi sia un danno irrilevante o comunque prevedibile date le condizioni locali.

Negli USA il CERCLA prevede al § 107 una responsabilità oggettiva (strict), solidale (joint & several) e retroattiva (retroactive) nei confronti delle c.d. potentially responsible parties (PRPs -cioè le parti potenzialmente responsabili), una categoria ampia che ricomprende: i proprietari attuali del sito inquinato e gli utilizzatori e operatori della discarica, gli ex proprietari ed ex operatori fin dal momento del primo utilizzo di qualsiasi sostanza nociva in quel luogo, chiunque abbia organizzato il trasporto dei materiali pericolosi sul luogo, chiunque abbia prodotto le sostanze inquinanti depositate in quel sito, chiunque abbia provveduto allo smaltimento ed alla eliminazione di dette sostanze.

Ai sensi del CERCLA è, dunque, potenzialmente responsabile qualsiasi soggetto che abbia od abbia avuto una pur minima relazione con il sito inquinato.

Il § 107 del CERCLA stabilisce inoltre che le PRPs sono responsabili, oltre che per i costi di cleanup, anche per i danni arrecati alle risorse naturali (natural resources damages), ma questa volta solo se il danno è stato causato da una emissione nociva verificatasi, almeno parzialmente, dopo l’11 dicembre 1980, data dell’entrata in vigore del CERCLA.

Le difese opponibili a questa forma di responsabilità, sono estremamente limitate. Dal testo originario sono previste, infatti, solo quelle derivanti dalla dimostrazione che l’evento è stato unicamente causato da forza maggiore, in conseguenza di una guerra o da un atto vandalico.

Nell’ottobre del 1986, è stato emanato il Superfund Amendments and Reauthorization Act (****) che ha introdotto un’ulteriore possibile difesa contro la responsabilità derivante dalla §107, nota come la difesa dell’”innocent landowner“: il proprietario del sito contaminato che si è sempre comportato con diligenza può dimostrare di essere stato vittima di un inganno che non gli ha permesso di conoscere l’esistenza di sostanze pericolose depositate in passato nel fondo.

L’ultima connotazione caratterizzante la responsabilità per danno ambientale attualmente imposta dal CERCLA, nonché uno dei punti maggiormente discussi nel dibattito sulla riforma, è la sua applicazione retroattiva; ciò significa che le PRPs possono essere considerate responsabili anche per le azioni compiute e gli avvenimenti verificatisi prima dell’entrata in vigore di questa legge.

In Italia il T.U. sulla tutela dell’ambiente (il d.lgs. 152/2006) all’art. 305 sembra diretto ad istituire una responsabilità oggettiva: “quando si è verificato un danno ambientale”, oltre alle azioni di prevenzione, l’operatore ha l’obbligo di adottare “le necessarie misure di ripristino di cui all’art.306”. “Se l’operatore non adempie a tali obblighi” o “se non è tenuto a sostenere i costi a norma della parte sesta del presente decreto”, il Ministro dell’ambiente ha facoltà di adottare tali misure, con diritto di rivalsa verso chi abbia “causato o comunque concorso a causare le spese stesse”.

Quindi l’obbligo di ripristino sorge quando si verifica un danno ambientale e il ******** ha un diritto di rivalsa per le spese sostenute su chi lo ha causato o comunque ha concorso a causare.

Poiché, però, l’art. 305 prevede anche il caso in cui l’operatore non è tenuto a sostenere i costi, si impone una lettura sistematica dell’articolato che riporta a criteri diversi dal mero nesso causale.

L’art. 311 comma 2, depone, invece, per un criterio di attribuzione della responsabilità basato sulla colpa. in quanto integra gli estremi della fattispecie la realizzazione di un fatto illecito di natura dolosa o colposa, in forma attiva od omissiva, in violazione di legge, di regolamento o provvedimento amministrativo, oppure commesso con negligenza, imperizia, imprudenza.

Quindi il profilo della responsabilità viene allargato alla colpa generica, non ancorata cioè alla sola violazione di una norma o di un provvedimento a tutela dell’ambiente e con ciò l’illecito viene modellato sull’art. 2043 c.c. ed anche il danno ambientale diventa illecito atipico, realizzabile,dunque, con qualsiasi condotta dolosa o colposa.

