Quando è possibile ricorrere per Cassazione a norma dell’art. 448, c. 2-bis, c.p.p. per vizio di motivazione: un chiarimento da parte delle Sezioni Unite

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(Annullamento parziale con rinvio)

 

(Riferimento normativo: Cod. proc. pen., art. 448, c. 2-bis)

 

Il fatto

 

Il Giudice della udienza preliminare del Tribunale di Reggio Emilia, applicava, ai sensi dell’art. 444 cod. proc. pen., a carico degli imputati la pena concordata di anni quattro di reclusione e di euro diciottomila di multa per il delitto di cui all’art. 73, comma 1, d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, contestato a tutti gli imputati quanto alla detenzione di 527,5 grammi di sostanza stupefacente del “tipo cocaina” (sub b) e, a uno solo di essi, anche in relazione alla cessione di 3,18 grammi di sostanza stupefacente del “tipo verosimilmente cocaina” (capo a).

Con la stessa sentenza, inoltre, gli imputati erano stati dichiarati interdetti dai pubblici uffici per cinque anni e nei loro confronti era stata ordinata l’espulsione dal territorio dello Stato a pena espiata ai sensi dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990 e, infine, era stata disposta, oltre alla distruzione della sostanza stupefacente in sequestro, la confisca, ex art. 12-sexies d.l. 8 giugno 1992, n. 306, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto 1992, n. 356, del denaro in sequestro in considerazione della sua sproporzione rispetto al reddito di alcuni di questi imputati, entrambi, per loro ammissione, disoccupati e privi di “beni di fortuna“.

 

I motivi addotti nel ricorso per Cassazione e i motivi nuovi

 

Avverso detta sentenza, depositata in udienza con motivazione contestuale, veniva proposto ricorso per cassazione tutti gli imputati.

  1. A. S., ricorrendo per mezzo del suo difensore, chiedeva l’annullamento della sentenza in relazione alla disposta applicazione della misura di sicurezza della espulsione, articolando due motivi, con i quali ha denunciato, rispettivamente, violazione di legge e mancanza e illogicità della motivazione.

Secondo la ricorrente, il Giudice, omettendo di osservare il dettato normativo dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990, sì come inciso dall’intervento della Corte costituzionale che, con sentenza n. 58 del 1995, lo aveva dichiarato parzialmente incostituzionale, aveva ordinato di ufficio la sua espulsione a pena espiata senza accertare la sussistenza della pericolosità sociale e indicare in sentenza i relativi presupposti, limitandosi a richiamare la sua attuale posizione cautelare e, illogicamente, trascurando di apprezzare le autorizzazioni concessele per svolgere attività lavorativa esterna e il suo serbato rispetto delle prescrizioni imposte, oltre alla sua incensuratezza e alla confessione resa, pur valorizzate ai fini della concessione delle circostanze attenuanti generiche.

  1. N. e V. N., anch’essi, avevano proposto ricorso, a mezzo del comune difensore, con unico atto, chiedendo l’annullamento della sentenza sulla base di due comuni motivi.

Con il primo motivo avevano denunciato violazione di legge in relazione all’art. 129 cod. proc. pen. e vizio di motivazione rappresentando che il giudice aveva omesso di svolgere l’operazione preliminare demandatagli, tesa a riscontrare l’eventuale ricorrenza di cause di non punibilità giustificative del loro proscioglimento, ovvero non aveva adeguatamente motivato la loro non ritenuta sussistenza.

Con il secondo motivo veniva dedotto violazione di legge in relazione agli artt. 234 cod. proc. pen. e 12-sexies legge n. 356 del 1992 e mancanza di motivazione in ordine alla confisca del denaro in sequestro dolendosi della omessa acquisizione di documentazione, rappresentata da due dichiarazioni rese davanti a un notaio in Albania dal fratello e dal cugino di essi stessi e da una ricevuta bancaria, dimostrative della liceità della provenienza del denaro in sequestro, e del mancato adempimento da parte del giudice dell’obbligo di motivare sulle ragioni della confisca, disposta in termini del tutto generici, nonostante la non estensibilità al provvedimento di confisca della sinteticità della motivazione della sentenza di applicazione della pena.

Con successivo atto, sottoscritto dal medesimo difensore, G. N. e V. N., avevano dedotto un ulteriore motivo, opponendo l’errata applicazione dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990 e l’omessa motivazione in ordine alla misura di sicurezza della espulsione, disposta con la sentenza impugnata senza un previo accertamento della sussistenza in concreto della loro pericolosità sociale e senza l’obbligatoria verifica, alla luce delle richiamate norme interne e pattizie e delle illustrate pronunce costituzionali, delle loro condizioni di vita individuale, familiare e sociale.

La ricorrente G. A. S. aveva presentato pure dei motivi nuovi con i quali, premesso in fatto di essere libera dal 5 ottobre 2018 in dipendenza della disposta revoca della misura degli arresti domiciliari e reiterata la denunciata carenza della motivazione quanto alla sua ritenuta pericolosità sociale, aveva eccepito la illegittimità costituzionale dell’art. 19, comma 2, d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, e dell’art. 86, comma 1, d.P.R. n. 309 del 1990 per contrasto con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost., e dell’art. 86 anche in relazione all’art. 4 Cost..

