Rapporto tra giudizio penale e giudizio disciplinare

sentenza 16/09/10
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Nel pubblico impiego opera, tra gli altri, il principio di autonomia della valutazione disciplinare rispetto alla valutazione operata sugli stessi fatti da parte del giudice penale.

Allo stesso tempo si ha l’imprescindibilità, nel giudizio disciplinare, delle prove di responsabilità emerse in sede penale in applicazione del principio di prevalenza della gravità oggettiva, ai fini disciplinari, dei fatti costituenti la responsabilità penale del dipendente, essendo sufficiente che tale valutazione sia effettuata e risulti nel provvedimento sanzionatorio.

Né, poi, il fatto accertato in sede penale subisce, in sede disciplinare, necessariamente un’attenuazione in ragione della natura dell’istituto processuale penale applicato quando questo sia il rito cd. patteggiato (ex artt. 444 ss. c.p.p.), il quale per espressa volontà legislativa (art. 445, c. 1, c.p.p.) non integra un vincolo per l’amministrazione nell’irrogazione della sanzione disciplinare.

Al contrario, il principio poi introdotto nell’ordinamento dall’ art. 445, c. 1 bis, c.p.p. reca esplicitamente, con riferimento ai giudizi civili ed amministrativi, l’equiparazione del “patteggiamento” ad una sentenza di condanna.

 

N. 06445/2010 REG.DEC.

N. 10321/2005 REG.RIC.

 

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Consiglio di Stato

in sede giurisdizionale (Sezione Quarta)


ha pronunciato la presente

DECISIONE

Sul ricorso numero di registro generale 10321 del 2005, proposto da:
Russo Angelo, rappresentato e difeso dagli avv.ti ******************* e ******************, con domicilio eletto presso **************** in Roma, via Panama, 13;

contro

Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, rappresentato e difeso dall’Avvocatura Generale dello Stato, domiciliato per legge in Roma, via dei Portoghesi, 12; Ministero della Giustizia;

per la riforma

della sentenza del T.A.R. CAMPANIA – NAPOLI: SEZIONE VII n. 08969/2005, resa tra le parti, concernente DESTITUZIONE DAL SERVIZIO A SEGUITO DI PROCEDIMENTO PENALE.

 

Visto il ricorso in appello con i relativi allegati;

Visto l’atto di costituzione in giudizio del Ministero della Giustizia – Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria;

Viste le memorie difensive;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 8 giugno 2010 il Consigliere **************** e udito l’Avvocato dello Stato *****************;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

 

FATTO

– Con ricorso al TAR della Campania il sig. ************, agente del Corpo di polizia penitenziaria, dopo l’espletamento di procedimento penale a suo carico conclusosi con sentenza ex art. 444 c. p. p., di condanna per <concorso in rapina a danno di una prostituta>, impugnava:

1- il decreto del Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del Ministero della Giustizia n. 258585/2002/13136 del 5.11.2002, con cui il ricorrente è stato destituito dal servizio a seguito di procedimento disciplinare;

2- la deliberazione del Consiglio Centrale di Disciplina del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria del 23 settembre 2002.

A sostegno dell’impugnativa il ricorrente deduceva:

a- poiché la procedura sanzionatoria è iniziata con la nota del 25.8.2000 (prot. n. 21723), con contestuale contestazione degli addebiti del 28/29.8.2000, e dopo tale data non è stato notificato alcun provvedimento, va dichiarata l’estinzione del procedimento disciplinare, ai sensi dell’art. 120 T.U. 10.1.1957, n. 3; se, invece, si dovesse ritenere che l’Amministrazione abbia fatto corretta applicazione dell’art. 9 del D. Lgs n. 449/92, la procedura sanzionatoria andava limitata solo ed esclusivamente all’ipotesi di destituzione collegata al patteggiamento da lui effettuato;

b- la procedura sanzionatoria avrebbe dovuto essere limitata solo ed esclusivamente all’ipotesi di destituzione collegata al patteggiamento effettuato dal ricorrente;

c- il ricorrente ha ricevuto notizia della ripresa del procedimento disciplinare con nota del 13.5.2002, che si è concluso con il decreto impugnato datato 5.11.2002, <a distanza di circa sei mesi dall’inizio della procedura, con evidente violazione dell’art. 6> del D.Lgs n. 449/92;

d- le richieste istruttorie del ricorrente effettuate in sede di procedimento disciplinare, sarebbero state disattese, essendo state prese a base della decisione le sole risultanze del processo penale;

