Rapporti tra il processo penale e il processo tributario

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di Maurizio Villani e Lucia Morciano

Inammissibile la richiesta di pregiudiziale penale nel processo tributario

E’ opportuno verificare se possa  trovare applicazione nel giudizio tributario l’articolo 295 c.p.c. che prevede la sospensione necessaria del giudizio in ogni caso in cui il giudice stesso o altro giudice deve risolvere una controversia, dalla cui definizione dipende la decisione della causa, qualora sia pendente procedimento penale avente carattere pregiudiziale rispetto all’oggetto del giudizio tributario.

L’art. 295 c.p.c. prevede la sospensione necessaria del processo qualora, dinanzi allo stesso o ad altro giudice, penda una controversia dalla quale dipenda la decisione della causa .

I requisiti previsti dalla predetta norma sono:

  1. a) rapporto di dipendenza si verifica confrontando gli elementi fondanti delle due cause, quella pregiudicante e quella pregiudicata;
  2. b) necessità che i fatti siano conosciuti e giudicati secondo diritto allo stesso modo;

c ) stato di incertezza del giudizio derivante dai fatti in cui versa, poiché controversi tra le parti.

La Suprema Corte  limita il campo di applicazione dell’art. 295 c.p.c. al solo spazio temporale  della contemporanea pendenza dei due giudizi in primo grado, senza che quello pregiudicante sia stato ancora deciso

La presenza di tali requisiti, tali da giustificare la necessità della sospensione del giudizio dipendente, cessa quando nel processo sulla causa pregiudicante sia sopravvenuta la decisione di primo grado, non essendo all’occorrenza necessario che tale decisione passi in giudicato( Cass. S.U., 19.06.2012 n° 10027 )

Ne consegue che, “quando tra due giudizi esista rapporto di pregiudizialità, e quello pregiudicante sia stato definito con sentenza non passata in giudicato, è possibile la sospensione del giudizio pregiudicato soltanto ai sensi dell’art. 337 cod. proc. civ.” (Cass. , S.U. , 19.06.2012 n° 10027 Cass. civ., sez. III, ord. 29 agosto 2008 n. 21924).

Nel processo tributario, trovano applicazione sia l’art. 295 c.p.c. , nei limiti di cui all’art. 1, comma 2, D.lgs 546/92, sia l’art. 39 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, che limita i casi di sospensione del giudizio all’eventualità che sia presentata querela di falso o debba essere decisa in via pregiudiziale una questione sullo stato o la capacità delle persone; l’art.39 predetto regola unicamente i rapporti esterni, ovvero sia i rapporti tra processo tributario e processi non tributari, e non anche i rapporti interni fra processi tributari, per i quali valgono le disposizioni del codice di procedura civile, tra cui il disposto dell’art. 295 c.p.c.

Occorre, al riguardo, accertare se sussiste una delle condizioni che giustificano la sospensione necessaria del processo, al fine di verificare l’applicabilità della disposizione di cui all’art. 295 c.p.c., e cioè la sussistenza di un giudizio   pregiudiziale  “dalla cui definizione dipende la decisione della causa”.

Deve, cioè, trattarsi non solo di un giudizio pregiudiziale in senso logico-giuridico, ma occorre anche un vincolo di  “necessarietà”, individuabile nella assoluta e imprescindibile  rilevanza della causa pregiudiziale nel giudizio da sospendere, nel senso che dalla definizione del giudizio penale deve dipendere la decisione della causa tributaria.

Va, quindi,  escluso il rapporto di dipendenza “necessaria”  tra causa penale pregiudiziale e giudizio tributario; per tale motivo, si ritiene che non sia ammissibile la sospensione del giudizio, in caso di pendenza di giudizio penale pregiudiziale sugli stessi fatti.

A tal proposito, la Corte Costituzionale, nelle occasioni in cui si è pronunciata in termini d’illegittimità della c.d. pregiudiziale tributaria al processo penale, ha censurato non l’istituto in sé, ma la sua previsione senza alcuna valida giustificazione.

