Repechage e onere probatorio a carico del datore di lavoro

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“In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo della esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l’illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono su quest’ultimo gli oneri di allegazione e di prova di esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del cd. repechage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro di utile ricollocazione del lavoratore”.
>>>Corte di Cassazione – Sez. L Civ. – Ordinanza n. 36657 del 14-12-2022<<<

Indice



1. La vicenda



I giudici d’appello rigettavano l’impugnazione di Tizio del licenziamento intimatogli dalla società Alfa per giustificato motivo oggettivo, ai sensi dell’art. 3 Legge 604/1966 e le conseguenti domande risarcitorie, condannando il lavoratore alla restituzione alla predetta società delle somme corrispostegli in esecuzione della sentenza di primo grado, riformata, la quale, oltre ad accertare l’illegittimità per difetto di giustificato motivo oggettivo, aveva condannato la società datrice al pagamento, in suo favore a titolo di indennità ai sensi dell’art. 8 l. cit., di 14 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Secondo la Corte distrettuale, risultavano dimostrate, in base alle scrutinate risultanze istruttorie, la chiusura della filiale cui Tizio era addetto, quale conseguenza della contrazione di mercato e della caduta degli utili, nonché l’effettiva impossibilità di una ricollocazione del dipendente nell’assetto organizzativo dell’impresa, essendo ben limitabile la platea dei lavoratori da licenziare, in quanto decisione non contraria a buona fede, agli addetti alla sola unità cui sia riferita la ristrutturazione aziendale, comportante la sua soppressione.

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2. Le censure

A questo punto, la vicenda approdava in Cassazione, davanti alla quale Tizio lamentava, in particolare:
la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2103, 2697 c.c., per mancata prova di adempimento dell’obbligo di repechage, nell’onere datoriale e invece posto a carico del lavoratore, essendo per giunta risultata l’assunzione, successivamente al licenziamento, di altri dipendenti con mansioni fungibili con le proprie e stato documentato l’annuncio di ricerca di nuovi agenti, con possibilità di assunzione successiva come funzionari di vendita.
la violazione e la falsa applicazione dell’art. 5 L. 223/1991, dal momento che i giudici del gravame non avevano applicato, alla stregua del principio di correttezza e buona fede, i criteri di scelta stabiliti dalla norma denunciata, in luogo di quello meramente geografico, sulla più vasta platea di lavoratori addetti anche alle altre sedi con mansioni fungibili a quelle proprie, nonostante la maggiore propria anzianità di servizio ed esperienza professionale, come risultante dalla prova orale valorizzata dal Tribunale.

 3. La pronuncia della Suprema Corte

La Suprema Corte nel ritenere le censure fondate, stabiliva che “In caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo, il lavoratore ha l’onere di dimostrare il fatto costitutivo della esistenza del rapporto di lavoro a tempo indeterminato così risolto, nonché di allegare l’illegittimo rifiuto del datore di continuare a farlo lavorare in assenza di un giustificato motivo, mentre incombono su quest’ultimo gli oneri di allegazione e di prova di esistenza del giustificato motivo oggettivo, che include anche l’impossibilità del cd. repechage, ossia dell’inesistenza di altri posti di lavoro di utile ricollocazione del lavoratore”.
Inoltre, i giudici di legittimità evidenziavano che in caso di licenziamento per giustificato motivo oggettivo a causa della soppressione del posto cui sia addetto il dipendente, il datore è tenuto a provare sia la non sussistenza al momento del licenziamento di alcuna posizione di lavoro analoga a quella soppressa per l’espletamento di mansioni equivalenti, sia, in attuazione del principio di correttezza e buona fede, di aver prospettato al lavoratore, senza ottenerne il consenso, la possibilità di un reimpiego in mansioni inferiori rientranti nel suo bagaglio professionale.
Secondo il Tribunale Supremo, in materia di licenziamento per motivo oggettivo, nell’ipotesi in cui la ristrutturazione aziendale sia riferita ad una specifica unità produttiva, contestualmente soppressa, non è contraria a buona fede la decisione aziendale di limitare la platea dei lavoratori da licenziare agli addetti della predetta unità ove risulti l’effettiva impossibilità di utile collocazione nell’assetto organizzativo dell’impresa, dal momento che non sussiste alcun automatismo nell’applicazione dei criteri di scelta previsti dall’art. 5 della L. n 223.
Nella vicenda esaminata, i giudici d’appello si erano limitati ad affermare in modo apodittico la non contrarietà a buona fede della limitazione della platea dei lavoratori da licenziare agli addetti alla filiale soppressa, senza accertare l’effettiva impossibilità di utile collocazione nell’assetto organizzativo dell’impresa.
 

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