«Ragionevole presunzione di non contestazione» del fatto e produzione di nuovi documenti nel processo del lavoro. Analisi di un caso

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Un dipendente comunale inquadrato in categoria D, certo Sig. S.I., ricorre al Giudice del Lavoro rivendicando il pagamento delle differenze retributive e contributive per le mansioni superiori che afferma di avere svolto nel periodo in cui era ancora inquadrato in categoria C (art.52, comma 5, D.Lgs. 165/2001).
Contestualmente al ricorso, nel quale trovasi la descrizione delle attività svolte nel periodo considerato, il ricorrente ha quindi provveduto a depositare una serie di documenti che possono essere distinti in tre gruppi: un primo gruppo comprende gli atti con i quali il Dirigente del Servizio di appartenenza lo aveva formalmente incaricato della responsabilità di vari procedimenti complessi e rilevanti, con tanto “procura” a negoziare contratti (ivi compresi quelli di transazione) ed a partecipare a procedure di conciliazione in rappresentanza dell’Ente; un secondo gruppo di documenti comprende gli atti con i quali si dà conto dei risultati raggiunti dall’Ente a seguito delle attività svolte dal dipendente; un terzo gruppo, infine, comprende le pubblicazioni, ossia manuali, anagrafi, articoli elaborati dallo stesso dipendente e pubblicati a cura del Servizio comunale di appartenenza nel periodo considerato.
In sede di costituzione in giudizio, il Comune, con la memoria difensiva, contesta la fondatezza delle pretese attoree, sostenendo che le suddette mansioni non sarebbero state svolte in concreto dal dipendente perché il dirigente, nonostante gli incarichi conferiti, avrebbe sempre e comunque provveduto personalmente alle relazioni esterne sì come “alla individuazione delle soluzioni tecniche da adottare” nei singoli casi ed “allo studio delle problematiche di maggiore complessità”. Circa le pubblicazioni, poi, il Comune sostiene in memoria che le stesse sarebbero state predisposte «su iniziativa personale» del dipendente, dato che «non risultano essere mai state sollecitate o richieste né dal suo dirigente né tanto meno dagli altri uffici comunali che neppure risultano averle mai utilizzate».   
Con la memoria difensiva, quindi, l’Ente convenuto non nega che gli incarichi di che trattasi siano stati conferiti al dipendente in questione, bensì nega che gli stessi siano stati da quest’ultimo effettivamente svolti; non nega l’esistenza di pubblicazioni redatte dal dipendente, bensì nega che le stesse possano essere ricondotte ad attività (di studio) richieste dall’Amministrazione, il cui risultato (tradotto in tali pubblicazioni) sia stato per questa utile.
Alla prima udienza il ricorrente contesta la ricostruzione dei fatti proposta dal Comune esibendo seduta stante nuovi documenti di cui controparte eccepisce la tardività: tali documenti, sostiene il Comune, dovevano essere indicati nel ricorso e con esso dovevano depositati.
La vicenda, per gli spunti che offre, ci sembra particolarmente interessante.
E’ noto, infatti, che ai sensi dell’art.414 c.p.c., il ricorso deve contenere, tra l’altro, «l’esposizione dei fatti e degli elementi di diritto sui quali si fonda la domanda con relative conclusioni» (comma 1, n.4), nonché, a pena di decadenza (1), «l’indicazione specifica dei mezzi di prova di cui il ricorrente intende avvalersi e in particolare dei documenti che si offrono in comunicazione» (comma 1, n.5). E’ poi altrettanto noto (nel senso che sembra potersi ritenere acquisito) come il suddetto onere probatorio vada assolto con riferimento a tutti i mezzi di prova, ivi compresi i documenti, senza poter più distinguere tra prove costituite e prove costituende (2).
Sappiamo anche, però, che la produzione di documenti successiva al deposito del ricorso può essere giustificata, in primo luogo, «dal tempo della loro formazione o dell’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (ad esempio a seguito di riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa del terzo)» (3); in secondo luogo, «nell’ipotesi in cui la deduzione del suddetto mezzo di prova fosse, al momento del deposito dei suddetti atti, da ritenere superflua sulla base di una ragionevole presunzione di non contestazione del fatto» (4); in terzo luogo, «qualora sopravvenga la contestazione dei fatti dedotti a sostegno della domanda» perché in tal caso «è riconoscibile alla parte ricorrente, la cui prova documentale prodotta con l’atto introduttivo sia stata impugnata, il diritto, ai sensi dell’art. 420, comma 5, c.p.c. di indicare altri mezzi di prova che non abbia potuto produrre prima, includendosi in questi ultimi anche quelli qualificantisi come alternativi rispetto a quelli proposti con il ricorso introduttivo» (5). A ciò va poi aggiunto che ai sensi dell’art.421, comma 2, c.p.c., il giudice di primo grado può disporre in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova anche laddove ritenga insufficienti le prove già acquisite, avendo egli «il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti» (6).