Con la legge n. 516/1982 il legislatore ha colto l’occasione per svincolare il processo penale dai tempi dell’accertamento amministrativo e del processo tributario per consentire uno sviluppo in autonomia delle rispettive procedure, accettando anche l’eventualità di un contrasto di epiloghi, pur di evitare un ritardo nella repressione penale.

Pertanto, la regola secondo cui il processo tributario inizia, prosegue e si conclude anche in pendenza  del procedimento penale comporta, di conseguenza, che il processo tributario è autonomo da quello penale e tale autonomia toglie senso, sia al fatto che un tipo di processo debba attendere l’esito dell’altro, sia che l’esito finale di un processo vincoli ad analogo esito quello ancora non conclusosi.

Sul punto, è intervenuta la Corte Costituzionale con diverse pronunce nelle quali ha escluso che l’accertamento dell’imposta, divenuto definitivo in conseguenza della decisione di una Commissione Tributaria, vincoli il giudice penale;con queste decisioni la Consulta ha rafforzato  ulteriormente  l’obiettivo che si poneva il codice penale del 1988, che mirava a evitare  i contrasti tra giudicati attraverso l’introduzione del principio generale della separazione  tra azione penale, civile e amministrativa e dell’autonomia dei rispettivi procedimenti (Corte Cost, 19 gennaio 1993, n.5).

Il quadro normativo, caratterizzato dalla coincidenza tra la lex generalis (codice di rito penale) e la lex specialis ( legge n. 516/1982), trova altresì conferma nel Dlgs n. 546/1992, il cui art. 39 prevede, tra le  cause di sospensione del processo tributario, quella della presentazione di una “querela di falso”.

Il giudice a quo (Commissione Tributaria Provinciale di Napoli) solleva la questione di legittimità costituzionale di predetta norma affermando che, mentre prevede taluni casi di sospensione del processo tributario per pregiudiziale non penale, esclude la sospensione del processo tributario per pregiudiziale penale e, sotto tale profilo, pone i presupposti per la violazione dei diritti costituzionali del contribuente/imputato nei casi in cui costui dovrebbe esibire in sede tributaria documenti utili per la difesa, ma non può esibirli perché oggetto di sequestro in sede penale.

Infatti, secondo il giudice rimettente, il caso concreto si potrebbe risolvere  solo consentendo al processo tributario di attendere la conclusione del processo penale.

Per tale motivo, a parere del giudice a quo, la scelta legislativa dell’esclusione di sospensione del processo tributario in attesa dell’esito del giudizio penale, dovrebbe essere attenuata con la previsione di una sospensione facoltativa del processo tributario per pregiudiziale penale, ove addirittura non si ritenga opportuno “obbligare la Commissione Tributaria, davanti alla quale pende il ricorso […], a sospendere il processo sino all’esito del giudizio penale, anche al di là dei casi tassativamente previsti dalla legge, nell’ipotesi in cui si verifichino situazioni processuali analoghe a quella di cui al giudizio de quo”.

In conclusione, il giudice rimettente chiede al Giudice delle Leggi d’intervenire sul sistema dei rapporti tra processo tributario e processo penale, sostituendo al difetto  della pregiudiziale tributaria al processo penale la previsione di una pregiudiziale (se non obbligatoria, almeno facoltativa) penale al processo tributario.

La Corte Costituzionale ha dichiarato inammissibile la censura di incostituzionalità dell’art. 39 D.L.gs n. 546/92, stante la reciproca autonomia del processo penale e del processo tributario (Corte Costituzionale, ord. 24.11.2010,n. 335).

In primo luogo, la Consulta  mette in evidenza il fatto che se si vuole censurare la vigente disciplina dei“ rapporti tra procedimento penale e processo tributario”, occorre fare riferimento all’art. 20 Dlgs n.74/ 2000 che dispone: “il procedimento amministrativo di accertamento e il processo tributario non possono essere sospesi per la pendenza del procedimento penale avente a oggetto i medesimi fatti o fatti dal cui accertamento comunque dipende la relativa definizione”.

