Rifiuto chemioterapia a minorenne: condannati i genitori

La Quarta Sezione della Corte di Cassazione penale ha pronunciato la sentenza n. 12124 del 23 marzo 2023, con la quale ha confermato la condanna per omicidio colposo a carico di una coppia di genitori che ha rifiutato la chemioterapia alla figlia minore, affetta da leucemia linfoblastica acuta e successivamente deceduta a causa della malattia.
La scelta di rifiutare le cure era in verità stata presa dalla minore stessa, ma secondo la Suprema Corte sarebbe stata determinata dall’atteggiamento dei genitori, convinti antagonisti della “lobby delle case farmaceutiche” e sostenitori delle cure con vitamina C.
La morte della ragazza, dunque, è stata cagionata dalla volontà e dalle idee dei genitori, cui la minore aveva aderito supinamente, in violazione degli obblighi di garanzia su di loro gravanti.

Indice

1. La vicenda processuale


La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza del 21 aprile 2021, confermava la condanna per omicidio colposo di G. e S., genitori di V. (iniziali di fantasia), i quali, secondo la ricostruzione effettuata dal Giudice di seconde cure, avrebbero indotto la figlia, affetta da leucemia linfoblastica acuta, a rifiutare di sottoporsi a chemioterapia: la cura era stata considerata essenziale dai medici per tentare di contrastare il peggioramento della malattia e per assicurare la sopravvivenza della giovane.
Secondo quanto ritenuto dalla Corte, i genitori avrebbero instillato nella minore la convinzione che il trattamento chemioterapico fosse non solo privo di effetti, ma addirittura nocivo per il suo fisico ed in tal modo avrebbero convinto la figlia a rifiutare le cure prima proposte dai medici e successivamente ordinate dal Tribunale dei Minori di Venezia con l’ordinanza 4/3/2016.
Secondo i genitori la malattia non era altro che un modo di rigenerazione cellulare del corpo e con la chemioterapia questo processo sarebbe stato interrotto. Inoltre, i medici, sempre secondo il convincimento dei due adulti, non prescrivevano la vitamina C (che secondo il padre avrebbe potuto curare la figlia) perché vittime della pressione delle case farmaceutiche e nella fase terminale della malattia i genitori si sarebbero opposti anche alle cure palliative antidolorifiche, fino a giungere all’arresto cardiaco che causava la morte della minore.
Il Tribunale dei minori aveva sospeso la responsabilità genitoriale di G. e S., affidando V. ai servizi sociali, ma, sempre esercitando pressione psicologica sulla ragazza, i genitori trasferivano la minore all’estero, per poi rientrare in Italia senza dare alcuna comunicazione agli assistenti sociali e all’ospedale.
A seguito della sentenza sfavorevole della Corte d’Appello (che confermava in toto la condanna dei genitori in primo grado), gli imputati proponevano ricorso per Cassazione.


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2. Il ricorso per Cassazione


