Rapporto di lavoro a tempo parziale: è discriminazione l’imposizione di una durata di contribuzione superiore (CGE C–385/2011)

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Massima

E’ discriminatoria la normativa spagnola in tema di pensioni di vecchiaia contributiva dei prestatori di lavoro a tempo parziale; ciò in quanto tale disciplina impone agli stessi una durata di contribuzione proporzionalmente superiore, e di conseguenza, determina una disparità e discriminazione nel trattamento.

 

  

1.     Premessa

Nella decisione in commento del 22 novembre  2012, n. C- 385/2011 i giudici della Corte di Giustizia CE – UE hanno precisato che la normativa spagnola in materia di pensioni di vecchiaia (contributiva) dei lavoratori a tempo parziale è discriminatoria.

Tale disciplina imponendo ai prestatori di lavoro con contratto a tempo parziale (1) una durata della contribuzione proporzionalmente superiore determina, per ciò, una disparità di trattamento.

Al fine di poter beneficiare di una pensione di vecchiaia contributiva, in Spagna, è necessario aver:

–         raggiunto i 65 anni di età;

–         compiuto un periodo minimo di contribuzione di 15 anni.

Ai fini della determinazione dei richiesti periodi contributivi, la disciplina de qua tiene conto, in via esclusiva, delle ore effettivamente lavorate, calcolando la loro equivalenza in giorni “teorici” di contribuzione.

Una simile regola viene attenuata da due misure di correzione, allo scopo di facilitare l’accesso alla tutela previdenziale dei prestatori di lavoro a tempo parziale.

La sopra citata nozione di “giorno teorico di contribuzione” viene definita quale corrispondente a 5 ore quotidiane di lavoro effettivo (2).

Ai fini, inoltre, della concessione del diritto alle prestazioni di vecchiaia, è applicata una specifica regola, che consiste in un coefficiente moltiplicatore pari ad 1,5, applicato ai citati giorni teorici di contribuzione.

Gli stessi, quindi, vengono aumentati, facilitando l’accesso alla tutela.

 

2.     La fattispecie

 

La domanda di pronuncia pregiudiziale verte sull’interpretazione della clausola 4 dell’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale (3) figurante in allegato alla direttiva 97/81/CE del Consiglio, del 15 dicembre 1997, relativa all’accordo quadro sul lavoro a tempo parziale concluso dall’UNICE, dal CEEP e dalla CES (4), nonché sull’interpretazione degli articoli 157 e 4 della direttiva 2006/54/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 5 luglio 2006, riguardante l’attuazione del principio delle pari opportunità e della parità di trattamento o fra uomini e donne in materia di occupazione e impiego e dell’articolo 4 della direttiva 79/7/CE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale.

L’articolo 4, paragrafo 1, della direttiva 79/7 così recita:

«Il principio della parità di trattamento implica l’assenza di qualsiasi discriminazione direttamente o indirettamente fondata sul sesso, in particolare mediante riferimento allo stato matrimoniale o di famiglia, specificamente per quanto riguarda:

– il campo d’applicazione dei regimi e le condizioni di ammissione ad essi,

– l’obbligo di versare i contributi e il calcolo degli stessi,

– il calcolo delle prestazioni, comprese le maggiorazioni da corrispondere per il coniuge e per le persone a carico, nonché le condizioni relative alla durata e al mantenimento del diritto alle prestazioni».

Nella fattispecie concreta la ricorrente aveva svolto per 18 anni attività lavorativa solo quale collaboratrice domestica per un condominio.

Tale attività, a tempo parziale, veniva prestata in ragione di 4 ore settimanali (5).

Giunta all’età di 66 anni la sig.ra provvedeva alla richiesta della pensione di vecchiaia presso il competente istituto nazionale di previdenza sociale; che però negava tale diritto sulla base del rilievo che la sig.ra non soddisfaceva il requisito del periodo minino di contribuzione previsto, ovvero 15 anni.

Il Juzgado de lo Social de Barcelona ha deciso di sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte le seguenti questioni pregiudiziali:

«1) Se la nozione di “condizione di impiego” cui fa riferimento il divieto di discriminazione enunciato nella clausola 4 della direttiva 97/81 possa essere applicata ad una pensione di vecchiaia di tipo contributivo come quella prevista dal sistema di previdenza sociale spagnolo, derivante dai contributi versati da e a favore del lavoratore nel corso della sua intera vita lavorativa.

2) Nel caso di risposta affermativa alla prima questione, e considerando, dunque, che una pensione di vecchiaia di tipo contributivo come quella prevista dal sistema di previdenza sociale spagnolo rientri nella nozione di “condizione di impiego” cui fa riferimento la clausola 4 della direttiva 97/81, se il divieto di discriminazione enunciato in detta clausola debba essere interpretato nel senso che impedirebbe, oppure osterebbe a, una norma nazionale che – in seguito alla doppia applicazione del principio del pro rata temporis – esiga per i lavoratori a tempo parziale, rispetto ai lavoratori a tempo pieno, un periodo contributivo proporzionalmente maggiore perché accedano, a loro volta, a una pensione di vecchiaia di importo ridotto in proporzione alla minor durata dell’orario di lavoro.