 

5. I problemi inerenti alla identificazione del nesso di causalità

Questa problematica è una peculiarità del danno all’ambiente, un settore in cui regole comuni volte a disciplinare il nesso di causalità hanno dimostrato di non dare buoni risultati. L’identificazione del nesso di causalità risulta particolarmente problematica in quanto:

Il danno in quanto tale, o le sue conseguenze, possono venire alla luce anche molti anni dopo il verificarsi delle azioni dannose e di conseguenza diventa difficile dimostrare la relazione tra azione dannosa ed evento lesivo.

E’ tipico il verificarsi di ipotesi ove il danno non è la conseguenza di una singola azione dannosa, ma nei casi delle c.d. immissioni cumulate, il problema è determinare quale sia la percentuale di ogni inquinatore all’attività inquinatrice.

I fenomeni di inquinamento possono presentare dinamiche complesse. Ad esempio nel caso in cui sia certa la fuoriuscita di una sostanza nociva, ma non si conoscono i soggetti che ne subiranno leconseguenze dannose.

Per questi motivi, dottrina e giurisprudenza e le recenti legislazioni straniere hanno elaborato forme alternative di tutela a quelle tradizionali.

La Germania ha affrontato il problema di identificare il responsabile dell’inquinamento,

introducendo eccezioni alla normale disciplina del nesso di causalità con una particolare presunzione di causalità per alleviare l’onere probatorio del danneggiato.

Per il danneggiato tale facilitazione si concretizza in un ribaltamento dell’onere della prova che viene posta a carico del presunto inquinatore. Ossia, se da un esame delle circostanze del fatto concreto un impianto sarà ritenuto idoneo a provocare il danno verificatosi, si presumerà che quest’ultimo sia effettivamente stato provocato dall’impianto in questione, senza bisogno per il danneggiato di dare prova del nesso causale.

L’idoneità specifica dell’impianto a produrre il danno verrà giudicata in base al concreto svolgersi del suo esercizio, alle attrezzature ivi impiegate, alla natura ed alla concentrazione delle sostanze immesse nell’ambiente, alle condizioni meteorologiche, al tempo ed al luogo del verificarsi del danno, nonché in base a ogni altra circostanza che, nella fattispecie concreta, possa fornire elementi contro o a favore del verificarsi del danno.

Per l’impianto che funzioni nel rispetto delle norme tale presunzione di causalità verrà esclusa qualora siano stati assolti tutti gli obblighi d’esercizio senza alcuna anomalia.

Per obblighi di esercizio particolari s’intendono quelli risultanti da “autorizzazioni, direttive, disposizioni esecutive, nonché da decreti o da norme di legge, sempreché mirino a prevenire le lesioni ambientali che debbano considerarsi all’origine del danno“.

Qualora la legge disponga che in base ad uno di questi obblighi particolari l’esercizio dell’impianto doveva essere assoggettato a controlli specifici per verificarne il rispetto, si presumerà che tale obbligo sia stato effettivamente assolto: sia nel caso che i controlli abbiano avuto luogo nell’arco di tempo in cui la lesione ambientale può avere avuto origine e gli stessi controlli non abbiano riscontrato alcunché a riprova dell’esistenza di una violazione dell’obbligo particolare; e sia nel caso in cui tra il momento della richiesta di risarcimento dei danni e la lesione ambientale siano trascorsi più di 10 anni.

Inoltre la presunzione è esclusa qualora vi siano più impianti che possono essere considerati idonei ad avere causato il danno, secondo delle circostanze concrete oppure si siano verificati altri fatti idonei a produrre il danno.

Negli USA, essendo un sistema di common law, i criteri per l’identificazione del nesso di causalità sono stati offerti dalla giurisprudenza in primo luogo con il meccanismo della condicio sinequa non, ossia il but for test in base al quale la condotta dell’individuo non può essere considerata causa dell’evento, se l’evento si sarebbe verificato comunque.

Altra regola si concretizza nel c.d. substantial factor test, in base a cui, l’attore è tenuto a dimostrare che l’azione del convenuto deve considerarsi un elemento essenziale, anche se non esclusivo, per il verificarsi del danno da lui subito.

Un primo passo in avanti, rispetto a queste regole tradizionali, la giurisprudenza statunitense l’ha fatto verso la fine degli anni ’40, in occasione del caso ***************. In questa sede i giudici elaborarono la c.d. alternative liability theory, in base alla quale “nell’ipotesi in cui la condotta di due o più soggetti è illecita, se è provato che il danno è stato causato alle vittime da uno solo di essi, ma v’è incertezza in ordine a chi lo abbia causato, ognuno dei soggetti ha l’onere di provare che egli non abbia causato il danno”. In questo caso la Corte stabilì la possibilità di invertire l’onere della prova a carico dei convenuti, determinando la responsabilità solidale dovuta alla loro condotta

negligente e, comunque, mantenendo ferma la possibilità per ognuno di loro di discolparsi.