La specifica vicenda processuale che vede contrapposti il Sig. S.I. e il Comune dal quale egli dipende va dunque risolta alla luce di quanto precede.
Va verificato, in primo luogo, se il ricorrente può dirsi adempiente con riferimento all’onere di allegazione di fatti e deduzione di prove che il regime delle preclusioni come sopra delineato gli impone.
La risposta, al riguardo, deve essere affermativa perché, come si è visto, il dipendente in questione, in sede di ricorso, ha provveduto sia all’indicazione dei fatti sui quali si fonda la sua domanda (descrivendo, tra l’altro, il contenuto delle mansioni da lui svolte nel periodo di tempo considerato) sia all’indicazione specifica dei relativi mezzi di prova, depositando (contestualmente al ricorso) innanzitutto gli atti con i quali, nel periodo considerato, ripetutamente, ossia con continuità, il Dirigente del Servizio di appartenenza gli aveva formalmente conferito incarichi che si è già detto essere stati caratterizzati da un notevole grado di complessità e dalla particolare autonomia, anche negoziale, lasciata all’incaricato di individuare e perseguire (negoziandole direttamente con i soggetti esterni interessati e salve le competenze esclusive del dirigente con riferimento all’adozione degli atti ed alla stipula dei contratti di cui agli artt.107 e 192 T.U. Enti Locali approvato con D.Lgs. 267/2000) le “migliori soluzioni” ai diversi problemi volta a volta affrontati.
In presenza di atti amministrativi debitamente protocollati aventi il contenuto sopra riassunto e indicanti i compiti specificamente attribuiti al dipendente incaricato (di prendere contatti con le controparti, di negoziare contratti, di rappresentare l’Ente ai tavoli di conciliazione, di interagire direttamente con gli altri dirigenti dell’Ente e con gli amministratori per tutto ciò che occorra ai fini della conclusione dei procedimenti affidati), l’onere di cui all’art.414, comma 1, n.5, c.p.c. è assolto con l’indicazione (nel ricorso) e con il deposito (insieme al ricorso) di tali atti, essendo senz’altro irragionevole pretendere dal ricorrente anche la ricerca, l’acquisizione, l’indicazione e il deposito degli eventuali atti “secondari”, quelli, cioè, che degli atti di conferimento degli incarichi costituiscono lo sviluppo (quali, ad es., lettere protocollate, messaggi di posta elettronica, fax, etc., con i quali il ricorrente si rapporta con i soggetti interni ed esterni, partecipa agli stessi gli schemi contrattuali da lui redatti, propone interpretazioni giuridiche, avanza osservazioni, richiede assistenza tecnica; illustra al Dirigente o all’Assessore di riferimento lo stato delle trattative da lui condotte, etc.) (7).
Nella fase di redazione del ricorso e della scelta dei documenti da offrire in comunicazione, quindi, una volta individuati gli atti di conferimento degli incarichi, può senz’altro ritenersi sussistente una ragionevole presunzione di non contestazione del fatto che il dipendente abbia effettivamente svolto le mansioni che al conferimento di tali incarichi conseguono, anche perché, tra l’altro, sul piano logico, un Dirigente che ripetutamente (ma sarebbe meglio dire continuamente), in un arco temporale significativo (tre anni), si fosse messo ad adottare atti formali con i quali incaricava altri dello svolgimento di quelle stesse attività da lui poi direttamente svolte avrebbe posto in essere un comportamento talmente strano da rasentare i limiti del patologico (e da non poter comunque essere considerato come probabile). In questo senso si può allora dire che la ragionevolezza della «presunzione di non contestazione del fatto» deriva anche dalla irragionevolezza del suo contrario.
Laddove, tuttavia, l’Amministrazione resistente contesti il contenuto degli atti di conferimento degli incarichi e affermi che le attività che lì risultano delegate al dipendente sono state svolte direttamente dal Dirigente, al ricorrente non può essere preclusa la possibilità di produrre i documenti dai quali possa trarsi conferma del contrario; documenti la cui produzione si rende necessaria per via di una contestazione che era senz’altro ragionevole ritenere che non ci sarebbe stata (anche perché proposta per la prima volta in sede di memoria difensiva e non anche, ad es., in sede di esperimento del tentativo obbligatorio di conciliazione), non potendo operare, proprio per tale motivo, la decadenza di cui al combinato disposto degli artt.414 e 416, comma 3, c.p.c. (8).