La Corte Costituzionale, inoltre, ammonisce il giudice a quo precisando che la disciplina normativa menzionata fa riferimento a tutt’altre ipotesi di sospensione (art. 39 Dlgs n.546/1992), compiendo un errore materiale che dimostra un non chiarezza sulla normativa da parte del giudice a quo.

Infatti, anche qualora fosse rimossa la norma denunciata con una declaratoria d’illegittimità costituzionale, rimarrebbe l’art. 20 del Dlgs n. 74/2000 a vietare la sospensione del processo tributario per pendenza del procedimento penale, cosicché la pronuncia richiesta sarebbe inutiliter data.

Il Giudice delle Leggi continua dicendo che la declaratoria d’illegittimità è l’extrema ratio per tutelare i valori costituzionali compromessi, ma è compito del giudice a quo verificare se non ci siano soluzioni diverse,  allo stesso modo percorribili, che possano tutelare predetti diritti.

Infatti, tale risultato può essere conseguito applicando l’art. 7 del Dlgs n.546/1992, che attribuisce alla Commissione Tributaria, ai fini istruttori, facoltà di accesso, di richiesta di dati, d’informazioni e di chiarimenti.

La Consulta ha  ravvisato il difetto di motivazione sulla questione di legittimità sollevata dal giudice a quo, poiché quest’ultimo non ha neppure affermato di aver avanzato richiesta di dati all’autorità giudiziaria penale procedente e di aver ottenuto un rifiuto o una non risposta.

L’efficacia della sentenza penale nel processo tributario e l’autonoma valutazione degli elementi probatori

La sentenza della Suprema Corte, la n. 9442/2017  ribadisce le argomentazioni già sostenute, in sede rescindente, dal precedente arresto della stessa Corte(Cass.n. 25102/2008) e scaturisce dall’impugnazione del giudice di secondo grado, effettuata in sede rescissoria.

Predetta sentenza si caratterizza per l’assenza di un’autonoma riflessione sulla fondamentale tematica degli effetti che producono nel processo tributario, sia delle sentenze penali  irrevocabili, sia delle prove acquisite nel processo penale e ritualmente prodotte innanzi al giudice tributario.

La Corte di Cassazione afferma che il giudice è tenuto a valutare predette sentenze passate in giudicato, nonché le prove raccolte in sede penale, secondo il suo prudente apprezzamento, in assenza di una pregiudiziale tributaria e di un’automatica efficacia di queste prove sul versante del processo tributario. Di tale argomentazioni seguite dal Supremo Consesso si darà conto di seguito.

Nella sentenza n. 9442/2017, come anzidetto, la giurisprudenza di legittimità fa proprio il precedente giurisprudenziale espresso nella sentenza n. 25102/2008, nella quale si afferma che il giudice  tributario deve valutare autonomamente la sentenza penale e può fondare il suo convincimento anche sulle prove acquisite nel processo penale “secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario”, con un prudente apprezzamento “degli elementi probatori acquisiti nel processo penale, i quali possono, quantomeno, costituire fonte legittima di prova presuntiva”.

La sentenza in esame non si discosta dalle argomentazioni contenute nella precedente sentenza, la n. 25102/2008, non fornisce alcun valore aggiunto ma si pone in linea di continuità rispetto alla giurisprudenza di legittimità consolidata.

A questo punto, occorre fare chiarezza su quanto espresso dalla Suprema Corte in riferimento all’efficacia della sentenza penale nel processo tributario e alla valutazione degli elementi probatori.

Con riferimento all’insussistenza di un’efficacia vincolante della sentenza penale definitiva, sia essa di condanna o di assoluzione, è opportuno esaminare l’art. 654 c.p.p. che sottopone  tale efficacia vincolante a molteplici requisiti.