 

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

 

Con ordinanza la Sezione Sesta penale aveva rimesso la decisione dei ricorsi alle Sezioni Unite a norma dell’art. 618 cod. proc. pen..

La Sezione rimettente – movendo dal rilievo che, a norma dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dall’art. 1, comma 50, legge 23 giugno 2017, n. 103, «il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza [di patteggiamento] solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena e della misura di sicurezza» – aveva rilevato profili di inammissibilità dei ricorsi con riferimento al vizio di motivazione in ordine alle statuizioni “esterne” al patto, ovvero non comprese nell’accordo sottostante, e relative ai punti della sentenza riguardanti le disposte misure di sicurezza – personale e patrimoniale – della espulsione dal territorio dello Stato e della confisca del denaro in sequestro.

Secondo un orientamento già sviluppatosi nella giurisprudenza di legittimità, dalla interpretazione testuale, sistematica e logica dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., coerente con l’analisi dei lavori preparatori e compatibile con i ripercorsi parametri costituzionali e convenzionali, deve trarsi la conclusione della inammissibilità del sindacato sulla motivazione, nelle differenti declinazioni previste dall’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen., essendo i casi e i punti impugnabili individuati «in modo tassativo e derogatorio rispetto a quelli generali» dal regime di impugnazione specifico per la sentenza di applicazione di pena concordata (Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018).

Ciò posto, la Sezione Sesta, sviluppando le questioni relative al contenuto e alla valenza dell’accordo tra le parti nella sentenza di “patteggiamento“, alla tutela dei diritti e alla compatibilità costituzionale della unicità del regime di impugnazione sostenuta dal ridetto orientamento, aveva rappresentato l’esistenza di almeno due opzioni interpretative alternative, capaci di conformare maggiormente il dato normativo sia ai principi costituzionali sia alla natura pattizia del rito.

Secondo la prima opzione (recepita da Sez. 3, n. 4252 del 15/1/2019, omissis), il vizio di omessa o apparente motivazione relativo all’applicazione della misura di sicurezza è deducibile in sede di legittimità in quanto configura un’ipotesi di illegalità della misura di sicurezza, rilevante come violazione di legge a norma dell’art. 111, comma 7, Cost.

In tal modo, sul presupposto che «la nozione di misura di sicurezza illegale è più ampia di quella di pena illegale e ricomprenderebbe anche quella di misura di sicurezza illegittima, cioè disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge», l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. avrebbe un ambito applicativo onnicomprensivo e riferibile a tutte le statuizioni, ricettive dell’accordo ovvero ad esso esterne.

Tale opzione, tuttavia, ad avviso del giudice rimettente, mentre si fa carico dei profili critici conseguenti al primo orientamento, suppone, ove recepita, chiarimenti sia in ordine alle ragioni della diversa ampiezza della nozione di illegalità della misura di sicurezza rispetto a quella della pena e alla sua attinenza anche alla illegittimità della misura di sicurezza, sia in ordine alla eventuale rivisitazione della nozione di illegalità della pena e ai riflessi sul tema della inammissibilità del ricorso per cassazione.

La seconda possibile opzione – non contrastante con l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. e compatibile con la rinuncia ai diritti e alle garanzie implicata dalla scelta dell’imputato di definizione della sua vicenda processuale con il “patteggiamento” e con la volontà legislativa di limitare le impugnazioni pretestuose – è fondata sulla distinzione tra le statuizioni che recepiscono il patto e quelle esterne all’accordo e sulla conformazione del potere di impugnazione sul tipo di statuizione e sul suo rapporto con il contenuto del patto (in tal senso, Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018, omissis; Sez. 4, n. 22824 del 17/4/2018, omissis).

Premesso il possibile inserimento nel patto di eventuali profili ulteriori (misure di sicurezza) rispetto al suo oggetto essenziale, su cui la Corte di cassazione si era più volte espressa in senso favorevole pur chiarendo che il giudice non era obbligato da tale inclusione, la sentenza che recepisce l’accordo a contenuto complesso, esteso a tali statuizioni esterne, mentre non comporta l’onere del giudice di specifica motivazione sul punto, è impugnabile, secondo tale opzione, solo nei limiti previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen..

Invece, il giudice, nell’ipotesi in cui non recepisca l’accordo anche nella parte accessoria o disponga una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, sulla quale nulla si è convenuto tra le parti, ha un onere di motivazione specifica e il potere di impugnazione non può non ricomprendere anche il sindacato sulla motivazione del provvedimento, secondo la norma generale di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen..

Profilandosi potenzialmente un contrasto sulla base del complesso dei rilievi svolti, la Sezione rimettente aveva ritenuto necessario sottoporre alle Sezioni Unite la questione dell’ammissibilità del ricorso per cassazione – alla luce del disposto dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. – contro la sentenza di applicazione di pena su richiesta, ove sia dedotto il vizio di motivazione in ordine all’applicazione di misura di sicurezza, personale o patrimoniale.

