Quando un soggetto può essere dichiarato latitante

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(Ricorsi dichiarati inammissibili)

(Riferimenti normativi: Cod. proc. pen. artt. 169, c. 4, 295).

Il fatto

La Corte di appello di Firenze confermava la dichiarazione di penale responsabilità in relazione a fattispecie di rapina e furti in abitazione rideterminando la pena nei limiti ritenuti di giustizia per la posizione B. in conseguenza dell’intervenuta assoluzione per la fattispecie associativa e, a fondamento della condanna, veniva poste le seguenti prove: localizzazione GPS, intercettazioni ambientali telefoniche e parziali ammissioni degli indagati. 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione

Per la posizione di B., proponeva ricorso per cassazione il suo legale adducendo i seguenti motivi: 1) violazione degli articoli 165-171-178-179-185-295-296 del codice di procedura penale in conseguenza della nullità del decreto di citazione in appello, del decreto di latitanza delle conseguenti notifiche atteso che: a) risulterebbe nullo il decreto di vane ricerche per carenza d’indicazione specifica delle ricerche svolte nonché per il mancato svolgimento delle medesime ricerche all’estero; b) il decreto di latitanza mancherebbe  della data, il che non permetterebbe alla difesa di verificarne l’emissione nell’arco di quasi 11 mesi; c) la valutazione della esaustività delle richieste sarebbe stata poi contenuta in una frase prestampata che non teneva conto del fatto che risultavano essere stati interpellati i parenti dell’imputato e che costoro avrebbero “fatto capire” che l’imputato si trovava in Svezia, dove già abitava un fratello; pur tuttavia, a fronte di ciò, nessuna ricerca era stata fatta all’estero, nemmeno quando lo stesso fratello vivente in Svezia aveva inviato al presidente del Tribunale di Arezzo una lettera manoscritta sulla cui busta era indicato chiaramente l’indirizzo del mittente dove, con tutta probabilità, era ospitato l’imputato tenuto conto altresì del fatto che, in sede di intercettazioni era emersa la volontà del ricorrente di spostarsi in Svezia; 2) violazione dell’articolo 628, comma 3, numero 3 bis, c.p. e vizio di motivazione nella parte in cui si affermava come sarebbe risultata rilevante anche la pertinenza dell’abitazione avendo le sezioni unite ristretto il concetto di privata dimora luoghi dove si svolga la vita privata non aperti al pubblico né accessibili a terzi senza il consenso del titolare posto che il delitto risulta essere avvenuto in un bar e l’esercizio della violenza risulta essere verificato nel piazzale pubblico antistante che, per definizione, non potrebbe essere considerato come pertinenza della privata dimora.

Quanto alla posizione di C.S., il suo difensore parimenti ricorreva in Cassazione formulando i seguenti motivi: 1) violazione dell’articolo 628, comma 3, numero 3 bis, c.p. e vizio di motivazione nella parte in cui si affermava che sarebbe stata rilevante anche la pertinenza dell’abitazione.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

Il primo motivo del ricorso di B) veniva stimato inammissibile.

Si osservava a tal proposito prima di tutto come la vicenda in esame riguardasse un decreto dichiarativo della latitanza e non della irreperibilità dell’imputato posto che, nel caso di specie, non risultava nemmeno contestato che l’indagato – agli arresti domiciliari durante tutto il primo grado – si fosse sottratto alla ordinanza applicativa della misura massima da parte della Corte di appello medesima.

