Il reato di riciclaggio, definizione e caratteri

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Ai sensi dell’art. 1117 Cc, sono oggetto di proprietà comune, tra le altre, e sempre se il contrario non risulta dal titolo, tutte quelle parti dell’edificio necessarie all’uso comune, come il suolo su cui sorge l’edificio, le fondazioni, i muri maestri, i pilastri e le travi portanti, i tetti e i lastrici solari, le scale, i portoni di ingresso, i vestiboli, gli anditi, i portici, i cortili e le facciate.

A tal riguardo, infatti, vi è da sottolineare come la funzione principale del balcone è quella di consentire l’affaccio (prospicere) al proprietario dell’appartamento nel quale insiste, in altri termini, la sua destinazione è quella di consentire l’esercizio del diritto di veduta, esso pertanto costituisce parte dell’abitazione e, in alcuni, casi il prolungamento dell’unità immobiliare.

Tuttavia, appare pacifico che i rivestimenti della parte frontale e di quella inferiore, e quelli decorativi di fioriere, balconi e parapetti di un condominio, che assolvano ad una funzione estetica per l’edificio, risultano parti comuni, ex art. 1117 Cc, pertanto, le spese relative alla manutenzione devono essere suddivise tra tutti i condòmini, in relazione ai millesimi di proprietà di ciascuno.

Tanto ha confermato la Corte di Cassazione con la sentenza n. 21641, pubblicata in data 19 settembre 2017.

Una società condomina conveniva in giudizio il condominio, nella persona del legale rappresentante, chiedendo venisse ritenuta nulla ovvero annullata, la deliberazione assembleare con la quale si era stabilita la manutenzione e riparazione dei frontalini e delle fioriere dei balconi e dei terrazzi e che, i relativi costi, gravassero pro-quota tra tutti i condòmini, anziché solo sui rispettivi proprietari.

Si costituiva il condominio chiedendo il rigetto della domanda e, in via riconvenzionale, l’accertamento che la condomina attrice fosse tenuta al pagamento delle spese comuni.

Il Tribunale di Roma prima, e la Corte d’Appello poi, rigettavano la domanda, a nulla valendo l’evocato articolo 1 del regolamento condominiale, a mente del quale <<i proprietari dei balconi e dei terrazzi dovessero attenersi alle deliberazioni dell’assemblea circa la loro conservazione e manutenzione in perfetta uniformità di consistenza e di estetica>>, in considerazione del fatto che, rilevava la Corte d’Appello di Roma, la norma regolamentare si riferiva ai beni di proprietà esclusiva dei singoli condòmini.

Proposto ricorso per cassazione, in relazione all’errata interpretazione del regolamento di condominio, la Corte di Cassazione rigetta il ricorso e condanna la società condomina al rimborso in favore del condominio delle spese del giudizio di legittimità.

La Suprema Corte, per motivare l’anzidetto rigetto, previa declaratoria di inammissibilità della censura relativa all’interpretazione del regolamento, per avere omesso la ricorrente di riportare il contenuto delle disposizioni regolamentari, rileva, in ogni caso, <<che gli elementi esterni, quali i rivestimenti della parte frontale e di quella inferiore, e quelli decorativi di fioriere, balconi e parapetti di un condominio, svolgendo una funzione di tipo estetico rispetto all’intero edificio, del quale accrescono il pregio architettonico, costituiscono, come tali, parti comuni ai sensi dell’articolo 1117, n. 3, c.c., con la conseguenza che la spesa per la relativa riparazione ricade su tutti i condomini, in misura proporzionale al valore della proprietà di ciascuno (Cass., Sez. 2, n. 6624 del 30 aprile 2012, Rv. 622451 – 01; Cass., Sez. 2, n. 568 del 19 gennaio 2000, Rv. 532976 – 01)>>.

Per completezza, si evidenzia che, per quanto riguarda la tipologia di balcone più diffusa, quella aggettante, vale a dire i balconi che sporgono dalla facciata dell’immobile e, solitamente, risultano aperti sui tre lati e sono assicurati da una ringhiera o un parapetto, in applicazione dell’art. 1125 Cc, che le spese di manutenzione e ricostruzione del sottobalcone devono essere sostenute esclusivamente dai proprietari dei due piani l’uno all’altro sovrastanti, in parti uguali.

Infine, sempre a mente dell’art. 1125 Cc, le spese inerenti la pavimentazione del balcone, rimangono ad esclusivo carico del proprietario del piano dove insiste il balcone, mentre quelle relative all’intonaco, tinta e decorazione del sottobalcone restano a carico del proprietario dell’appartamento sottostante.