Ad analoghe conclusioni (di non decadenza) si deve pervenire anche per quanto riguarda le pubblicazioni, ossia i manuali, le anagrafi, gli articoli elaborati dal dipendente nel periodo considerato, dato che nella fase di redazione del ricorso e della scelta dei documenti da offrire in comunicazione può senz’altro ritenersi sussistente una ragionevole presunzione di non contestazione del fatto che un lavoratore subordinato abbia redatto manuali, anagrafi e articoli perché richiesto di farlo dal datore di lavoro e, in ogni caso, quale particolare esigenza condivisa dallo stesso datore di lavoro, tanto più che è stato proprio il datore di lavoro, ossia il Comune (Servizio comunale di appartenenza), a curarne la pubblicazione. Può allora anche in questo caso sostenersi che la ragionevolezza della «presunzione di non contestazione del fatto» risulta rafforzata dalla irragionevolezza del suo contrario.
L’onere di cui all’art.414, comma 1, n.5, c.p.c. può di conseguenza dirsi assolto mediante il l’indicazione (nel ricorso) e il deposito (insieme al ricorso) delle stesse pubblicazioni, perché sarebbe irragionevole pretendere che il ricorrente fin dall’inizio si mettesse a ricercare, acquisire, indicare e depositare anche documenti “secondari” quali, ad es., le lettere con le quali il Dirigente del Servizio trasmette queste pubblicazioni ad altri dirigenti ed agli amministratori; le lettere dalle quali si evince che le stesse pubblicazioni costituiscono il risultato di specifici studi condotti dal dipendente incaricato di risolvere determinati problemi la cui soluzione era stata inserita tra gli obiettivi di PEG (piano esecutivo di gestione) di quel determinato anno; ovvero le lettere formali, messaggi di posta elettronica, fax, con i quali il Dirigente del Servizio indica ad altri dirigenti ed agli amministratori la strada da percorrere mediante la specifica citazione (con tanto di richiami di pagine e di note) degli scritti redatti dal dipendente; ovvero, ancora, l’atto dirigenziale che nell’approvare le condizioni generali di contratto di cui all’art.1341 c.c., vede allegato quale parte integrante e sostanziale di esso il manuale appositamente redatto dal dipendente; etc..
Laddove, però, come in questo caso, l’Ente convenuto affermi in memoria che le pubblicazioni di cui trattasi sarebbero state predisposte «su iniziativa personale» del dipendente e che le stesse «non risultano essere mai state sollecitate o richieste né dal suo dirigente né tanto meno dagli altri uffici comunali che neppure risultano averle mai utilizzate», al ricorrente non può essere preclusa la possibilità di produrre alla prima udienza utile quei documenti “secondari” di cui si è detto, la cui produzione si è resa necessaria «in relazione all’inaspettata contestazione sollevata dall’avversario su un fatto che poteva ragionevolmente considerarsi pacifico» (C. Cass., Sez. Lav., 11/2/1995, n°1509, cit. in nota 4), non operando per tale ragione la decadenza di cui al combinato disposto degli artt.414 e 416, comma 3, c.p.c.. 
Ma c’è di più. Perché dobbiamo ora aggiungere che la domanda giudiziale del Sig. S.I. diretta ad ottenere la differenza di trattamento economico per le mansioni superiori svolte nel periodo in cui lo stesso era inquadrato in categoria C si aggiunge a quella diretta ad ottenere la dichiarazione di nullità di un provvedimento di trasferimento adottato nei suoi confronti dal Segretario Generale del Comune in un periodo successivo e che il Sig. S.I. afferma essere stato disposto per un motivo illecito, ossia per «ritorsione». Questa «ritorsione», secondo il ricorrente, andrebbe messa in relazione, da un lato, con vicende che con il trasferimento si porrebbero in diretta relazione anche temporale; dall’altro, con il «clima di ostilità» di più lungo corso instaurato dal Segretario Generale nei confronti del Dirigente del Servizio e del dipendente a questi assegnato. Gli attacchi del Segretario Generale, scrive il ricorrente, «sebbene formalmente rivolti al Dirigente del Servizio, erano di fatto indirizzati alla figura del Sig. S.I., perché era questi il responsabile dei procedimenti oggetto del contendere; era questi l’autore delle soluzioni tecniche o dei pareri risultati sgraditi; era questi il potenziale beneficiario dell’indennità per quel progetto di produttività che non si volle approvare e che determinò il carteggio tra Dirigente del Servizio e Segretario Generale di cui all’allegato (…)».
Stando così le cose, è del tutto evidente, da un lato, l’interesse del ricorrente a dimostrare anche a questi fini che era effettivamente lui ad esercitare le mansioni, a compiere gli studi e ad esprimere i pareri sì come risulta dagli atti di conferimento dei relativi incarichi; dall’altro, l’interesse dell’Amministrazione resistente ad affermare il contrario e cioè che era invece il Dirigente a provvedere personalmente alle relazioni esterne sì come “alla individuazione delle soluzioni tecniche da adottare” nonché “allo studio delle problematiche di maggiore complessità” (perché in tal caso, almeno per quanto concerne le vicende più lontane nel tempo, mancherebbe il collegamento diretto tra l’azione del Sig. S.I. nell’ambito del Servizio di appartenenza, da una parte, e il «clima di ostilità», dall’altra, al quale andrebbe ricondotto sotto il profilo genetico anche il provvedimento di trasferimento quale reazione ultima del Segretario Generale).