– il Dipartimento di Polizia non si sarebbe limitato a contestargli i fatti e la violazione dei relativi doveri, ma avrebbe richiamato esplicitamente la sanzione che andava applicata, operando in tale maniera un condizionamento dei lavori della Commissione;

f- nell’impugnato provvedimento non emergerebbe alcuna valutazione in ordine <al carattere del ricorrente, all’impeccabile stato di servizio e alla giovanissima età dello stesso>.

Con la sentenza epigrafata il Tribunale amministrativo ha respinto il ricorso proposto.

Il Russo ha impugnato la sentenza del TAR, chiedendone l’annullamento alla stregua di mezzi ed argomentazioni riassunti nella sede della loro trattazione in diritto da parte della presente decisione.

Si è costituita nel giudizio l’amministrazione intimata dal ricorso in appello, resistendo al gravame.

Parte appellante ha riepilogato in memoria le proprie tesi e, alla pubblica udienza dell’8 giugno 2010, il ricorso è stato trattenuto in decisione.

DIRITTO

1.- La controversia sottoposta alla Sezione verte sulla legittimità di un provvedimento disciplinare di destituzione dal servizio, emesso nei confronti dell’appellato (agente di polizia penitenziaria) a seguito di procedimento penale; avverso la sentenza impugnata, che ha respinto il ricorso proposto dall’interessato, il gravame formula sei motivi di appello.

1.1 – La decisione del Tribunale amministrativo sarebbe anzitutto il frutto di un erroneo inquadramento della censura che aveva sostenuto l’estinzione del procedimento disciplinare causa il decorso del termine di 90 giorni senza il compimento di ulteriori atti del procedimento, ai sensi dell’art. 120 T.U. 10.1.1957; in particolare i giudici di prima istanza avrebbero sul punto proceduto ad un errata ricostruzione temporale degli eventi, non cogliendo che tra la data di conoscenza (22.4.2002) da parte dell’amministrazione della sentenza irrevocabile di condanna e quella di emanazione della sanzione (d.m. 5.11.2002) erano decorsi più di novanta giorni, configurandosi perciò il vizio di difetto di motivazione. La censura è infondata.

La sentenza del TAR, con riferimento alla fase procedimentale successiva alla notizia della sentenza penale, ha infatti osservato che in data 7.5.2002 il procedimento disciplinare è stato riavviato, proseguendo poi con la sostituzione in data 17.5.2002 del funzionario istruttore dott. ******* con la dott.ssa *****. Il predetto adempimento, che costituisce una scansione procedimentale, risulta quindi compiuto entro il novantesimo giorno dalla data di ricezione della notizia della sentenza, palesandosi che la prosecuzione del procedimento si è dispiegata nel rispetto del termine generale intermedio invocato dall’appellante.

1.2.- Il secondo mezzo di gravame riformula la tesi della decadenza dal potere sanzionatorio, criticando la decisione ove essa ha affermato che “il termine di 90 giorni (termine indubbiamente perentorio, secondo la Corte Costituzionale, cfr. n. 197/1999) comincia a decorrere dalla scadenza del periodo di 180 giorni e non dalla data in cui ha avuto effettivamente inizio il procedimento disciplinare”; secondo l’appellante il termine decorrerebbe invece dalla data di riattivazione del procedimento e pertanto nella specie sarebbe decorso al momento di emanazione della misura disciplinare . Anche questa argomentazione non può essere condivisa.