Premesso ciò, gli ermellini evidenziavano come, dalle profonde differenze che è possibile cogliere tra gli istituti della latitanza e quello della irreperibilità, avuto riguardo alle diverse finalità che animano le disposizioni che li regolano, nonché ai diversi presupposti che ne stanno alla base – con particolare riferimento alla volontarietà che caratterizza la latitanza e che presuppone la conoscenza del procedimento e del provvedimento che è stato o può essere emesso, a differenza dell’irreperibile – il Supremo Consesso avesse tratto il corollario che l’emissione del decreto di latitanza non deve essere preceduto dallo svolgimento all’estero di ricerche tese a rintracciare il soggetto nei cui confronti è stato adottato il provvedimento cautelare e della cui dimora o residenza in un paese straniero si abbia avuto generica notizia, non sussistendo i presupposti per l’applicazione in via analogica delle regole dettate per le ricerche dell’irreperibile dall’art. 169, comma 4, cod. proc. pen. (“Quando dagli atti risulta che la persona nei cui confronti si deve procedere risiede o dimora all’estero, ma non si hanno notizie sufficienti per provvedere a norma del comma 1, il giudice o il pubblico ministero, prima di pronunciare decreto di irreperibilità, dispone le ricerche anche fuori del territorio dello Stato nei limiti consentiti dalle convenzioni internazionali”) posto che tali ricerche sono finalizzate a conoscere l’indirizzo preciso dell’imputato al fine di spedire la raccomandata di cui al comma 1 dello stesso articolo, e metterlo in condizione di dichiarare o eleggere domicilio ai fini delle notificazioni, cosa che il latitante è certamente in grado di fare, e dunque risulterebbe «certo singolare avvertire con lettera raccomandata un imputato della esistenza di un provvedimento restrittivo a suo carico perché potrebbe essere interpretato come un invito alla fuga» (ex plurimis, Sez. 6, n. 47528 del 29/11/2013; Sez. 6, n. 43962 del 27/09/2013; Sez. 5, n. 46340 del 19/09/2012; Sez. 2, n. 25315 del 20/03/2012; Sez. 5, n. 06/10/2011; Sez. 1, n. 15410 del 22/04/2010).

Detto questo, i giudici di piazza Cavour facevano presente che lo stato di latitanza, come puntualizza l’art. 296 del codice di rito, presuppone la volontaria sottrazione del soggetto alla cattura e, una volta accertato tale status, lo stesso permarrà per tutto il tempo in cui il soggetto continuerà a sottrarsi volontariamente alla cattura (Sez. 4, n. 2024 del 02/09/1996) e, dunque, questo stato che potrà cessare, oltre che per le cause indicate nell’art. 296, comma 4, cod. proc. pen. – vale a dire in virtù di quegli eventi, tipici e nominati, che incidono sulla stessa fattispecie cautelare, come la revoca o la perdita di efficacia della misura, o la estinzione del reato o della pena cui la misura stessa si riferisce – soltanto con la cattura o la costituzione spontanea, ovvero con l’arresto dell’imputato all’estero a fini estradizionali (Sez. 2, n. 31253 del 18/09/2002; Sez. 1, n. 30804 del 27/06/2002).

Tal che, alla luce di quanto appena esposto, se ne faceva conseguire la caducità del decreto di irreperibilità, a fronte del perdurante valore del decreto di latitanza posto che, a differenza del provvedimento che dichiari lo stato di irreperibile, che abbisogna di nuove ricerche e di nuovo provvedimento dichiarativo ad ogni cadenza processuale, secondo un meccanismo reiterativo tipico delle situazioni mutevoli e precariamente accertate, la dichiarazione di latitanza varrà per tutto il processo (ma solo per “quel” processo, a norma dell’art. 296, comma 3, cod. proc. pen.), proprio in ragione della “volontarietà” del relativo status e della condizione perenne di “ricercato” che caratterizza la posizione del latitante (Sez. 1, n. 29503 del 01/03/2013; Sez. 5, n. 2483 del 27/10/1998; Sez. 5, n.5807 del 18/12/1997); in altre parole, mentre la latitanza produce automaticamente effetti processuali, in quanto frutto di una scelta volontaria del soggetto di sottrarsi ad un provvedimento custodiale e conseguentemente di non presenziare al procedimento, la irreperibilità, invece, è una condizione di fatto, la quale può derivare da cause estranee ad una “scelta” dell’imputato, ben potendo quindi consistere in uno status non soltanto involontario, ma anche incolpevole: con la conseguenza di assumere connotazioni processualmente rilevanti, tanto agli effetti della conoscenza della accusa e del procedimento a proprio carico, quanto ai fini del diritto di partecipare al giudizio.

Da ciò se ne faceva inferire come latitanza e irreperibilità rappresentino il convergere di condizioni soggettive profondamente diverse e fra loro non assimilabili, vuoi sul piano delle garanzie e delle correlative strutture normative di riferimento, vuoi su quello delle reciproche “compatibilità” sul versante degli sviluppi ermeneutici.

La Corte di Cassazione, pertanto, alla luce delle considerazioni sin qui esposte, giungeva a postulare che, ai fini della dichiarazione di latitanza, tenuto conto delle differenze che non rendono compatibile tale condizione con quella dell’irreperibilità, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen. – pur dovendo essere tali da risultare esaustive al duplice scopo di consentire al giudice di valutare l’impossibilità di procedere alla esecuzione della misura per il mancato rintraccio dell’imputato e la volontaria sottrazione di quest’ultimo alla esecuzione della misura emessa nei suoi confronti – non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, neanche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169, comma quarto, dello stesso codice (Sez. U, Sentenza n. 18822 del 27/03/2014).