A tale proposito il ricorrente, per la verità, con riferimento all’onere di allegazione di fatti e deduzione di prove di cui all’art.414, comma 1, nn.4 e 5, oltre a rappresentare il clima (di ostilità) e ad indicare, tra gli altri mezzi di prova, anche i documenti (poi effettivamente depositati insieme al ricorso), tra i quali, appunto, quelli sulle mansioni svolte nel periodo di inquadramento in categoria C desumibili dagli incarichi che gli erano stati conferiti, ha altresì richiesto l’assunzione di prova testimoniale indicando come testi, tra gli altri, il Dirigente del Servizio, altri Dirigenti e vari funzionari tutti chiamati a confermare tra le altre cose anche il fatto che era effettivamente il Sig. S.I. a svolgere quelle determinate mansioni nel periodo considerato.
Con il deposito della memoria difensiva del Comune, il ricorrente ha tuttavia potuto vedere che parte dei testi da lui indicati venivano indicati anche da controparte con capitoli formulati per far loro dichiarare l’esatto contrario. Si comprende allora come il ricorrente, producendo quei nuovi documenti, oltre ad incoraggiare i testimoni a dire la verità (in considerazione anche delle pressioni che su di essi potrebbero essere esercitate, direttamente o indirettamente (9)), abbia inteso fornire al giudice ulteriori elementi, autonomamente valutabili, specificamente riferibili al comportamento dell’Amministrazione resistente la quale, nonostante l’esistenza, la conoscenza e la piena disponibilità (perché presso la stessa depositati) di documenti oggettivamente confermativi delle allegazioni del ricorrente, nella frenesia di negare tutto sia arrivata al punto di negare «troppo», mostrando oltremodo di confondere l’interesse pubblico (comunque da perseguire ex art.97 Cost.) con un mero «interesse di bottega» neanche particolarmente meritevole di tutela (10).
In ogni caso, oltre a ribadire quanto già sostenuto in precedenza e cioè che il ricorrente non può ritenersi decaduto dalla facoltà di produrre (alla prima udienza utile) quei documenti la cui produzione sia necessaria a contrastare una contestazione avversaria che era ragionevole ritenere che non ci sarebbe stata, si potrebbe a questo punto aggiungere che quegli stessi documenti potrebbero a limite essere fatti rientrare nella previsione di cui all’art.421, comma 2, c.p.c., ai sensi del quale il Giudice del Lavoro «Può altresì disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. (…)»; norma con la quale si attua il contemperamento tra principio dispositivo ed esigenze di ricerca della verità materiale, «di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti» (C. Cass., S.U., 17/6/2004, n°11353, così citata da C. Cass., S.U., 20/4/2005, n°8202, e in nota 6), che nel caso di specie, e per le ragioni già esposte, si esclude peraltro che si siano verificate.
 
Esperto servizi amministrativi presso la Provincia di Siena.
 
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(1) La specificazione è contenuta nell’art.416, comma 3, c.p.c. sulla costituzione del convenuto valevole, per il principio di reciprocità fissato dalla Corte Costituzionale con sentenza n°13 del 14/1/1977, anche per il ricorrente: «È da escludere che gli artt. 414 e 416 cod. proc. civ., come modificati dall’art. 1 della legge n. 533 del 1973, nel disciplinare, secondo i principi di concentrazione, immediatezza e semplificazione della procedura a cui si ispira il nuovo rito del lavoro, l’attività defensionale delle parti, e relativi poteri e preclusioni, abbiano operato fra di esse discriminazioni che ne incrinino la posizione di parità. In particolare, è da escludere che la non tempestiva indicazione, nel ricorso dell’attore come nella memoria di costituzione del convenuto, delle domande, eccezioni, mezzi di prova, documenti ecc., solo per il secondo, e non anche per il primo, sia colpita da decadenza. La lettura sistematica del dato normativo, anche alla luce dei lavori parlamentari, conferma infatti che tale sanzione, benché espressamente sancita (nell’art. 416 c.p.c.) solo per il convenuto, deve ritenersi prevista, sia pure in modo implicito, in base al disposto dell’art. 414, n. 5, c.p.c. e dell’art. 420 c.p.c., anche per l’attore, e va perciò respinta, perché fondata su una errata interpretazione delle norme impugnate, la censura di illegittimità costituzionale avanzata in proposito, nei confronti degli indicati articoli del codice di procedura civile, in riferimento agli artt. 3 e 24 della Costituzione» (in Leggi d’Italia Professionale, Wolters Kluwer Italia).