Da ciò ne discende che predetta sentenza può produrre un effetto vincolante nel processo tributario solo qualora l’Amministrazione Finanziaria si sia costituita o sia intervenuta nel processo penale, in qualità di parte civile.

Sotto un altro profilo, invece, l’efficacia vincolante del giudicato penale è subordinata alla pronuncia in seguito al dibattimento.

In ultimo, occorre rilevare  che il sistema dell’istruzione probatoria è differente nei due predetti processi e ciò osta all’efficacia vincolante del giudicato  ex art. 654 c.p.p. E’ noto, infatti, che nel processo tributario non sono ammessi, alla luce dell’art.7 c.4 del Dlgs n. 546/1992, il giuramento e la prova testimoniale tipica; per di più, gli Uffici tributari possono legittimamente avvalersi in alcuni casi delle presunzioni, anche se non sono connotate dai requisiti di gravità, precisione e concordanza.

Dall’altra parte, nel processo penale, gli indizi dai quali si desume “l’esistenza di un fatto” devono essere gravi, precisi e concordanti (art. 192 comma c.p.p.).

Pertanto, il Giudice Tributario non può limitarsi a rilevare l’esistenza di una sentenza definitiva in materia di reati tributari, estendendone automaticamente gli effetti con riguardo all’azione accertatrice del singolo ufficio tributario, ma, nell’esercizio dei propri autonomi poteri di valutazione della condotta delle parti e del materiale probatorio acquisito agli atti (art. 116 c.p.c) deve, in ogni caso, verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui esso è destinato ad operare.

Nel processo tributario il giudice può legittimamente fondare il proprio convincimento anche sulle prove acquisite nel giudizio penale e anche nel caso in cui questo sia stato definito con una pronuncia non avente efficacia di “giudicato opponibile” in sede giurisdizionale diversa da quella penale, purché proceda ad una propria ed autonoma valutazione, secondo le regole proprie della distribuzione dell’onere della prova nel giudizio tributario, degli elementi probatori acquisiti nel processo penale, i quali possono, quantomeno, costituire fonte legittima di prova presuntiva.

Diverse sono state le pronunce della giurisprudenza di legittimità in merito all’utilizzabilità nel processo tributario delle prove acquisiste nel giudizio penale.

Secondo la Suprema Corte, il Giudice Tributario non può negare in linea di principio che l’accertamento contenuto in una sentenza di proscioglimento pronunciata ai sensi dell’art. 425 c.p.p. possa costituire fonte di prova presuntiva, ma deve previamente compiere una sua autonoma valutazione degli elementi acquisiti in sede penale (Cass. 2/12/2002, n. 17037).

Inoltre, la parte anche in appello può produrre una sentenza penale diretta a provare la fondatezza  della propria tesi difensiva, sostenuta sin dal ricorso introduttivo del giudizio, non incorrendo nel divieto di eccezioni nuove, di cui all’art. 57 del d.lgs. n. 546 del 1992; infatti, trattandosi di allegazione di un nuovo documento, è pienamente ammissibile ai sensi dell’art. 58 dello stesso decreto, a prova di un’argomentazione difensiva già espressa e non della formulazione di un nuovo motivo di illegittimità dell’atto impugnato, o di una nuova eccezione (Cass. 25/05/2009 n. 12022).

La legittima utilizzabilità degli atti del procedimento penale nel giudizio tributario non è ostacolata  dal fatto che l’autorizzazione al rilascio di copie, estratti e certificati di quel procedimento, richiesti dall’Amministrazione Finanziaria, sia stata rilasciata dal pubblico ministero anziché dal giudice per le indagini preliminari procedente (Cass. 3/08/2007, n. 17137; Cass. n. 9320/2003).