Con decreto del 10 maggio 2019, a sua volta, il Presidente aggiunto della Corte di cassazione aveva assegnato i ricorsi alle Sezioni Unite penali ai sensi dell’art. 610, comma 2, cod. proc. pen., fissando per la trattazione in camera di consiglio ai sensi dell’art. 611 cod. proc. pen. l’udienza del 18 luglio 2019, poi differita all’udienza odierna.

 

La posizione assunta dalla Procura generale presso la Corte di Cassazione

 

Il Procuratore generale presso la Corte di Cassazione depositava requisitoria scritta sostenendo la tesi della ricorribilità per cassazione, secondo i parametri previsti dall’art. 606, commi 1 e 2, cod. proc. pen., della sentenza di “patteggiamento” per tutto ciò che «è rimasto estraneo all’atto pattizio, come le misure di sicurezza, o non condiviso dal giudice», mentre il richiamo alla illegalità della misura di sicurezza individuerebbe i limiti della impugnazione, secondo lo statuto speciale, quando la stessa avesse formato oggetto di accordo ratificato dal giudice, e concludendo, nella specie, per l’ammissibilità e la fondatezza dei ricorsi in relazione ai motivi riguardanti la confisca e l’ordine di espulsione degli imputati e per l’annullamento della sentenza in relazione ai relativi capi, non determinanti, in quanto autonome statuizioni del giudice, per la validità dell’accordo ex art. 444 cod. proc. pen..

 

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

 

Le Sezioni Unite, prima di entrare nel merito della questione, procedevano ad una sua delimitazione nei seguenti termini: “se l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., come introdotto dall’art. 1, comma 50, della legge n. 103 del 2017, osti all’ammissibilità del ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione concordata della pena con cui si deduca il vizio di motivazione in ordine all’applicazione di misura di sicurezza, personale o patrimoniale”.

Premesso ciò, gli Ermellini osservavano come la disamina della indicata questione, strettamente attinente all’ambito applicativo del vigente art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., introdotto dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, e all’ammissibilità del ricorso per cassazione che, per vizio di motivazione, attinga la statuizione relativa all’applicazione di una misura di sicurezza, contenuta nella sentenza di “patteggiamento“, richiedesse una sintetica ricognizione del quadro normativo di riferimento.

Orbene, veniva a tal proposito fatto presente come fosse sufficiente annotare allo stato che, antecedentemente alla indicata legge, il regime delle impugnazioni era regolato dal principio dettato dall’art. 448, comma 2, cod. proc. pen., alla cui stregua la sentenza di applicazione della pena è inappellabile, salva la sua appellabilità da parte del pubblico ministero dissenziente, e dal principio generale, desumibile dall’art. 568, comma 2, cod. proc. pen., della ricorribilità per cassazione, ex art. 606, comma 2, cod. proc. pen., delle sentenze non altrimenti impugnabili mentre, invece, l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., positivizzando la disciplina della ricorribilità per cassazione della ridetta sentenza, dispone che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso «solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza» correlando i previsti motivi a specifiche ipotesi, attinenti al contenuto dell’accordo ovvero della sentenza, e segnatamente alla legittima formazione dell’accordo e al suo esatto recepimento in sentenza, alla correttezza delle norme cui sono riferite le fattispecie concrete e al rispetto del canone della legalità della pena e della misura di sicurezza eventualmente applicata.

Con riguardo alla questione devoluta, si notava la sussistenza di due distinti orientamenti della giurisprudenza di legittimità.

In particolare, secondo un primo orientamento, che esclude l’ammissibilità del ricorso per cassazione con il quale si deduca un vizio della motivazione della sentenza di “patteggiamento” quanto all’applicazione delle misure di sicurezza, è sostenuto, nell’ambito di un’articolata motivazione, da una decisione intervenuta con riferimento a fattispecie in cui, applicata la pena concordata tra le parti per il reato di cessione e detenzione di cocaina, era stata disposta la confisca, “facoltativa” di cui all’art. 240, primo comma, cod. pen., del denaro ritenuto «provento di detto spaccio» (Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018, dep. 2019, omissis, Rv. 274962).

Con detta decisione, esclusa l’ipotesi della illegalità della disposta confisca, denunciata perché non prevista dalla legge, si ritiene inammissibile, per non essere consentita nel giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., la censura di inadeguata motivazione circa l’illecita provenienza del denaro confiscato e la sproporzione tra il valore dei beni posseduti e il reddito dichiarato.

Tale esito è imposto, si legge nella sentenza, da convergenti ragioni di natura testuale, sistematica e logica, coerenti con i parametri costituzionali e convenzionali.