(2) Cfr. C. Cass., Sez. Lav., 1/10/2002, n°14110, nonché C. Cass., S.U., 20/4/2005, n°8202: «(…) E’ generalizzata in dottrina ed in giurisprudenza la distinzione delle prove in prove costituite e prove costituende, per caratterizzarsi, le prime (come le prove documentali) per la loro formazione al di fuori del processo (e, di solito, prima di esso) e per l’acquisizione nel processo attraverso un mero atto di esibizione, e le seconde (come le prove orali: prove testimoniali, confessione, giuramento, ecc.) per formarsi, di contro, nel processo, come risultato dell’attività istruttoria a seguito di una istanza di parte e di consequenziale provvedimento di ammissione del giudice. Orbene, la diversa regolamentazione tra prove costituite e prove costituende – concretizzantesi nel riconoscimento di spazi più ampi (…) di ingresso nel processo per le prime – viene fondata sostanzialmente su un duplice ordine di argomenti. Il primo di carattere letterale fa leva sulla distinta menzione di "mezzi di prova" (art. 345, comma 3, per il rito ordinario; art. 420, comma 5 e 7, art. 421, comma 2, art. 437, comma 2, per il rito del lavoro) identificati con le prove costituende, e del termine "documenti" (art. 163 n. 5, art. 167, comma 1, art. 184 per il rito ordinario; art. 414 n. 5, 416, comma 2, per il rito del lavoro), da identificarsi, invece, con le prove costituite. Il secondo di carattere logico-sistematico viene ravvisato nella diversa ricaduta delle due differenti categorie di prove sulla durata del processo, per non necessitare le prove precostituite di nessuna attività istruttoria capace di ritardare l’esito della controversia. Le argomentazioni suddette, evocate ripetutamente in numerosi pronunziati (…), sono state sottoposte di recente a revisione oltre che dai ricordati pronunziati anche dalla dottrina che, con voce quasi unanime, ha ritenuto che la produzione documentale viva delle stesse preclusioni previste per le prove costituende, con considerazioni che questa Corte ritiene di condividere. (…)», in Leggi d’Italia Professionale. Per l’indirizzo opposto cfr., ad es.: C. Cass., Sez. Lav., 8/6/1999, n°5639, così come C. Cass., Sez. Lav., 4/2/1993, n°1359. Con riferimento alla produzione di nuovi documenti in appello e sempre in punto di distinzione tra prove precostituite e prove costituende, v., in particolare, C. Cass., S.U., 6/9/1990, n°9199.
(3) C. Cass., S.U., 20/4/2005, n°8202 cit., come, da ultimo, C. Cass., Sez. Lavoro, 22/5/2006, n°11922: «Nel rito del lavoro, in base al combinato disposto dell’art. 416, comma 3, c.p.c., che stabilisce che il convenuto deve indicare a pena di decadenza i mezzi di prova dei quali intende avvalersi, ed in particolar modo i documenti, che deve contestualmente depositare – onere probatorio gravante anche sul ricorrente per il principio di reciprocità fissato dalla Corte cost. con la sentenza n. 13 del 1977 – e 437, comma 2, c.p.c., che, a sua volta, pone il divieto di ammissione in grado di appello di nuovi mezzi di prova – fra i quali devono annoverarsi anche i documenti – l’omessa indicazione, nell’atto introduttivo del giudizio di primo grado, dei documenti e l’omesso deposito degli stessi contestualmente a tale atto, determinano la decadenza del diritto alla produzione dei documenti medesimi, salvo che la produzione non sia giustificata dal tempo della loro formazione o dall’evolversi della vicenda processuale successivamente al ricorso ed alla memoria di costituzione (come nei casi, ad es., susseguenti alla proposizione di domanda riconvenzionale o di intervento o chiamata in causa di terzo). Pertanto, ai fini dell’operatività delle preclusioni e dei termini decadenziali previsti dalla legge, deve operarsi una completa equiparazione tra prova precostituita (quale quella documentale) e prova costituenda (come quella testimoniale), con la conseguenza che l’omessa indicazione dei documenti e la mancata produzione degli stessi al momento del tempestivo deposito dei rispettivi atti di costituzione delle parti determina – con il limite precedentemente precisato e salva l’esercitabilità in appello del potere di ammissione d’ufficio di nuovi mezzi di prova ove essi siano indispensabili ai fini della decisione della causa – la decadenza delle stesse dal diritto di avvalersi di detti documenti ai fini probatori. (Nella specie, la S.C., alla stregua del principio affermato, ha accolto il ricorso e cassato con rinvio la sentenza impugnata, con la quale era stata rigettata la domanda del ricorrente fondandosi, però, la decisione su prove documentali non tempestivamente e ritualmente indicate né depositate dalla convenuta, sul presupposto della non ritenuta assoggettabilità delle prove precostituite alle preclusioni ed ai termini decadenziali cui devono sottostare le prove costituende)» (Giust. Civ. Mass. 2006, 5).