Il provvedimento di archiviazione di un processo penale non solo non impedisce che lo stesso fatto sia diversamente valutato e qualificato dal giudice civile o tributario, ma, proprio perché presuppone la mancanza di un processo, comporta che i fatti presi in considerazione in sede penale ai fini del reato di evasione fiscale debbano necessariamente essere autonomamente verificati dal giudice tributario, al fine di stabilirne la rilevanza nell’ambito specifico in cui l’accertamento di quei fatti è destinato ad operare (Cass. 18/05/2007, n. 11599, Cass. n 6337/2002; Cass. n 9109/2002; Cass. n. 10945/2005).

Le questioni non ancora compiutamente chiarite dalla giurisprudenza di legittimità attengono l’utilizzabilità nel giudizio tributario di atti ritenuti inammissibili e, quindi, non utilizzabili nel processo penale.

La giurisprudenza della Suprema Corte è orientata, con riferimento all’utilizzabilità degli atti penali nel processo tributario nel caso di mancata o illegittima autorizzazione dell’Autorità giudiziaria, ad affermare che ciò non rende  inutilizzabili gli atti acquisiti da parte del giudice tributario.

La mancanza dell’autorizzazione da parte dell’autorità giudiziaria, prevista per la trasmissione di atti, documenti e notizie acquisiti nell’ambito di un indagine o un processo penale, non determina la inutilizzabilità degli elementi probatori sui quali sia stato fondato l’accertamento tributario, rendendo invalidi gli atti del suo esercizio o la decisione del giudice tributario, in quanto il principio di inutilizzabilità della prova irritualmente acquisita è norma peculiare del procedimento penale e non costituisce, invece, principio generale dell’ordinamento giuridico (Cass. 20/01/2010, n. 85).

Per il procedimento tributario non sussiste la previsione di inutilizzabilità degli elementi acquisiti in sede di verifica, in assenza di autorizzazione dell’autorità giudiziaria, in quanto in tema di IVA, l’autorizzazione dell’autorità giudiziaria, per l’utilizzazione a fini tributari e per la trasmissione agli uffici finanziari di dati, documenti e notizie bancari  acquisiti nell’esercizio dei poteri di polizia giudiziaria, è riferita ad indagini penali in corso, non necessariamente a carico del contribuente sottoposto ad accertamento, ma anche di terzi indagati.

Tale autorizzazione non è diretta a permettere l’accesso della Guardia di Finanza ai dati bancari a fini fiscali, ma soltanto a consentire la trasmissione anche agli uffici finanziari di materiale acquisito per fini esclusivamente penali, essendo stata introdotta  detta autorizzazione per realizzare una maggiore tutela degli interessi protetti dal segreto istruttorio, piuttosto che per filtrare ulteriormente l’acquisizione di elementi significativi a fini fiscali (Cass. 20/01/2010, n. 85).

Altra  questione concerne la possibilità di produrre nel processo tributario documenti sottoposti al segreto investigativo.

Dal dato normativo, si evince una risposta affermativa, in quanto l’art. 63, comma 1, D.P.R. n. 633/72, in tema di IVA, e l’art. 33, comma 3, D.P.R. n. 600/73, sulle imposte sui redditi, prevedono che la Guardia di Finanza,  previa autorizzazione della A.G., anche in deroga al segreto investigativo (art. 329 c.p.p.), possa trasmettere all’Agenzia delle Entrate informazioni, dati e notizie acquisiti nel corso delle indagini, con conseguente possibilità di derogare al segreto istruttorio.

Si ritiene che anche le intercettazioni siano utilizzabili nel processo tributario, anche se l’art. 270 c.p.p. prevede che i risultati delle intercettazioni non possono essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, salvo che risultino indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza; tale limite di utilizzo, però, si riferisce solamente ad altri procedimenti penali e non  può essere esteso al processo tributario, pur potendosi chiedere l’oscuramento di alcuni dati, previa disposizione dell’Autorità Giudiziaria a tutela della privacy, qualora si sia ancora nella fase delle indagini preliminari in cui le intercettazioni sono coperte da segreto.

La perizia penale, così come anche la CTU in sede civile, possono essere utilizzate in un giudizio diverso da quello in cui sono  state espletate, vertente tra le stesse parti o tra parti diverse, quindi può essere prodotta anche nel giudizio tributario e valutata quale prova atipica.