Secondo questo approdo ermeneutico, tra l’altro, una diversa interpretazione, che considerasse ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione rispetto a una statuizione, come quella in punto di confisca, estranea all’accordo sull’applicazione della pena, con “recupero” dei motivi di ricorso previsti in via generale, si risolverebbe in una interpretatio abrogans della suddetta norma «rievocando obblighi di motivazione e correlati mezzi di ricorso vigenti precedentemente alla riforma, che – invece – ha voluto accomunare l’illegalità della pena a quella della confisca limitando espressamente il ricorso per cassazione a dette ipotesi, nell’ambito di una tassatività già affermata dalla giurisprudenza di questa Corte (Sez. 3, n. 45559 del 07/03/2018, omissis, Rv. 273950)».

Detto questo, veniva al contempo rilevato come la proposta interpretazione trovi fondamento anche nel dato esegetico dei lavori preparatori in correlazione con la ratio dell’art. 14 dell’originario disegno di legge, poi confluito nell’art. 1, comma 50, legge n. 103 del 2017, introduttivo del comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen.

Tale ratio – individuata dalla «Relazione governativa di accompagnamento del d.d.l.» (A.C. 2798 – XVII Legislatura) nel giudizio di non meritevolezza dell’«attuale troppo ampia ricorribilità per cassazione» della sentenza di applicazione della pena per il verificato largo esito di inammissibilità dei ricorsi – rivela, infatti, la ragionevolezza della limitazione del ricorso per cassazione avverso le sentenze di “patteggiamento” nel dichiarato intento del legislatore di scoraggiare i ricorsi defatigatori e di «accelerare la formazione del giudicato».

Inoltre, in logica coerenza con il principio di legalità, che, «enunciato per le misure di sicurezza dall’art. 199 cod. pen. e sistematicamente composto con quello della legalità della pena, di cui all’art. 1 cod. pen., nella previsione di cui all’art. 25, secondo comma, Cost.», permea l’intero sistema penale, la illegalità della misura di sicurezza, mutuando i criteri elaborati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di illegalità della pena, riguarda la sua «radicale estraneità a sistema […] per mancanza di elementi di struttura rispetto al modello tipico applicabile al caso concreto», mentre il vizio di motivazione evoca una causa di illegittimità della misura applicata in assenza dei presupposti giustificativi.

L’illegalità della misura di sicurezza si atteggia, pertanto, quale presupposto logico di ogni censura della motivazione della sentenza di “patteggiamento” sul relativo punto della decisione che non è deducibile se non «accompagnata alla plausibile prospettazione di quella specifica violazione di legge penale – evocata nel comma 2-bis dell’art. 448 e sopra descritta – rappresentata dalla illegalità dell’applicata misura di sicurezza».

Da ultimo, le enunciate ragioni, nello sviluppo argomentativo della sentenza, sono state ritenute coerenti con i principi costituzionali e convenzionali posto che, anche in ragione della previsione di una specifica disciplina transitoria per l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., la soluzione individuata è in linea con l’art. 111, commi 6 e 7, Cost. ed è «conforme alle esigenze di tutela del diritto di difesa e di rispetto dei principi dell’equo processo, di cui agli artt. 3, 24 e 111, comma 2, Cost. e art. 6 della Convenzione EDU, anche con specifico riferimento ai parametri di ragionevolezza, proporzionalità e ragionevole durata del processo».

Nel dettaglio, con riferimento alle garanzie dell’equo processo e del doppio grado di giurisdizione, l’arresto di legittimità, che si ripercorre, si sofferma in via conclusiva sulla giurisprudenza della Corte EDU, che ha ritenuto che la rinuncia da parte dell’imputato a una serie di diritti e garanzie procedurali, conseguente alla richiesta di “patteggiamento“, faccia apparire ragionevole, ove accompagnata da garanzie minime commisurate alla sua importanza e non contrarie al pubblico interesse, la mancata previsione della possibilità di ricorrere a un giudice superiore (tra le altre, Corte EDU, GC, 17/09/2009, Scoppola c. Italia, § 135-136; Corte EDU, GC, Hermi c. Italia, 18/10/2006, § 73; Corte EDU, GC, Poitrimol c. Francia, 23/11/1993, § 31).

A fronte di ciò, si faceva infine presente come in questo orientamento si collocassero anche: Sez. 6, n. 5875 del 19/12/2018 e Sez. 6, n. 7630 del 19/12/2018, dep. 2019, Fall, Rv. 275210 che avevano ribadito, in fattispecie analoghe, il ridetto percorso logico e sono pervenute alle stesse conclusioni di inammissibilità del motivo relativo alla inadeguata motivazione, con sentenza di “patteggiamento” della disposta confisca (nello stesso senso, anche Sez. 1, n. 21407 del 19/03/2019).

L’opposto orientamento, favorevole alla ricorribilità per cassazione per vizio della motivazione della sentenza di “patteggiamento” in ordine all’applicazione di misure di sicurezza, personali o patrimoniali, all’opposto, giunge a tale conclusione sulla base di differenti impostazioni ermeneutiche fondate rispettivamente sulla elaborazione della nozione di illegalità della misura di sicurezza e sulla distinzione tra le statuizioni che recepiscono il patto relativo all’applicazione della pena e quelle esterne all’accordo.