Fermo restando che, così come confermato dalla sentenza in commento, i rivestimenti e gli elementi decorativi della parte frontale o di quella inferiore, ovvero delle parti esterne delle terrazze, del parapetto e del sottotetto, quando si inseriscono nel prospetto dell’edificio ovvero contribuiscono a renderlo esteticamente gradevole, risultano di proprietà comune, e sono soggetti, pertanto, alla contribuzione pro-quota di tutti i condòmini, in relazione ai millesimi di proprietà.

 

Il riciclaggio di denaro è quell’insieme di comportamenti mirati a dare una parvenza lecita a capitali la provenienza dei quali è in realtà illecita, rendendone così più difficile l’identificazione e il successivo eventuale recupero.

 

In questo senso è di utilizzo comune la locuzione di riciclaggio di denaro sporco, uno dei fenomeni sui quali si appoggia la cosiddetta economia sommersa e costituisce un reato per il quale vale l’incriminazione per riciclaggio.

 

L’incriminazione del riciclaggio è considerato uno strumento nella lotta alla criminalità organizzata, caratterizzata da due momenti principali, quello dell’acquisizione di ricchezze con atti delittuosi e quello successivo della pulitura, facendo apparire leciti i profitti di provenienza delittuosa.

Si tratta di un reato è economico, politico e statale.

 

Il riciclaggio costituisce un “ponte” tra la criminalità e la società civile.

Si stima che i traffici di denaro illecito in Italia siano mediamente superiori al dieci per cento del prodotto interno lordo, e sono suscettibili di generare gravi distorsioni all’economia legale, alterando le condizioni di concorrenza e i meccanismi di allocazione delle risorse.

 

Tutelare il sistema economico significa, in primo luogo, impedire il reinvestimento nel processo produttivo delle ingenti somme di capitali “sporchi” prodotti dalla criminalità organizzata, intercettandoli nel momento del loro contatto con il sistema bancario e finanziario.

 

Riciclare denaro sporco è l’azione dell’investire i capitali illeciti in attività lecite.

 

Questa azione di “lavaggio” è un servizio offerto ad esempio da quegli istituti finanziari che beneficiano del cosiddetto segreto bancario, cioè quelli che non devono rendere conto della provenienza del denaro che viene in essi depositato.

Al denaro sporco viene fatta percorrere una serie di passaggi tra vari istituti, a volte passando attraverso paradisi fiscali o attraverso società offshore per ritornare pulito su un qualche conto corrente, pronto per essere utilizzato.

 

Altre forme comuni di riciclaggio sono investire in beni immobili, scommettere su eventi sportivi con elaborati sistemi che consentono al più di perdere esclusivamente una percentuale molto piccola sulle scommesse, oppure investire in società offshore sparse nel mondo.

 

Il riciclaggio è in genere vietato dagli ordinamenti giuridici.

Oltre alla deprecabilità delle condotte criminose a monte e il tentativo di mascherarle, esso genera inaccettabili distorsioni nel ciclo economico, alterando i normali meccanismi di accumulo della ricchezza e di approvvigionamento delle fonti di finanziamento.

 

In particolare, il riciclaggio genera fenomeni imprenditoriali che, a causa della facilità di reperimento dei capitali, sono più competitivi della concorrenza.

Agendo, spesso, nel commercio al dettaglio (settore più idoneo allo scopo criminoso, perché fa largo utilizzo di moneta contante), il riciclatore di denaro riesce a rilevare o mantenere lo stesso sul mercato attività poco o per niente remunerative, il quale unico scopo è restare aperte nonostante il passivo finanziario accumulato.

 

In questo modo egli riesce a praticare condizioni più vantaggiose, oppure a restare sul mercato nonostante situazioni di sovraffollamento del settore di riferimento, o ancora a garantire trattamenti lavorativi più appetibili e vantaggiosi.

 

In questo modo, da un lato la criminalità falsa i naturali meccanismi di concorrenza del mercato tenendo bassi i prezzi e provocando disoccupazione, e dall’altro si garantisce un consenso sociale che può sfruttare per perseverare nelle finalità illecite più disparate.

 

Queste attività, perché illegali, sono anche intrinsecamente instabili e precarie, a discapito anche delle garanzie economiche di coloro che vi prestano la loro attività lavorativa.

 

L’articolo 648 bis del codice penale, introdotto dal relativo decreto legge del 1978, incrimina chiunque “fuori dai casi del concorso nel reato, sostituisce o trasferisce denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto non colposo, ovvero compie in relazione ad essi operazioni, in modo da ostacolare l’identificazione della loro provenienza delittuosa”. Questa condotta è punita con la reclusione da quattro a dodici anni e con la multa da 5 000 a 25 000 euro.

 

La pena è aumentata quando il fatto è commesso nell’esercizio di un’attività professionale.

 

La pena è diminuita se il denaro, i beni o le altre utilità provengono da delitto per il quale è stabilita le pena della reclusione inferiore nel massimo a 5 anni.