Il Collegio ritiene infatti non sussistano ragioni per discostarsi dall’interpretazione resa dal TAR, in corretta applicazione della menzionata giurisprudenza e per la quale il “dies a quo” deve essere individuato nella data di scadenza del periodo di 180 giorni dalla data di ricezione della notizia della sentenza penale. Ed invero l’art. 6, comma 4, del D. Lgs n. 449/92, dispone chiaramente che la destituzione di cui si tratta “è inflitta all’esito del procedimento disciplinare, che deve essere proseguito o promosso entro 180 giorni dalla data in cui l’Amministrazione ha avuto notizia della sentenza irrevocabile di condanna………… e concluso nei successivi 90 giorni”, vale a dire entro 270 giorni dalla predetta notizia. Alla stessa conclusione è pervenuta recente giurisprudenza in applicazione della disposizione generale di cui all’art. 9 della legge 7 dicembre 1990, n. 19 (Cons. di Stato, sez. IV, n. 1212/2009). Conseguentemente, poiché la contestata misura disciplinare è stata emessa il 5.11.2002, essa risulta assolutamente tempestiva rispetto alla data di comunicazione della sentenza penale.

1.3- Il terzo mezzo impugna la decisione ove, nel respingere il terzo motivo di ricorso (che lamentava la non valutazione in sede istruttoria disciplinare di altri elementi, a favore del dipendente) ha ritenuto di non poter prescindere dagli accertamenti emersi in sede di procedimento penale, anche considerato che la responsabilità del dipendente è stata evidenziata dalla circostanza dell’arresto in flagranza di reato. In particolare il non aver tenuto conto che la responsabilità del Russo è stata affermata con sentenza applicativa dell’istituto del “patteggiamento”(art. 444 c.p.p.) costituirebbe indice di una personale riprovazione del primo giudice nei confronti dell’evento oggetto, e ciò in contrasto col principio che obbliga ad un’autonoma valutazione dei fatti e di tutti gli elementi che possono condurre all’irrogazione di una sanzione disciplinare meno grave, anche in relazione al principio di proporzionalità. Premesso che il TAR non ha espresso alcuna riprovazione “personale” verso la condotta valutata ai fini del patteggiamento, il Collegio osserva che la sentenza, ribadito anzitutto proprio il principio di autonomia della valutazione disciplinare, ha invece posto in rilievo l’imprescindibilità delle prove di responsabilità emerse in sede penale , e che hanno poi costituito oggetto di valutazione in sede disciplinare. La motivazione della sentenza, su questo punto, fa in sostanza applicazione del principio di prevalenza della gravità oggettiva, ai fini disciplinari, dei fatti costituenti la responsabilità penale del dipendente, richiedendo sufficiente che tale valutazione sia effettuata e risulti nel provvedimento sanzionatorio (Cons. di Stato, sez. IV, n.5475/2008).

Né, del resto, il fatto penale accertato subisce, in sede disciplinare, necessariamente un’attenuazione in ragione della natura dell’istituto processuale penale applicato, il quale per espressa volontà legislativa (art. 445, c.1, c.p.p.) non integra in effetti un vincolo per l’amministrazione nell’irrogazione della sanzione disciplinare; al contrario, il principio poi introdotto nell’ordinamento dall’ art.445, c.1 bis, c.p.p. reca esplicitamente, con riferimento ai giudizi civili ed amministrativi, l’equiparazione del “patteggiamento” ad una sentenza di condanna. In questo senso si è peraltro già espressa la giurisprudenza della Sezione (Cons. St., sez. IV, 7 giugno 2004 n. 3619; sez. VI, 27 maggio 2003 n. 2955; sez. IV, 14 aprile 1033) che ha anche ribadito che nel procedimento disciplinare non occorrono autonomi accertamenti per i fatti non controversi o per quelli esaurientemente accertati in sede penale con la sentenza applicativa della pena su richiesta.