La prima opzione, invero, ritiene l’ammissibilità del ricorso per cassazione per la riconducibilità della mancata o apparente motivazione circa l’applicazione della misura di sicurezza alla nozione di illegalità rilevante come «violazione di legge» ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost. (Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019).

Secondo tale impostazione, la nozione di illegalità della misura di sicurezza non è determinabile utilizzando i medesimi parametri elaborati dalla giurisprudenza per individuare il significato della nozione di pena illegale (in particolare, Sez. U, n. 40986 del 19/7/2018, e Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015) essendo difficile ipotizzare, soprattutto nei casi di confisca ai sensi degli artt. 240 e 240-bis cod. pen., ovvero di espulsione o allontanamento dello straniero dallo Stato, «una misura che per specie o per quantità non corrisponda a quella astrattamente prevista, o che è stata determinata dal giudice sulla base di un procedimento di commisurazione basato su parametri edittali inapplicabili», e ricomprende tutti i casi in cui la misura sia disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione (Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019).

A tal riguardano veniva richiamata, in ordine a tale orientamento nomofilattico, una risalente decisione alla cui stregua «tutto ciò che si riferisce alla erronea applicazione di una misura di sicurezza fuori dei casi consentiti, in quanto violazione del più ampio principio di legalità (art 199 cod. pen. e 25 Costituzione) cui è sottoposto, come le pene, anche il regime delle misure di sicurezza, rientra nel potere decisorio ex officio della corte di cassazione che, se rileva una causa di illegalità della misura di sicurezza, deve provvedere ad eliminarla» (Sez. 3, n. 1044 del 10/7/1967) e una più recente decisione che «ha affermato l’illegalità di una confisca per equivalente disposta per un valore superiore al profitto del reato, sul presupposto della natura “sanzionatoria” di tale misura», giungendosi alla conclusione che «la nozione di “misura di sicurezza illegale” sembra far riferimento alle misure di sicurezza applicate in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge» (Sez. 3, n. 46049 del 28/03/2018).

La conclusione cui si perviene, inferibile dal testo degli artt. 25, comma 2, Cost. e 199 cod. pen., è ritenuta inoltre coerente anche con la diversità dei presupposti applicativi delle pene rispetto alle misure di sicurezza che – a differenza delle prime che seguono all’accertamento del reato e, nei casi previsti, alla esclusione di una causa di non punibilità – richiedono una valutazione ulteriore afferente, a seconda dei casi, all’accertamento della pericolosità sociale ovvero, ai fini dell’applicazione della confisca facoltativa, alla verifica del nesso di strumentalità o di derivazione tra il bene e il reato; consente di assicurare il rispetto della garanzia costituzionale del controllo di legalità di tutte le sentenze e i provvedimenti sulla libertà personale, pacificamente esteso alla mancanza o mera apparenza della motivazione; è in linea con i principi enunciati dalla giurisprudenza, costituzionale e di legittimità, in tema di motivazione della sentenza di applicazione della pena su richiesta, che, «in relazione all’applicazione delle misure di sicurezza, implic[a] un discorso giustificativo più analitico ed approfondito di quello richiesto per l’accertamento del fatto di reato e per la determinazione della pena» in quanto, con riferimento alle stesse, «non è correlabile ad alcun atto negoziale con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione o concorda la pena»; è, infine, compatibile con l’art. 2, prot. 7, CEDU e con la giurisprudenza della Corte EDU, secondo cui l’attuazione della garanzia, di cui alla detta norma, in forza della quale ciascun condannato ha diritto a un giudizio di controllo da parte di un giudice superiore, è rimessa a un ampio margine di apprezzamento da parte degli Stati e i moduli di definizione concordata del procedimento penale possono implicare garanzie d’impugnazione meno ampie.

La seconda opzione distingue a sua volta le statuizioni che recepiscono il patto e quelle esterne all’accordo sviluppando nel suo interno argomenti diversi e pervenendo a esiti diversi che tuttavia procedono da una stessa premessa rappresentata dalla portata costitutiva dell’accordo che, comunque inteso dal punto di vista strutturale, è sotteso alla sentenza di “patteggiamento” e dalla sua “legittimazione” costituzionale nel consenso e nel diritto di difendersi negoziando (in cui può essere declinato il diritto di difesa riconosciuto dall’art. 24, comma 2, Cost.).

Una prima impostazione, d’altronde, individua il regime di impugnazione della sentenza avendo riguardo alla diversa intensità dell’onere di motivazione gravante sul giudice in relazione al tipo di statuizione e al rapporto tra la stessa e il contenuto del patto il cui oggetto è tipizzato dall’art. 444 cod. proc. pen. e ritiene ammissibile il ricorso per cassazione avente a oggetto la doglianza di mancanza di motivazione e di violazione dell’art. 240 cod. pen. in ordine alla disposta confisca del denaro in quanto relativa a «un aspetto della sentenza estraneo al concordato sulla pena, dunque ricorribile indipendentemente da detti limiti [previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. e secondo le regole generali» (Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018; conforme, Sez. 4, n. 22824 del 17/04/2018,).