Invero, nella disciplina vigente  del processo tributario non è previsto un catalogo di prove legali tipiche (in negativo sono escluse il giuramento e la prova testimoniale) ma non sono escluse le prove legali atipiche che arricchiscono il catalogo delle prove e attualmente stanno assumendo una rilevanza maggiore sia nel processo civile che tributario.

Infatti, qualora sia prodotta innanzi al Giudice Tributario una prova legale atipica, questa non può essere ignorata o considerata tamquam non esset, ma il giudice ha l’obbligo di valutarla in base al suo prudente apprezzamento, alla stregua di altri elementi indiziari con i quali deve essere confrontata, motivando sul punto in maniera congrua ed esaustiva.

In ultimo, la trasmigrazione dei mezzi probatori da un plesso giurisdizionale ad un altro è codificata dall’art.59, comma 5, della L. n. 69/2009, il quale riferisce alla translatio actionis applicabile ai processi “in materia civile, amministrativa,contabile, tributaria o di giudici speciali”( ai sensi del comma 1 del predetto articolo).

Ritenute fiscali: l’innalzamento delle soglie di rilevanza penale comporta la parziale abolitio criminis (Cassazione penale, sez. III, sentenza 13/07/2017, n° 34362)

Principio di diritto

La nuova fattispecie di reato di cui al Dlgs n. 74 del 2000, articolo 10-bis, come modificata dal Dlgs n. 158 del 2015, articolo 7, comma 1, lettera b, che ha elevato a 150.000,00 euro l’importo delle ritenute certificate non versate, ha determinato l’abolizione parziale del reato commesso in epoca antecedente che aveva ad oggetto somme pari o inferiori a detto importo”.

Il caso

Il legale rappresentante di una società a responsabilità limitata veniva condannato con decreto penale alla pena di 15.000,00 euro di multa per il reato di cui all’art. 10 bis del  Decreto Legislativo n. 74 del 2000, per non avere versato, nei termini di legge, le ritenute fiscali operate sugli emolumenti erogati nel corso dell’anno di imposta 2011 per un ammontare complessivo di 115.697,82 Euro.

Il ricorrente chiedeva la revoca del decreto di condanna ex art. 673 c.p.p. per intervenuto innalzamento della soglia di punibilità (all’epoca dell’omissione, questa era penalmente sanzionata se gli importi delle ritenute non versate superavano l’ammontare di 50.000,00 Euro; successivamente, il Dlgs  n. 158 del 2015, entrato in vigore il 22/01/2015, ha elevato a 150.000,00 euro tale importo). Il tribunale adito respingeva la domanda affermando che non si versasse in ipotesi di abrogazione parziale ma di successione di leggi modificative ex art. 2 comma 4 c.p.

L’interessato ricorreva per l’annullamento dell’ordinanza di rigetto della richiesta di revoca del decreto penale di condanna deducendo l’inosservanza o, comunque, l’erronea applicazione degli articoli 673, c.p.p., e 2 c.p., comma 2, argomentando che il Dlgs n. 158 del 2015, nel modificare uno degli elementi costitutivi del reato, aveva determinato l’abrogazione relativamente agli omessi versamenti di somme inferiori alla nuova soglia,  che comportava la necessità di applicare l’articolo 2 , comma 2 c.p. e l’art. 673 c.p.p.

Dello stesso avviso era il Procuratore Generale che chiedeva l’annullamento senza rinvio della ordinanza impugnata e la revoca del decreto penale di condanna, non essendo più il fatto previsto dalla legge come reato.

Iter argomentativo seguito dalla Suprema Corte

Il Supremo Consesso è stato chiamato a stabilire se la modifica di un elemento costitutivo del reato operata dal Dlgs n. 158 del 2015 abbia determinato l’abrogazione parziale del’art.10 bis  Dlgs n. 74 del 2000, limitatamente alle condotte di omesso versamento di ritenute, per importi inferiori a quello successivamente introdotto, poste in essere prima dell’entrata in vigore del predetto Dlgs n. 158 del 2015.