Nel sistema italiano non ci sono eccezioni alla regola generale ovvero sia chi vuole ottenere risarcimento in giudizio, ha anche l’onere di provare i fatti che ne sono a fondamento.

 

Sentenza del Tribunal de grande istance di Parigi del 16 gennaio 2008

Il gruppo petrolifero franco-belga TOTAL viene riconosciuto il principale responsabile di un disastro marino avvenuto il 12 dicembre 1999 nel golfo di Guascogna, a largo delle coste francesi, quando una sua petroliera battente bandiera maltese, la *****, che trasportava 37.000 tonnellate di olio combustibile, a causa di una burrasca si spezza in due riversando in mare 20.000 tonnellate di greggio che inquinano 400 km. di costa e provocano la morte di oltre 150.000 uccelli marini.

Fu condannato il gruppo Total per imprudenza, in quanto non ha tenuto conto delle condizioni dall’imbarcazione e per il conseguente inquinamento marino, ma è stato condannato in solido, anche l’armatore *****************, il gestore *************** (entrambi italiani) ed il registro navale italiano (****) che aveva autorizzato la petroliera a navigare perché i registri risultavano falsificati.

Il Tribunale ha anche condannato la Total e il **** a 375.000 euro di multa ciascuno e ******** e ******* a 75.000 euro di multa e al pagamento di un indennizzo di 192 milioni di euro alle 101 parti civili costituite (fra le quali lo Stato francese, le regioni Bretagna, ****-de-Loire e Poitou-Charentes, i dipartimenti di Finistere, Morbihan, Loira-Atlantico e Vandea e una decina di comuni).

Per il Tribunale, la Total, cui apparteneva il petrolio trasportato dall’*****, non avrebbe dovuto noleggiare la petroliera tenuto conto della vetustà dell’imbarcazione (25 anni) e della «discontinuità della gestione e della manutenzione della nave, mentre il **** non avrebbe dovuto certificarla e ******** e ******* dovevano sapere che le riparazioni compiute sullo scafo dell’***** alcuni anni prima non avrebbero retto a lungo, come infatti avvenne».

Per la prima volta in Francia viene risarcito il pregiudizio ecologico e in particolare il tribunale francese ha riconosciuto il danno all’ambientale in senso stretto e la legittimazione ad agire delle associazioni, a chiedere sia un risarcimento del danno patrimoniale che di danno morale.

Anche allo Stato, in quanto depositario della tutela e della conservazione dell’ambiente, viene riconosciuto un risarcimento patrimoniale per il ripristino della situazione originaria e per il danno morale derivante dal contraccolpo subito all’immagine di quella zona (ad esempio per il turismo).

 

Sentenza della Cassazione penale, sez. III, 6 marzo 2007, n. 16575

Per ricostituire una spiaggia erosa dal mare, in un comune dell’isola d’**** il sindaco e gli assessori hanno eseguito un “ripascimento” della spiaggia, cioè uno sversamento di sabbia e limo, che però conteneva metalli pesanti.

A seguito a questa operazione le acque si erano intorpidite rendendo impossibile la balneazione provocando la morte di varie specie di pesci e di particolari alghe della zona.

Nel processo penale si sono costituite parte civile sia il Ministro dell’ambiente (per il danno ambientale) e sia un albergatore della zona (per il danno patrimoniale) che aveva dovuto chiudere l’attività a causa dei lavori, oltre ad aver subito un danno all’immagine commerciale.

Il giudice di primo grado condannò il sindaco e gli assessori e accolse tutte le richieste delle parti civili, al contrario il giudice d’appello assolse il sindaco e gli assessori e rigettò le richieste delle parti civili (Ministero dell’ambiente e albergatore) con motivazioni non condivisibili, in quanto non riconobbe il risarcimento del danno ambientale perché le acque della zona per loro natura erano torbide e il mare, riassorbendo l’inquinamento, tornò alla situazione originaria.

La Corte di cassazione, invece, ha riformato la sentenza di appello e riconosciuto il danno ambientale al Ministero e il danno patrimoniale all’albergatore perché non deve esserci necessariamente un danno permanente e anche se poi la situazione è tornata allo stato originario, comunque un danno c’è stato in quel determinato periodo di tempo.

 

 

 

Vinci Paolo

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