Correttamente pertanto, e conclusivamente sul punto, la sentenza ha affermato che:

– i fatti addebitati al ricorrente sono stati oggetto di autonoma valutazione da parte dell’Amministrazione e che questa ha ritenuto che i medesimi fossero incompatibili con il delicato compito svolto dagli Agenti di Polizia Penitenziaria, integrandosi perciò l’ipotesi di cui all’art. 6, comma 2, lett. a), b), d) del D. Lgs 449/92.

– A fronte dei fatti medesimi, hanno assunto valenza secondaria gli altri elementi , pur positivi, sulla personalità e lo stato di servizio del ricorrente, emersi nel corso dell’istruttoria, che avrebbero potuto avere rilevanza in presenza di comportamenti di minore gravità.

1.4.- Anche il quarto motivo d’appello non ha fondamento. Esso rinnova la censura di primo grado secondo la quale il Dipartimento di Polizia non si sarebbe limitato a contestargli i fatti e la violazione dei relativi doveri, ma avrebbe richiamato esplicitamente la sanzione che andava applicata, operando in tale maniera un condizionamento dei lavori della Commissione. Il TAR ha respinto il motivo argomentando che non risulta affatto provato che il Consiglio Centrale di Disciplina sia stato condizionato da alcunché, avendo comunque preso a base della decisione i fatti addebitati al ricorrente. L’appellante sostiene che si tratta di una motivazione superficiale, poiché la violazione della procedura sarebbe invece documentalmente dimostrata dal fatto che, a fronte del divieto di configurare la proposta (recato dall’art. 10 del d.l.vo n.449/1992), l’amministrazione ha applicato la destituzione proposta.

In contrario il Collegio rileva che l’aver adottato la destituzione non costituisce affatto prova che essa sia pedissequa e condizionata applicazione della proposta, e non piuttosto il risultato del necessario e corretto procedimento logico-valutativo che deve legare i fatti addebitati con le misure sanzionatorie offerte dall’ordinamento. Resta peraltro fermo che nessuna prova del sostenuto condizionamento è stata offerta da parte ricorrente ed appellante.

1.5.- Il quinto motivo ripropone la doglianza sulla mancata valutazione degli altri elementi (trattata al motivo sub 1.3), lamentando in particolare che il TAR ha erroneamente affermato che gli stessi (individuati nel carattere, nello stato di servizio e nell’età del dipendente) avrebbero potuto essere considerati solo in caso di fatti di lieve entità.

Su tali aspetti il Collegio si è già pronunziato in quella sede e pertanto ad essa fa rinvio.

1.6.- Il sesto ed ultimo ordine di censure è inammissibile. Il medesimo non reca infatti critiche alla decisione impugnata ma, facendo riferimento alla produzione documentale del giudizio di primo grado formula una serie di profili di difetto di motivazione a carico della misura sanzionatoria adottata.

Trattasi evidentemente di nuove censure in sede d’appello, che avrebbero dovuto essere oggetto di motivi aggiunti in primo grado.

2- Conclusivamente, per le ragioni sopra esposte, l’appello deve essere respinto.

3- Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza (art. 91 c.p.c) e vanno quindi poste a carico dell’appellante e liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (sezione IV), definitivamente pronunziando in merito al ricorso in epigrafe, respinge l’appello.

Condanna l’appellante al pagamento, in favore del Ministero della Giustizia, delle spese del presente grado di giudizio, che liquida complessivamente in Euro tremila, oltre accessori.

Ordina che la presente decisione sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Roma nella camera di consiglio del giorno 8 giugno 2010 con l’intervento dei Signori:

**************, Presidente

Vito Poli, Consigliere

****************, Consigliere

Sandro Aureli, Consigliere

****************, ***********, Estensore

 

DEPOSITATA IN SEGRETERIA

Il 31/08/2010

(Art. 55, L. 27/4/1982, n. 186)

Il Dirigente della Sezione

sentenza

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