Altra impostazione, cui perveniva la stessa Sezione rimettente, valorizza l’interpretazione per la quale, in linea con la sentenza n. 313 del 1990 della Corte costituzionale, si configura, nella determinazione della sentenza, un modello di “compartecipazione” delle parti e del giudice, che soprintende all’accordo, la legittimità della cui logica negoziale, riferita al tema principale della responsabilità e della sanzione, è estensibile alla parte relativa all’applicazione della misura di sicurezza.

L’ordinanza – anche richiamando approdi della giurisprudenza di legittimità (Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016; Sez. 2, n. 19945 del 19/04/2012; Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015; Sez. 5, n. 1154 del 22/03/2013) che hanno ritenuto possibile “inserire” nel patto una statuizione relativa alla misura di sicurezza con esclusione, tuttavia, di un effetto vincolante per il giudice, gravato solo da un onere di motivazione nel caso in cui provveda in termini difformi da quelli concordati, nella impossibilità di estendere al punto relativo alla confisca le caratteristiche di sinteticità della motivazione tipiche della sentenza di patteggiamento – rappresenta la desumibilità da tale consolidato principio di una interpretazione dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. che ne circoscrive l’applicazione, quanto al motivo di ricorso relativo all’illegalità della misura di sicurezza, alla sentenza di “patteggiamento” che recepisca il contenuto dell’accordo, nel quale siano inseriti dalle parti, oltre al suo oggetto essenziale, eventuali ulteriori profili (accidentalia negotii), rispetto ai quali il giudice è esonerato dall’onere di motivare specificamente.

Diversamente, esclusa la vincolatività dell’accordo sulla misura di sicurezza, il giudice, che non lo recepisce o applica una misura di sicurezza non oggetto di accordo tra le parti, dovrebbe svolgere una motivazione specifica e la sentenza sarebbe impugnabile anche per vizio della motivazione.

Chiarito in cosa consistono questi indirizzi interpretativi, a questo punto della disamina, per le Sezioni Unite, ai fini della risoluzione della questione posta, si impone svolgere alcune preliminari considerazioni indotte dalla necessità di delimitare l’oggetto del quesito, che attiene sì come devoluto, alla ricorribilità in cassazione per vizio della motivazione, alla luce dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., della sentenza di “patteggiamento” che abbia applicato una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, e di inquadrare l’indicato oggetto nel pertinente più ampio contesto normativo e interpretativo.

Precisato ciò, si rilevava prima di tutto che la confisca “ex art. 12 sexies I. 356/92” e l’espulsione “ex art. 86 d.P.R. 309/90“, ordinate con la sentenza impugnata a carico dei ricorrenti in relazione al delitto di cui all’art. 73 d.P.R. n. 309 del 1990, rientrano tra le misure di sicurezza, patrimoniali e personali, adottabili, con sentenza di applicazione, su richiesta delle parti, di una pena superiore a due anni di reclusione soli o congiunti a pena pecuniaria, ovvero, limitatamente alla «confisca nei casi previsti dall’articolo 240 del codice penale», quando la pena irrogata sia inferiore all’indicato limite, ai sensi dell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen.

In tal senso, osservavano le Sezioni Unite, è il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (tra le altre, in punto di confisca, Sez. 6, n. 9930 del 13/02/2014; Sez. 2, n 3247 del 18/9/2013; Sez. 5, n. 47179 del 03/11/2009; Sez. 6, n. 4280 del 25/09/2008; in punto di espulsione dello straniero dal territorio dello Stato ex art. 86 d.P.R. 309 del 1990, Sez. 4, n. 42345 del 16/05/2017; Sez. 4, n. 42841 del 02/10/2008; Sez. 6, n. 3448 del 12/06/2006) riferibile a tutte le ipotesi in cui con la sentenza di applicazione della pena, per espresso riferimento normativo ovvero per omesso richiamo, nella normativa di riferimento, a uno specifico modello procedimentale, debba o possa applicarsi una misura di sicurezza.

Ciò posto, si rilevava, inoltre, che, con riferimento alla sentenza di applicazione di pena patteggiata, era stata affermata nella giurisprudenza di legittimità la necessaria correlazione dello sviluppo delle linee argomentative della decisione all’esistenza di un sotteso accordo con cui l’imputato dispensa l’accusa dall’onere di provare i fatti dedotti nell’imputazione puntualizzandosi che l’obbligo di motivazione, imposto al giudice ai sensi degli artt. 111 Cost. e 125 Cod. proc. pen. per tutte le sentenze, non può non essere conformato, rispetto a quella di applicazione della pena su richiesta delle parti, alle sue peculiari caratteristiche formali, strutturali, genetiche e funzionali che la differenziano dall’ordinaria sentenza di condanna, pur senza ridursi il compito del giudice alla semplice presa di atto del patto concluso dalle parti (Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995).