Prima di esporre a quale conclusione è giunta la giurisprudenza di legittimità, appare opportuno ricostruire quali criteri sono stati individuati dalla dottrina, per risolvere i vari problemi di ordine teorico e pratico che il tema della successione delle leggi penali nel tempo poneva.

È assai arduo e complicato individuare l’esatto discrimen tra l’ipotesi di mera modifica della legge penale antecedente e quella dell’autentica abrogazione poiché diversi sono gli effetti in ambito applicativo.

Precisamente, la qualificazione della specifica vicenda in termini di abrogatio sine abolitione  implica che la legge successiva, ancorché più favorevole, non potrà retroagire in caso di passaggio in giudicato della sentenza di condanna per il reato contemplato dalla normativa antecedente.

Condividere la tesi dell’abrogazione o quella della successione ha, pertanto, dei riflessi, rilevanti proprio rispetto alla sorte delle sentenze di condanna già definitive e dei decreti penali di condanna esecutivi  la cui esecuzione è preclusa dall’art. 2 comma 2 c.p.; infatti, in caso di abrogazione, il giudicato viene travolto e cessano gli effetti penali della condanna dovendo trovare applicazione l’art. 673 c.p.p.

Ebbene, secondo un orientamento ermeneutico, ai fini della distinzione tra abrogazione e successione, occorre  far riferimento alla valutazione del fatto concreto; qualora il fatto concreto risulti punibile allo stesso modo da entrambe le disposizioni susseguitesi nel tempo, si sarebbe in presenza di una successione di leggi ex art. 2 comma 3 c.p.

Tale criterio è stato criticato poiché, secondo la dottrina, può accadere che il fatto concreto sia sussumibile in ciascuna delle previsioni tra loro in rapporto di successione, ma per aspetti diversi;

per di più, il criterio in esame ha valenza meramente empirica, facendo derivare da fattori casuali la soluzione del problema, impedendo di poter tracciare a priori il limite tra lecito e illecito, facendo riferimento a tipologie di comportamento preventivamente determinate.

Un altro criterio interpretativo frequentemente utilizzato per discriminare le due predette ipotesi è quello della continuità del tipo di illecito, che si basa sull’analisi della tipologia di interesse protetto e delle modalità di aggressione, intesi come elementi qualificanti ciascuna fattispecie criminosa; tuttavia, il summenzionato criterio  presenta delle debolezze applicative, in quanto lascia margini eccessivi di discrezionalità applicativa nella misura in cui richiede valutazioni sostanzialistiche.

Il criterio recepito dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (S. U.n. 25887 del 26/03/2003, in senso conforme S U. n. 24468 del 26/02/2009) e sostenuto dalla dottrina maggioritaria,  muove dal rapporto strutturale di continenza fra le normative in successione, che è riscontrabile quando fra le fattispecie astrattamente considerate intercorre una relazione di genere a specie.

Ciò accade quando la norma successiva presenti elementi di specialità rispetto a quella precedente generale o quando una nuova e successiva norma di carattere generale ampli l’operatività della preesistente norma speciale.

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La specialità può essere per specificazione, qualora si ravvisa un rapporto di genere a specie tra uno o più elementi della fattispecie astratta oppure per aggiunta, allorché figuri un elemento aggiuntivo non presente nella fattispecie generale. Nel caso di specialità per specificazione l’eventuale abrogazione della fattispecie speciale comporta solo una modifica della legge penale, perchè l’elemento specializzante era e rimane incluso nella fattispecie generale. Mentre, nel caso di specialità per aggiunta, la norma generale  fa riferimento a una classe di oggetti necessariamente comprensiva di quella definita dalla norma speciale; può esservi riferita solo se gli elementi comuni alle due fattispecie hanno rilevanza maggiore di quelli che li distinguono. In caso contrario,  si è in presenza di un’abolizione parziale  poiché l’area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta, rimanendo espunti tutti i fatti che, pur rientrando nella norma generale venuta meno, sono privi di elementi specializzanti. Per tale motivo, in questa caso, sono fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e rimangono assoggettati alla regola del secondo comma dell’art. 2 c.p.