3) A titolo di questione complementare alle precedenti, se un sistema come quello spagnolo (esposto nella VII disposizione integrativa della LGSS) relativo al versamento dei contributi, accesso e quantificazione della pensione di vecchiaia per i lavoratori a tempo parziale, possa essere considerato come un “aspetto o condizione delle retribuzioni” cui fa riferimento il divieto di discriminazione enunciato all’articolo 4 della direttiva 2006/54 e all’articolo 157 TFUE (…).

4) A titolo di questione alternativa alle precedenti, nel caso in cui la pensione di vecchiaia contributiva spagnola non possa essere intesa né come “condizione di impiego” né come “retribuzione”, se il divieto di discriminazione diretta o indiretta basata sul sesso, enunciato all’articolo 4 della direttiva 79/7, debba essere interpretato nel senso che impedisca, oppure osti a una norma nazionale che – in seguito alla doppia applicazione del principio del pro rata temporis – esiga per i lavoratori a tempo parziale (per la stragrande maggioranza donne), rispetto ai lavoratori a tempo pieno, un periodo contributivo proporzionalmente maggiore perché accedano, a loro volta, a una pensione di vecchiaia di importo ridotto in proporzione alla minor durata dell’orario di lavoro».

 

 

3. Conclusioni

Il giudice in materia previdenziale (4) chiedeva alla Corte di Giustizia se la Direttiva (6) sulla parità di trattamento tra uomini e donne in materia di previdenza sociale ammetteva  la normativa spagnola.

Il giudice rileva che “poiché la normativa spagnola tiene conto solo delle ore lavorate e non dei periodi di contribuzione” (7) la stessa implica una duplice applicazione del principio del prorata temporis.

Da ciò ne consegue che al prestatore di lavoro a tempo parziale viene chiesto (8) un periodo di carenza maggiore, inversamente proporzionale alla riduzione del tempo di lavoro (9).

Nella concreta fattispecie esaminata dalla decisione in commento l’applicazione della normativa spagnola implica che i contributi versati equivalgono a contributi corrispondenti ad un periodo inferiore a 3 anni.

Secondo quanto precisato dal giudice nella ricostruzione effettuata, la ricorrente, di tal guisa, avrebbe dovuto lavorare per 100 anni al fine di poter soddisfare il periodo di carenza minimo richiesto, ovvero 15 anni, che le avrebbe consentito l’ottenimento di una pensione di vecchiaia pari ad E. 112,93.

Nella sentenza in commento, quindi, la Corte ha affermato che la direttiva sulla parità di trattamento tra donne e uomini in materia di sicurezza sociale osta alla normativa spagnola, che, come visto, impone ai lavoratori a tempo parziale (rispetto a quelli a tempo pieno) un periodo di contribuzione di durata proporzionalmente superiore al fine di poter beneficiare di una pensione di vecchiaia contributiva, ove l’importo è già ridotto in maniera proporzionale al tempo di lavoro.

I giudici della Corte di Giustizia, nella sentenza del 22 novembre 2012 n. C 385/2011 hanno precisato che vi è discriminazione indiretta ogni qualvolta l’applicazione di un provvedimento nazionale, anche se formulato in maniera neutra, vada a sfavorire, di fatto, un numero elevato di donne piuttosto che di uomini.

Una simile normativa nazionale è in assoluto contrasto con la sopra menzionata direttiva costituendo, di conseguenza, una discriminazione indiretta.

Precisa, in ogni caso, la Corte che la citata normativa nazionale potrebbe essere giustificata da fattori obiettivi nonché estranei a qualsivoglia discriminazione fondata sul sesso.

 

Manuela Rinaldi   
Avvocato foro Avezzano Aq – Dottoranda in Diritto dell’Economia e dell’Impresa Università La Sapienza, Roma, Proff. Maresca – Santoro Passarelli; Tutor di Diritto del Lavoro c/o Università Telematica Internazionale Uninettuno (UTIU), Docente prof. A. Maresca; Docente in corsi di Alta Formazione Professionale e Master; già docente a contratto a.a. 2009/2010 Diritto del Lavoro e Diritto Sindacale Univ. Teramo, facoltà Giurisprudenza, corso Laurea Magistrale ciclo unico, c/o sede distaccata di Avezzano, Aq; Docente in Master e corsi di Alta Formazione per aziende e professionisti.

 

 

_________ 

(1) Categoria composta per la maggior parte da donne lavoratrici.

(2) Ovvero 1826 ore annuali.

(3) Concluso il 6 giugno 1997.

(4) Come modificata dalla direttiva 98/23/CE del Consiglio, del 7 aprile 1998.

(5) Ossia il 10% dell’orario di lavoro vigente in Spagna (40 ore settimanali).

(6) Juzgado de lo Social de Barcelona.

(7) Direttiva 79/7/CEE del Consiglio, del 19 dicembre 1978, relativa alla graduale attuazione del principio di parità di trattamento tra gli uomini e le donne in materia di sicurezza sociale (GU L 6, pag. 24).  L’articolo 1, della direttiva 79/7 così dispone «Scopo della presente direttiva è la graduale attuazione, nel campo della sicurezza sociale e degli altri elementi di protezione sociale di cui all’articolo 3, del principio della parità di trattamento tra uomini e donne in materia di sicurezza sociale, denominato qui appresso «principio della parità di trattamento».

(8) Ovvero i giorni lavorati.

(9) Per quanto concerne i contributi.

(10) L’importo viene già proporzionalmente e direttamente ridotto per effetto della tipologia contrattuale, ovvero del carattere parziale del tempo di lavoro.

Sentenza collegata

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