A tale riguardo le Sezioni Unite, che avevano sempre sottolineato, intervenendo su istituti specifici, la portata costitutiva dell’indicato accordo vincolato alla tipicità dei contenuti legislativamente predefiniti (tra le altre, Sez. U, n. 35738 del 27/05/2010; Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005; Sez. U, n. 3 del 25/11/1998), avevano giudicato sufficiente una motivazione in termini sintetici in merito alle statuizioni costituenti oggetto del medesimo accordo implicante per l’imputato che ne fa richiesta la rinuncia ad avvalersi della facoltà di contestare l’accusa (Sez. U, n. 20 del 27/10/1999), ovvero l’esonero dell’accusa dall’onere della prova dei fatti dedotti nella imputazione (Sez. U, n. 5777 del 27/3/1992).

A sua volta la giurisprudenza, antecedente alla entrata in vigore della legge n. 103 del 2017, che si era consolidata su tali condivisi principi (da ultimo, Sez. 6, n. 56976 del 11/09/2017), aveva, invece, escluso costantemente, che la caratteristica di sinteticità della motivazione tipica del rito potesse estendersi alle statuizioni estranee all’accordo, come quelle relative, per quanto qui interessa, all’applicazione delle misure di sicurezza.

Quanto alla confisca, si era, invero, ripetutamente affermato che, in caso di pena patteggiata, anche dopo la modifica – introdotta con l’art. 2, comma 1, lett. a), legge 12 giugno 2003, n. 134 – dell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen., che ha esteso le possibilità di provvedere alla confisca rendendola adottabile in tutti i casi previsti dall’art. 240 cod. pen., il giudice è tenuto a motivare l’esercizio del suo potere discrezionale, evidenziando i variabili presupposti delle disposte misure in relazione alla situazione concreta e secondo le specifiche normative che le disciplinano (tra le altre, Sez. 6, n. 9930 del 13/02/2014, omissis, cit.; Sez. 6, n. 11497 del 21/10/2013; Sez. 2, n 3247 del 18/9/2013; Sez. 4, n. 41560 del 26/10/2010).

Quanto, inoltre, alla espulsione dello straniero dal territorio dello Stato a pena espiata, prevista dall’art. 86, primo comma, d.P.R. n. 309 del 1990 per i reati ivi indicati, il giudice di merito deve effettuare, anche con la sentenza di “patteggiamento“, in virtù dell’applicata statuizione contenuta nella sentenza n. 58 del 1995 della Corte costituzionale, un previo e motivato accertamento della sussistenza in concreto della pericolosità sociale dello straniero (tra le altre, Sez. 6, n. 3448 del 12/06/2006; Sez. 4, n. 42317 del 08/06/2004).

Le misure di sicurezza personali, qualunque sia la natura che ontologicamente si assegna loro, aveva annotato al riguardo la Corte costituzionale, «comportano comunque la privazione o la limitazione della libertà personale e, quindi, incidono in ogni caso su un valore che l’art. 13 della Costituzione riconosce come diritto inviolabile dell’uomo, sia esso cittadino o straniero […]. Ed è giurisprudenza di questa Corte che, di fronte all’incisione di beni di tal pregio, il controllo di costituzionalità delle norme di legge contestate deve avvenire in modo da garantire che il sacrificio della libertà sia giustificato dall’effettiva realizzazione di altri valori costituzionali o non vada incontro a ostacoli insormontabili costituiti dalla protezione di altri valori costituzionali (v., ad esempio, sentt. nn. 63 del 1994, 81 del 1993, 368 del 1992, 366 del 1991)».

Né, si era pure rilevato, come annotato anche nell’ordinanza di rimessione, che le parti, nell’ambito della loro discrezionalità e autonomia, non possono includere nell’accordo, delimitato dal legislatore al solo trattamento sanzionatorio e alla eventuale concessione della sospensione condizionale della pena, anche le misure di sicurezza, tuttavia chiarendosi che il giudice non è vincolato alle richieste delle parti in quanto dette misure, sottratte alla loro disponibilità, esulano dall’area della negozialità individuata e delimitata dall’art. 444 cod. proc. pen. ma, ove le disattenda, senza essere obbligato a recepire o non recepire per intero l’accordo, deve indicare le ragioni per le quali ha provveduto, al riguardo, in termini difformi da quelli concordemente prospettati dal pubblico ministero e dalla difesa (tra le altre, con riferimento alla sola confisca, Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016; Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015; Sez. 5, n. 1154 del 22/3/2013; Sez. 2, n. 19945 del 19/4/2012).