 
(4) In questo senso, già C. Cass., Sez. Lav., 11/2/1995, n° 1509: «Nel rito del lavoro deve essere esclusa la decadenza a carico della parte che, nel ricorso introduttivo del giudizio o nella memoria difensiva di costituzione, abbia omesso di dedurre il mezzo di prova riguardante una circostanza, anche se di valore determinante, che la parte stessa sia tenuta a provare, nell’ipotesi in cui la deduzione del suddetto mezzo di prova fosse, al momento del deposito dei suddetti atti, da ritenere superflua sulla base di una ragionevole presunzione di non contestazione del fatto» (Giust. Civ. Mass. 1995, 323); «Nel rito del lavoro la parte ha facoltà di proporre, alla prima udienza, quei nuovi mezzi di prova che si rendano necessari in relazione all’inaspettata contestazione sollevata dall’avversario su un fatto che poteva ragionevolmente considerarsi pacifico (nella specie, l’attore è stato ammesso a dimostrare, ex art. 420, comma 5, c.p.c., uno dei fatti costitutivi della propria pretesa, in ordine al quale non aveva indicato prove nell’ambito del ricorso, facendo affidamento sull’atteggiamento di implicita ammissione tenuto stragiudizialmente dal convenuto)» (Giur. It. 1996, I, 1, 132). Nello stesso senso vedasi, da ultimo, Cass., Sez. Lav., 30/8/2005, n°17513, nonché C. Cass., Sez. Lav., 23/6/1998, n°6230; C. Cass., Sez. Lav., 24/10/1989, n°4330; C. Cass., Sez. Lav., 5/11/1987, n°8131. Si ricordi che il regime delle preclusioni sì come delineato dagli artt.414 e 416 c.p.c. si completa con le disposizioni contenute all’art.420, commi 5 e 7, ai sensi dei quali: «Nella stessa udienza (il giudice) ammette i mezzi di prova già proposti dalle parti e quelli che le parti non abbiano potuto proporre prima, se ritiene che siano rilevanti, disponendo, con ordinanza resa nell’udienza, per la loro immediata assunzione» (comma 5) e «Nel caso in cui vengano ammessi nuovi mezzi di prova, a norma del quinto comma, la controparte può dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi, con assegnazione di un termine perentorio di cinque giorni. Nell’udienza fissata a norma del precedente comma il giudice ammette, se rilevanti, i nuovi mezzi di prova dedotti dalla controparte e provvede alla loro assunzione» (comma 7). Ma sul punto vedasi A.M. Socci in Sandulli e Socci, «Il processo del lavoro», Giuffré 2000, Pag.118: «Molti fanno rientrare queste “nuove” richieste probatorie nell’art.420, comma 5, c.p.c., quali mezzi di prova che le “parti non abbiano potuto proporre prima”. In realtà, il ricorrente non è che non poteva proporre il mezzo di prova sin dal ricorso, ma ragionevolmente (cioè con il buon senso dell’uomo medio) riteneva non oggetto di contestazione il fatto: “ragionevole presunzione di non contestazione”».  
 
(5) C. Cass., Sez. Lav., 21/8/2006 , n° 18206: «Pur dovendosi rispettare, nel processo del lavoro, il principio generale – riconducibile al regime preclusivo che caratterizza tale rito – secondo cui l’ammissione della prova è subordinata all’articolazione di essa nel ricorso introduttivo disciplinato dall’art. 414 c.p.c., qualora sopravvenga la contestazione dei fatti dedotti a sostegno della domanda è riconoscibile alla parte ricorrente, la cui prova documentale prodotta con l’atto introduttivo sia stata impugnata, il diritto, ai sensi dell’art. 420, comma 5, c.p.c. di indicare altri mezzi di prova che non abbia potuto produrre prima, includendosi in questi ultimi anche quelli qualificantisi come alternativi rispetto a quelli proposti con il ricorso introduttivo. (Nella specie, la S.C., sulla scorta dell’enunciato principio, ha cassato con rinvio l’impugnata sentenza che aveva confermato la circostanza della tardività delle richieste di ammissione di prove costituende della parte ricorrente, sul presupposto che le stesse non erano state formulate contestualmente alla proposizione del ricorso, senza, però, valutare che, in effetti, la necessità di richiedere i predetti mezzi di prova – con la conseguente operatività del disposto di cui all’art. 420, comma 5, c.p.c. – era insorta a seguito della contestazione della prova documentale allegata ab origine, ritenuta dalla parte istante, in prima battuta, quale prova idonea a sostenere i fatti dedotti in giudizio)» (Giust. Civ. Mass. 2006, 7-8).