La triste vicenda veniva portata dinnanzi alla Suprema Corte con tre motivi di ricorso.
Con il primo motivo, la difesa degli imputati eccepiva la violazione di legge e il vizio di motivazione in riferimento all’obbligo di informare il paziente, incombente solo sui sanitari e non anche sui genitori della minore.
In altre parole, i ricorrenti affermavano che solo sui sanitari, e non anche su di loro, gravava l’onere di informare debitamente la minore circa gli effetti salvavita della chemioterapia e le conseguenze in caso di mancata cura, stante il fatto che la minore, pur se legalmente incapace, aveva comunque l’età per capire e decidere in autonomia e pertanto era con lei che i medici avrebbero dovuto interloquire e solo su di loro gravava detto onere di informazione.
La conseguenza che la difesa di G. e S. traeva era che non competeva ai genitori spiegare alla figlia la tipologia di malattia, il suo decorso e le sue cure, in quanto soggetti privi di competenze medico-scientifiche; inoltre, la minore poteva scegliere autonomamente che la malattia facesse il suo corso ed avendo scelto in piena libertà e consapevolezza di rifiutare le cure, i genitori non avrebbero fatto altro che adeguarsi alle decisioni della figlia e rispettarne la volontà.
La Cassazione respingeva il motivo, rilevando come, dalla ricostruzione probatoria effettuata in appello, era emerso senza alcun dubbio che i genitori si fossero opposti fin dall’inizio alle cure, manifestando la convinzione che la malattia di V. fosse nient’altro che un processo di rigenerazione cellulare, processo che sarebbe stato distrutto dalla chemioterapia, che invece di curare la figlia, l’avrebbe sicuramente uccisa. Dalle prove dibattimentali, inoltre, era anche emerso che la madre aveva espressamente chiesto di non parlare della malattia davanti alla figlia, che a suo dire era già traumatizzata dalla morte del fratello e di un’amica.
La Corte di Cassazione perciò, nell’ipotesi in esame, negava rilevanza al diritto della minore di esprimere il rifiuto delle cure, rilevanza che si sarebbe al limite potuta configurare che V. avesse spontaneamente rifiutato la chemio e i genitori si fossero invece adoperati concretamente per convincerla del contrario. Ipotesi che non solo non verificata, ma anzi veniva data prova dell’esatto opposto.
Il primo motivo di ricorso veniva dunque respinto.
Con il secondo motivo, i genitori rilevavano che il Tribunale dei Minori aveva sospeso la loro potestà genitoriale già dal 2016, di fatto esonerandoli da ogni responsabilità in merito alle scelte terapiche della figlia ed esautorandoli da ogni potere, giuridico e pratico, di convincerla a sottoporsi alla chemioterapia.
Anche questo motivo veniva respinto dagli ermellini, che rilevavano invece come l’ordinanza del Tribunale dei minori non fosse mai stata attuata, avendo i genitori continuato in pratica a gestire la figlia in ogni aspetto, arrivando persino a portarla con loro all’estero, proprio al fine di sottrarla alla chemioterapia, per poi fare ritorno in Italia senza avvisare i servizi sociali o l’ospedale.
Il rifiuto della cura salvavita e delle cure palliative anche nella fase più acuta e terminale della malattia era da ascriversi quindi integralmente ai genitori, che anche dopo l’ordinanza del Tribunale dei minori di fatto proseguivano a gestire la situazione della figlia.
Anche il secondo motivo di ricorso veniva quindi respinto.
Con il terzo motivo di ricorso, gli imputati lamentavano la mancanza di nesso causale tra condotta ed evento morte della figlia, data l’assenza di dimostrazione del fatto che, se essi avessero assunto un atteggiamento conciliativo nei confronti della chemio, la ragazza avrebbe accettato di sottoporsi alla terapia. Attenzione: il giudizio controfattuale (tipico dei ricorsi per Cassazione) non voleva accertare se l’attivazione del protocollo chemioterapico avrebbe impedito il decesso o rallentato il decorso della malattia, ma solo se la ragazza si sarebbe sottoposta alle cure, quand’anche i genitori avessero espresso un atteggiamento favorevole in merito.
Secondo la Corte di legittimità, il motivo di ricorso risultava inconferente rispetto ai rapporti familiari ed ai fatti come ricostruiti de accertati in prima e seconda istanza: la minore, infatti, aveva sempre fatto cieco affidamento sulle convinzioni dei genitori, a cui si era assuefatta e che aveva fatto proprie, in ragione della giovane età, senza mai avere la reale percezione del fatto che avrebbe potuto morire.
In conclusione, la ragazza aveva rifiutato le terapie perché aveva aderito pienamente alle idee dei genitori, compromettendo totalmente il rapporto fiduciario tra la malata e i medici curanti, che non avevano più alcun ascendente sulla giovane. Le idee degli imputati ingeneravano nella minore un falso convincimento che i trattamenti fossero dannosi per lei, determinando la formazione di una volontà viziata.
Per questi motivi, la Corte di Cassazione confermava le sentenze di primo e secondo grado, condannando i due genitori per omicidio colposo ai danni della figlia.

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