Orbene, declinando tale principio di diritto rispetto al caso di specie, i giudici di legittimità ordinaria mettevano in risalto il fatto che, nel caso di specie, al momento della emanazione del decreto di latitanza, non vi fosse stata alcuna effettiva possibilità di conoscere la presenza di un domicilio o di una residenza all’estero a ciò non essendo sufficienti allusioni o accenni da parte dei prossimi congiunti del ricercato così come nemmeno successivamente poteva affermarsi esservi stata la conoscenza di una residenza o di un domicilio certi in conseguenza del carattere del tutto generico e indiretto dei riferimenti richiamati dal ricorrente che non integrano alcuna effettiva indicazione di luoghi specifici se non per effetto di supposizioni o illazioni basate su elementi del fascicolo del tutto slegati fra loro.

Posto ciò, venendo a trattare gli altri motivi, la Cassazione affermava come il secondo motivo del ricorso B. e il primo motivo del ricorso C. fossero inammissibili per difetto di interesse atteso che, a prescindere da qualsiasi valutazione sulla ricostruzione dei fatti offerta dai giudici del merito, andava osservato, ad avviso della Corte, come l’aggravante de qua non risultasse essere stata applicata e valutata ai fini della pena dai giudici medesimi nel senso che, per un verso, la pena base era stata calcolata nel minimo della fattispecie monoaggravata in ipotesi in cui erano state contestate e ritenute le ulteriori aggravanti delle più persone riunite e da soggetti travisati, per altro verso,  l’operato giudizio di valenza con le circostanze attenuanti generiche escludeva che la circostanza medesima avesse trovato alcuna applicazione evidenziandosi al contempo come nemmeno vi sarebbe stato spazio per una ulteriore riduzione di pena.

Di talchè se ne faceva discendere l’inammissibilità del motivo di ricorso per difetto di interesse visto che l’interesse richiesto dall’art. 568, quarto comma, cod. proc. pen., quale condizione di ammissibilità di qualsiasi impugnazione, deve essere correlato agli effetti primari e diretti del provvedimento da impugnare e sussiste solo se il gravame sia idoneo a costituire, attraverso l’eliminazione di un provvedimento pregiudizievole, una situazione pratica più vantaggiosa per l’impugnante rispetto a quella esistente e, pertanto, qualora il ricorrente denunci, al fine di ottenere l’esatta applicazione della legge, la violazione di una norma di diritto formale, in tanto può ritenersi la sussistenza di un interesse concreto che renda ammissibile la doglianza, in quanto da tale violazione sia derivata una lesione dei diritti che si intendono tutelare e nel nuovo giudizio possa ipoteticamente raggiungersi un risultato non solo teoricamente corretto, ma anche praticamente favorevole (Sez. U, Sentenza n. 42 del 13/12/1995); effetto che, ad avviso della Corte, come visto, nel caso di specie non risultava materialmente possibile.

Il Supremo Consesso, infine, in virtù di quanto sin qui esposto, dichiarava inammissibili i ricorsi e, per il disposto dell’art. 616 c.p.p., condannava i ricorrenti al pagamento delle spese processuali nonché ciascuno al versamento in favore della Cassa delle Ammende di una somma che, ritenuti e valutati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determinava equitativamente in E. 2.000,00.

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Conclusioni

La sentenza in commento è assai interessante specialmente nella parte in cui si asserisce che, ai fini della dichiarazione di latitanza, le ricerche effettuate dalla polizia giudiziaria ai sensi dell’art. 295 cod. proc. pen. non devono necessariamente comprendere quelle nei luoghi specificati dal codice di rito ai fini della dichiarazione di irreperibilità e, di conseguenza, neanche le ricerche all’estero quando ricorrano le condizioni previste dall’art. 169, comma quarto, dello stesso codice.

Ebbene, dal momento che questo criterio ermeneutico è lo stesso che è stato postulato dalle Sezioni Unite, nella sentenza n. 18822 del 27/03/2014, va da sé che questo principio di diritto, in quanto perfettamente conforme a questo arresto giurisprudenziale del 2014, non può non essere preso nella dovuta considerazione ove si verifichi una situazione di tal genere.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, di conseguenza, non può che essere positivo.

 

 

Sentenza collegata

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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