 
(6) C. Cass., S.U., 17/6/2004, n°11353: «È caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti» (in Foro It. 2005, I,1135); «Nel rito del lavoro, ai sensi di quanto disposto dagli art. 421 e 437 c.p.c., l’esercizio del potere d’ufficio del giudice, pur in presenza di già verificatesi decadenze o preclusioni e pur in assenza di una esplicita richiesta delle parti in causa, non è meramente discrezionale, ma si presenta come un potere – dovere, sicché il giudice del lavoro non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale del giudizio fondata sull’onere della prova, avendo l’obbligo – in ossequio a quanto prescritto dall’art. 134 c.p.c., ed al disposto di cui all’art. 111, comma 1, cost. sul "giusto processo regolato dalla legge" – di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all’uso dei poteri istruttori o, nonostante la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso. Nel rispetto del principio dispositivo i poteri istruttori non possono in ogni caso essere esercitati sulla base del sapere privato del giudice, con riferimento a fatti non allegati dalle parti o non acquisiti al processo in modo rituale, dandosi ingresso alle cosiddette prove atipiche, ovvero ammettendosi una prova contro la volontà delle parti di non servirsi di detta prova, o, infine, in presenza di una prova già espletata su punti decisivi della controversia, ammettendo d’ufficio una prova diretta a sminuirne l’efficacia e la portata. (Nella specie, relativa a riconoscimento della dipendenza da causa di servizio della malattia dalla quale il lavoratore era affetto, la sentenza impugnata, confermata dalla S.C. in base al principio di cui in massima, aveva motivato il mancato esercizio dei poteri istruttori, in sede di gravame, tenendo conto del mancato assolvimento, da parte del lavoratore, dell’onere di provare non solo il tipo di mansioni svolte e il suo concreto atteggiarsi, ma pure la sussistenza di tutte le condizioni – vibrazioni, scuotimenti, inclemenze atmosferiche, sottoposizione a turni irregolari – cui addebitava in relazione di causalità la malattia di cui era risultato affetto, e delle carenze dell’atto introduttivo non superate neanche per effetto dell’espletamento della consulenza medico legale e del contenuto dell’anamnesi lavorativa in essa riportata)» (in Giust. Civ. Mass. 2004, 6). Vedasi anche C. Cass., 6/7/2000, n°9034; C. Cass., 20/5/2000, n°6592; C. Cass., Sez. Lav., 21/2/1998, n° 1894.
 
(7) Scrive A.M. Socci in Sandulli e Socci, «Il processo del lavoro» cit., Pag.117: «Il principio di preclusione, che non ha comportato risultati apprezzabili sulla durata del processo, ha un indubbio svantaggio, consistente nell’appesantimento del processo ed in particolare, nel rito del lavoro, degli atti introduttivi. Il ricorrente nel ricorso introduttivo dovrà allegare tutti i fatti diretti ed indiretti (producendo documenti e chiedendo l’ammissione delle prove), che a suo giudizio unilaterale sono idonei a chiarire la fattispecie al giudicante, e a dimostrare la sussistenza del diritto azionato. In concreto, però, i fatti che necessitano di prova sono solo i fatti contestati. Quindi solo il contraddittorio può individuare l’esatto tema probatorio, con la partecipazione anche del giudicante. In sostanza il principio di eventualità costringe le parti (e significativamente il ricorrente e per esso il difensore) ad un super lavoro, di natura parzialmente divinatoria, che alla luce della costituzione del convenuto il più delle volte risulta inutile, se non dannoso, per le parti e per il giudicante».
 
(8) Affermare che i compiti affidati al dipendente sono stati da lui effettivamente svolti significa anche affermare che i risultati raggiunti dall’Ente sono stati conseguiti in tali circostanze con gli studi e le concrete attività svolte dallo stesso dipendente.