La giurisprudenza delle Sezioni Unite (Sez. U, n. 25887 del 26/03/2003) ha sostenuto che “perchè non vi sia una totale abolizione del reato previsto dalla disposizione formalmente sostituita (oppure abrogata con la contestuale introduzione di una nuova disposizione collegata alla prima) occorre che la fattispecie prevista dalla legge successiva fosse punibile anche in base alla legge precedente, rientrasse cioè nell’ambito della previsione di questa, il che accade normalmente quando tra le due norme esiste un rapporto di specialità, tanto nel caso in cui sia speciale la norma successiva quanto in quello in cui speciale sia la prima. Però se è la norma successiva ad essere speciale ci si trova in presenza di un’abolizione parziale, perchè l’area della punibilità riferibile alla prima viene ad essere circoscritta, rimanendone espunti tutti quei fatti che pur rientrando nella norma generale venuta meno sono privi degli elementi specializzanti. Si tratta di fatti che per la legge posteriore non costituiscono reato e quindi restano assoggettati alla regola dell’articolo 2 c.p., comma 2, anche se tra la disposizione sostituita e quella sostitutiva può ravvisarsi una parziale continuità. Perciò per questi fatti non opera il limite stabilito dall’ultima parte dell’articolo 2 c.p., comma 3, e quando è stata pronunciata una condanna irrevocabile il giudice dell’esecuzione deve provvedere a revocarla a norma dell’articolo 673 c.p.p.”. 

A tale criterio si è uniformata la Suprema Corte  con la recente  sentenza n. 34362/2017, menzionandolo nel suo iter argomentativo, individua un’ipotesi di abrogazione parziale tutte le volte in cui tra due fattispecie incriminatrici vi sia un rapporto strutturale di specialità, in base al quale la norma sopravvenuta esclude la rilevanza penale delle sottofattispecie in essa non più ricomprese; in particolare, nel caso di modifica di un elemento costitutivo del reato, come nell’ipotesi di specie la c.d. soglia di punibilità, la nuova fattispecie risulta speciale rispetto alla precedente poichè ne restringe l’ambito applicativo, per cui viene ad essere esclusa la penale rilevanza di una o più sottofattispecie astratte (nel caso in esame gli omessi versamenti di importi compresi tra 50.000,00 Euro e la nuova soglia di punibilità).

Il Supremo Consesso ha evidenziato come l’ abolitio criminis parziale sia fenomeno del tutto diverso dalla abrogatio sine abolizione poiché, nel primo caso, la norma speciale subentra a quella generale, restringendone l’ambito di applicazione; nel secondo caso, oggetto di abrogazione è la norma speciale le cui sottoclassi di fattispecie potrebbero essere riassorbite nella norma incriminatrice generale.

Alla luce di quanto affermato, la Corte di Cassazione, con riferimento alla nuova e maggiore soglia di punibilità dei fatti di omesso versamento di ritenute certificate (Dlgs n. 74 del 2000, articolo 10-bis), ha ritenuto essersi verificata un’ipotesi di abrogazione parziale del reato di cui al Dlgs n. 74 del 2000, articolo 10-bis, in riferimento a tutte le sottofattispecie relative agli omessi versamenti inferiori alla nuova soglia, per i quali il giudizio di offensività è radicalmente mutato.

Da ciò ne discende l’applicazione al caso de quo  degli articoli 2 c.p., comma 2 e 673 c.p.p., comma 1, con conseguente annullamento senza rinvio dell’ordinanza impugnata e  revoca del decreto penale di condanna emesso dal giudice di merito, non essendo più il fatto  previsto dalla legge come reato.

 

 

Avv. Villani Maurizio

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