(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 192, c. 1)
Il fatto
La Corte di appello di Milano confermava la sentenza di primo grado che aveva dichiarato l’imputato responsabile dei reati di cui all’art. 189 C.d.S., commi 1, 6 e 7, per essersi allontanato senza prestare assistenza alla persona ferita, dopo avere investito con la propria autovettura la vittima che si trovava disteso per terra.
I motivi addotti nel ricorso per Cassazione
Avverso tale sentenza aveva proposto ricorso per cassazione il difensore dell’imputato, lamentando: I) inammissibilità dell’appello incidentale promosso dal Procuratore generale per intervenuta modifica dell’art. 595 c.p.p. a seguito del D.Lgs. n. 11 del 2018; II) omessa motivazione sulla richiesta di applicazione dell’art. 131-bis c.p.; III) vizio di motivazione in punto di responsabilità atteso che i giudici di appello avevano rigettato la ricostruzione difensiva, basata sulla mancata percezione da parte dell’imputato di essere passato, alla guida del proprio veicolo, sopra la persona distesa a terra; in particolare, secondo il ricorrente, le c.d. “spolverature“, riscontrate sotto il veicolo, dimostravano come non vi fosse stato nessun arrotamento ma tutt’al più un passaggio del corpo tra le ruote del veicolo altrimenti l’arrotamento avrebbe provocato la morte dell’uomo e, pertanto, a fronte di ciò, la sentenza sarebbe stata contraddittoria perché individuava quale elemento oggettivo del passaggio sul corpo le “spolverature” sul fondo del veicolo nonchè illogica laddove veniva affermato che ciò avrebbe dimostrato l’elemento soggettivo del reato.
Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione
Il Supremo Consesso reputava fondato ed assorbente il terzo motivo in punto di responsabilità, con particolare riguardo alla carenza ed illogicità della motivazione sull’elemento soggettivo (dolo) dei reati ascritti all’imputato stante il fatto che, come è noto,
in tema di circolazione stradale, il reato di mancata prestazione dell’assistenza occorrente in caso di incidente, di cui all’art. 189 C.d.S., comma 7, implica una condotta ulteriore e diversa rispetto a quella del reato di fuga, previsto dal comma 6 del predetto art. 189, non essendo sufficiente la consapevolezza che dall’incidente possano essere derivate conseguenze per le persone occorrendo invece che un tale pericolo appaia essersi concretizzato, almeno sotto il profilo del dolo eventuale, in effettive lesioni dell’integrità fisica (Sez. 4, n. 23177 del 15/03/2016) fermo restando che, con particolare riferimento al reato di fuga previsto dall’art. 189 C.d.S., comma 6, l’accertamento del dolo, necessario anche se esso sia di tipo eventuale, va compiuto in relazione alle circostanze concretamente rappresentate e percepite dall’agente al momento della condotta laddove esse siano univocamente indicative del verificarsi di un incidente idoneo ad arrecare danno alle persone (Sez. 4, n. 16982 del 12/03/2013).
Al contrario, rilevava la Corte, la motivazione della sentenza impugnata non soddisfava tali requisiti in punto di accertamento del dolo in quanto non era stato esplicitato, sulla base di quale massima di esperienza, si sarebbe fondata l’asserzione secondo cui sarebbe inverosimile che l’autista non abbia percepito l’urto con la persona investita, avuto riguardo alle peculiari circostanze che avevano caratterizzato l’incidente in questione posto che risultava nelle sentenze di merito che, intorno alla mezzanotte del 20.9.2014, la vittima (un ragazzo in quel momento ubriaco), dopo aver buttato delle bottiglie a terra, si era sdraiata volontariamente in mezzo alla strada e, quindi, i testi O. e V. avevano notato un SUV di colore scuro che, senza rallentare, era passato “sopra” il ragazzo per poi proseguire, svoltando a sinistra all’incrocio imboccando Corso Venezia e, una volta identificato l’odierno imputato quale conducente del SUV che aveva investito il ragazzo (il quale aveva riportato fratture costali, delle ossa nasali ed altre ferite nella zona posteriore-sinistra del tronco), costui aveva dichiarato nel processo di non essersi assolutamente accorto di avere investito qualcuno quella notte.
Orbene, appurata l’oggettività dell’investimento, della “fuga” e della omessa assistenza, ad avviso del Supremo Consesso, la sentenza impugnata aveva ritenuto la sussistenza dei reati a carico del prevenuto liquidando la tesi difensiva in ordine alla mancata percezione dell’urto da parte del conducente – decisiva ai fini della sussistenza del dolo -, ragionando in termini di “inverosimiglianza” di una simile ricostruzione senza nulla aggiungere di specifico per corroborare tale valutazione, al di là dell’avvenuto passaggio del veicolo sul corpo della vittima e senza neanche accennare – quanto alla consapevolezza del fatto da parte del conducente – alle peculiari modalità che avevano caratterizzato l’incidente trattandosi del repentino investimento, di notte, di una persona sdraiata in mezzo alla strada da parte di un SUV di grosse dimensioni.
Difatti, dal momento che, in tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d’esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile (Sez. 6, n. 49029 del 22/10/2014), nel caso in disamina, all’opposto, la Corte territoriale non aveva contrastato l’ipotesi alternativa prospettata dalla difesa con una ricostruzione fondata su dati indiziari o massime d’esperienza idonee a corroborare la tesi che l’imputato avesse avuto sicura contezza dell’urto e ciò nonostante che la tesi difensiva fosse supportata dalle anomale circostanze caratterizzanti l’investimento in questione (fra cui il tempo di notte e l’inusualità costituita da una persona distesa per terra sulla strada) tenuto conto altresì del fatto che la regola di giudizio, che richiede l’accertamento della sussistenza del reato “al là di ogni ragionevole dubbio“, implica che, in caso di prospettazione di un’alternativa ricostruzione dei fatti, siano individuati gli elementi di conferma dell’ipotesi accusatoria e sia motivatamente esclusa la plausibilità della tesi difensiva (Sez. 6, n. 10093 del 05/12/2018 – dep. 2019).
In relazione a tale approdo ermeneutico, gli ermellini rilevavano come tale puntuale individuazione degli elementi di conferma dell’ipotesi accusatoria, in punto di dolo, non risultasse adempiuta adeguatamente nel percorso logico-motivazionale della sentenza impugnata e di conseguenza, alla stregua di ciò, disponevano l’annullamento della decisione oggetto di ricorso, con rinvio, per nuovo giudizio, al giudice di merito.
Conclusioni
La sentenza in esame è assai interessante nella parte in cui chiarisce in che termini possa acquisire valore probatorio il criterio della verosimiglianza o l’utilizzo delle massime di esperienza.
Invero, in siffatta decisione, avvalendosi di un precedente conforme, i giudici di piazza Cavour hanno postulato che, in tema di valutazione della prova, il ricorso al criterio di verosimiglianza e alle massime d’esperienza conferisce al dato preso in esame valore di prova solo se può escludersi plausibilmente ogni spiegazione alternativa che invalidi l’ipotesi all’apparenza più verosimile.
Tal che solo ove ricorra siffatta esclusione, il criterio della verosimiglianza e le massime di esperienza, in quanto tali, possono conferire al dato preso in esame da parte del giudice valore di prova.
Il giudizio in ordine a quanto statuito in cotale pronuncia, dunque, proprio perché chiarisce questo importante aspetto processuale, non può che essere positivo.
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