 
(9) Anche nell’ambito del pubblico impiego, infatti, il soggetto che dispone del potere organizzativo e direttivo è in grado di esercitare in vario modo condizionamenti anche “sottili”: v. «Uso e abuso del potere organizzativo del datore di lavoro pubblico», in Diritto&Diritti, aprile 2006, e «Enti Locali, diritti dei lavoratori, loro tutela», in Altalex, n°1529 del 20/9/2006: «(…) Non risponde alle finalità indicate dall’art.97 Cost. (né ai criteri dettati dall’art.2, comma 1, D. Lgs. 165/2001) creare “riserve indiane” (Servizi o Uffici Studi ad hoc dove mandare il dirigente “scomodo” e, con l’occasione, anche qualche dipendente) ovvero ricorrere al c.d. “azzoppamento”, togliendo a un dirigente pezzi di Servizio per affidarli ad altro dirigente sulla base non di un disegno riorganizzativo fondato su oggettive esigenze e su criteri di buona organizzazione, bensì in relazione alla maggior “fiducia” che sull’altro dirigente viene riposta dal politico di turno. (…) Riorganizzazioni a fini di bossing talvolta è sufficiente minacciarle, come quando venga fatto sapientemente circolare un foglio nel quale si prefiguri una riorganizzazione all’esito della quale, ad esempio, un dirigente coordinatore di Settore sia destinato a dirigere un piccolissimo Servizio costituito ad hoc. Se poi a seguito delle (conseguenti) dimissioni dell’interessato di questa riorganizzazione così pubblicizzata (e magari anche effettivamente approvata con delibera di Giunta dichiarata immediatamente eseguibile) non se ne fa più niente, lo scopo effettivamente perseguito diventa ancora più chiaro. L’esperienza offre anche casi di “riorganizzazione permanente”, nel “macro” come nel “micro”, sì come quando ci si avvalga ripetutamente della facoltà di conferire (in deroga) incarichi dirigenziali di brevissima durata “in attesa del nuovo assetto organizzativo” (con tutto ciò che da tale stato di incertezza consegue in termini di funzionalità degli uffici e dei servizi), procedendo nel frattempo a riorganizzazioni parziali dirette all’”azzoppamento” (nel senso di cui sopra) di alcuni dirigenti. O (per quanto attiene più propriamente alla microrganizzazione) come quando nel PEG (piano esecutivo di gestione) si inserisca quale obiettivo di carattere generale “la necessità che ciascuna area/servizio predisponga, nel corso dell’anno, un piano di riorganizzazione interna” con tanto di “indicatore” e di “punteggio massimo” attribuibile alle scelte compiute (passandosi così dalla riorganizzazione “secondo necessità” alla riorganizzazione “purché sia”, necessaria ad ottenere un giudizio positivo ai fini della retribuzione di risultato)». Si consideri anche il caso recentemente deciso dalla Sesta Sezione Penale della Corte di Cassazione con sentenza n°37354 del 1/10/2008: «Quanto al merito della vicenda deve rilevarsi che la sentenza impugnata fa buon governo della legge penale e della normativa di riferimento, chiarendo che gli imputati, nel rispettivo ruolo ricoperto, posero in essere, nel disporre l’assegnazione della dottoressa all’istituendo ufficio studi e la successiva istituzione dello stesso presso il Comune di (…), una serie di violazioni di legge, con l’unico intento, concretamente conseguito, di emarginare la detta funzionaria che, per il suo spirito di indipendenza da qualsiasi pressione politica, non era gradita all’organo esecutivo del Comune e al Segretario Generale, che affiancava e ispirava l’azione del primo» (da Italia Oggi del 3/10/2008, Pag.19; come anche in Legge&Giustizia dove trovasi che secondo la Corte d’Appello di Torino tale «affrettata scelta (…) nascondeva di fatto la volontà di allontanare anche fisicamente dal palazzo comunale la funzionaria, senza con ciò mirare al raggiungimento di un fine di pubblico interesse, essendo stato conseguito con tale scelta l’esatto contrario in termini di pubblica utilità»). Di questi tempi sembra utile, infine, sottolineare come i casi volta a volta affrontati non riguardano «nullafacenti», ma lavoratori dediti al loro lavoro (art.98 Cost.), convinti come siamo che solo lavoratori professionalmente preparati e messi in condizione di espletare le loro mansioni possano assicurare, nell’eseguire le direttive politiche (impartite nelle forme previste dall’ordinamento), ad un tempo, la correttezza dell’azione amministrativa e la sua imparzialità: una P.A. di «funzionali» anziché di funzionari non può assicurare il perseguimento degli obiettivi indicati dall’art.97 Cost., ai sensi del quale i pubblici uffici devono essere organizzati «in modo che siano assicurati il buon andamento e l’imparzialità dell’amministrazione».
 
(10) Elementi autonomamente valutabili riferibili al comportamento dell’Amministrazione resistente sono anche quelli desumibili dai verbali di mancata conciliazione redatti a seguito dell’esperimento dei tentativi obbligatori di conciliazione dinanzi alla Direzione Provinciale del Lavoro dove, con riguardo al procedimento relativo alle mansioni superiori, risulta che il rappresentante del Comune munito del potere di conciliare abbia dichiarato di non essere a conoscenza di quali fossero le mansioni di cui si stava discutendo e dove, con riguardo al procedimento relativo al trasferimento, è emersa chiaramente la volontà dell’Ente di non volerne neanche discutere. Cfr. art. 66, comma 7, D. Lgs. 165/2001.

Dott. Stefano Gennai

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