 

Ai fini dell’integrazione della condotta criminosa è essenziale che il riciclatore sia estraneo al fatto illecito il quale frutto è il denaro o il bene riciclato e conosca la provenienza delittuosa di ciò che sostituisce o trasferisce.

 

Un’altra fattispecie rispetto al riciclaggio è quella prevista dall’articolo 648-ter del codice penale, introdotto dalla legge 55/1990.

Questa norma punisce “chiunque, fuori dei casi di concorso nel reato e dei casi previsti dagli articoli 648 e 648 bis, impiega in attività economiche o finanziarie denaro, beni o altre utilità provenienti da delitto”.

La sanzione penale è la medesima del riciclaggio, reclusione da quattro a dodici anni e multa da

5 000 a 25 000 euro.

Anche qui come per l’articolo 648 bis la multa prevista è stata depenalizzata, adesso prevista la multa da 1032 euro a 15493.

A dimostrare l’insidiosità delle condotte appena descritte, si evidenzia come entrambe siano aggravate dalla circostanza della commissione nell’esercizio di una attività professionale.

 

Con il termine collaterale si indicano azioni di ricapitalizzazione che servono a effettuare aumenti di capitale sociale a costo zero, senza alcun acquisto e deposito di garanzie reali a tutela degli azionisti.

Periti compiacenti certificano il deposito di garanzie a fronte dell’aumento di capitale e a tutela degli azionisti, che in realtà sono prive di valore legale, quali titoli di debito scaduti o azioni di società inesistenti, o che hanno terminato la loro attività.

Chi intende riciclare denaro di provenienza illecita, sottoscrive azioni prive di garanzie, ottenendo il versamento su conti correnti bancari delle società quotate degli aumenti di capitale e dell’eventuale sovrapprezzo raccolto.

 

Il sovrapprezzo è rilevante ad esempio nel caso di “scalate” di una società quotata o di una cordata di investitori su un’altra società, oppure nei casi di privatizzazione di società pubbliche, può arrivare ad essere una maggiorazione del 30% rispetto al valore di mercato del titolo, e in questo senso un’ulteriore opportunità di riciclaggio.

 

Entrando di diritto nella gestione aziendale in proporzione alle azioni sottoscritte, si assicurano di poter investire tali somme di denaro, come fossero depositate in conti correnti propri. La società ottiene la pubblicazione del bilancio, di coprire delle grosse perdite societarie, o un più agevole accesso al credito, beneficiando di migliori indicatori di bilancio (solvibilità e solidità finanziaria) attraverso un più alto rapporto fra capitale proprio e di terzi.

 

L’autoriciclaggio è il riciclaggio di denaro di provenienza illecita, compiuto dalla stessa persona che ha ottenuto tale denaro in maniera illecita.

 

L’articolo 648 ter.1, introdotto dalla legge 186/2014, incrimina chiunque “avendo commesso o concorso a commettere un delitto non colposo, impiega, sostituisce, trasferisce, in attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o speculative, il denaro, i beni o le altre utilità provenienti dalla commissione di tale delitto, in modo da ostacolare concretamente l’identificazione della loro provenienza delittuosa”.

Questa condotta è punita con la reclusione da 2 a 8 anni e la multa da 5 000 a 25 000 euro.

 

Nei casi nei quali il denaro, i beni o le altre utilità provengono dalla commissione di un delitto non colposo punito con la reclusione inferiore nel massimo a 5 anni, la pena è la reclusione da 1 a 4 anni e la multa da 2 500 a 12 500 euro.

 

Non sono punibili le condotte per le quali il denaro, i beni o le altre utilità ottenute con il crimine vengono destinate alla mera utilizzazione o al godimento personale, purché non ci sia stata l’intenzione di occultare i frutti del reato.

 

La pena è aumentata quando i fatti sono commessi nell’esercizio di un’attività bancaria o finanziaria o di altra attività professionale.

 

La pena è diminuita fino alla metà per chi si sia efficacemente adoperato per evitare che le condotte siano portate a conseguenze ulteriori o per assicurare le prove del reato e l’individuazione dei beni, del denaro e delle altre utilità provenienti dal delitto.

 

L’articolo 648 quater del codice penale, introdotto dal decreto legislativo 231/2007, dispone che in caso di condanna o patteggiamento i beni che costituiscono il prodotto od il profitto dei reati di riciclaggio, reimpiego e autoriciclaggio siano sempre sottoposti a confisca su ordine del giudice.

 

Il Pubblico Ministero può compiere ogni attività di indagine che si renda necessaria circa i beni, il denaro o le altre utilità da sottoporre a confisca.

 

 

 

 

 

Dott.ssa Concas Alessandra

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