Oltre a ciò, veniva altresì rilevato come la giurisprudenza di legittimità, procedendo dalla considerazione che, in tema di “patteggiamento“, il prestato consenso è frutto del generale potere dispositivo riconosciuto dalla legge alle parti e ratificato dal giudice, abbia anche affermato, delimitando l’area dei vizi deducibili e parametrati sulle peculiarità del rito (Sez. 5, n. 102 del 18/01/1995) e abbia ribadito, con orientamento costante (tra le altre, Sez. 6, n. 28427 del 12/03/2013; Sez. 2, n. 3622 del 10/01/2006; Sez. 6, n. 38943 del 18/9/2003; Sez. 1, n. 6898 del 18/12/1996, dep. 1997), che tutte le statuizioni non illegittime, concordate dalle parti e recepite dal giudice, precludono alle parti stesse la proposizione, nella successiva sede dell’impugnazione, che è quella di legittimità, di eccezioni o censure, che attengono al merito delle valutazioni sottese al consenso stesso ovvero si risolvono in un recesso dall’accordo non consentito ad alcuna delle parti per il principio costituzionale di uguaglianza fra le stesse nel processo penale.

Quanto alle misure di sicurezza, in linea con il ribadito principio della non automatica estensione alla loro applicazione della motivazione sommaria propria del rito speciale, si era inoltre giudicato sussistente, nel caso in cui la confisca fosse disposta senza motivazione, l’interesse all’impugnazione da parte dell’imputato che avesse contestato nel giudizio di merito o anche solo nei motivi di ricorso, l’esistenza di un qualsiasi nesso tra il bene e il reato così come si era ritenuto censurabile l’incorso inadempimento dell’obbligo di motivazione annullandosi la sentenza resa in sede di “patteggiamento” limitatamente alla disposizione sulla confisca allo scopo di consentire all’interessato di far valere le sue ragioni (o dinanzi al giudice di rinvio, tra le altre, Sez. 6, n. 9930 del 13/02/2014; Sez. 4, n. 27935 del 02/05/2012; Sez. 5, n. 47179 del 03/11/2009; Sez. 6, n. 10531 del 21/02/2007; Sez. 4, n. 28750 del 21/03/2002 ovvero – annullandosi senza rinvio la disposizione relativa alla confisca – in sede esecutiva, tra le altre, Sez. 5, n. 8440 del 24/01/2007; Sez. 6, n. 49966 del 9/11/2004; Sez. 4, n. 33303 del 08/07/2002; Sez. 4, n. 3200 del 15/10/1999; Sez. U, n. 9149 del 03/07/1996).

A tali conclusioni, del resto, era giunta anche quella giurisprudenza che, in presenza di un accordo delle parti includente anche le misure di sicurezza, aveva esaminato il denunciato vizio di motivazione con riguardo alle stesse pervenendo a una pronuncia rescindente ovvero al rigetto del ricorso (Sez. 6, n. 54977 del 14/10/2016; Sez. 2, n. 1934 del 18/12/2015; Sez. 5, n. 1154 del 22/3/2013; Sez. 2, n. 19945 del 19/4/2012).

Con la legge n. 103 del 2017, infine, era stato introdotto, come suesposto anche prima, nel sistema delle impugnazioni, un nuovo comma 2-bis nell’art. 448 cod. proc. pen. secondo cui il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta «solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza».

La medesima legge ha anche aggiunto all’art. 130 cod. proc. pen. il nuovo comma 1-bis che dispone che «quando nella sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti si devono rettificare solo la specie e la quantità della pena per errore di denominazione o di computo, la correzione è disposta, anche d’ufficio, dal giudice che ha emesso il provvedimento. Se questo è impugnato, alla rettificazione provvede la Corte di cassazione, a norma dell’art. 619, comma 2».

Detto questo, veniva per di più osservato che tali norme, che prevedono specifici motivi di ricorso e un possibile intervento correttivo, in sede di legittimità, di errori materiali estranei ai vizi sindacabili come tali e riferibili solo alla “pena“, sono ritenute da più voci in dottrina espressive della svolta codificazione di alcuni degli approdi più significativi raggiunti dalla giurisprudenza nella individuazione e delimitazione delle ragioni di impugnazione di sentenze, pur rese in esito all’intervenuto accordo sulla pena e nella forma impugnabili per tutti i casi previsti dall’art. 606, comma 1, cod. proc. pen. e coerenti con la ratio della riforma e con la prevista limitazione dei casi di ricorribilità di dette sentenze quali desumibili dalla Relazione governativa (A.C. 2798) di accompagnamento del disegno di legge, esitato dopo un lungo iter parlamentare e riprodotto, poi, nel testo definitivo della norma con il solo escluso riferimento all’ipotesi, già prevista, della omessa applicazione della misura di sicurezza.

In detta Relazione, concordante con le valutazioni già espresse dalla Commissione ministeriale, si era, invero, annotato che «anzitutto si reputa che il modulo consensuale di definizione del processo, proprio del cosiddetto patteggiamento, non meriti l’attuale, troppo ampia ricorribilità per cassazione,

constatato, d’altra parte, l’esito largamente prevalente di inammissibilità dei relativi ricorsi, con inutile dispendio di tempo e di costi organizzativi. Si ritiene pertanto di limitarne la ricorribilità ai soli casi in cui l’accordo non si sia formato legittimamente o non si sia tradotto fedelmente nella sentenza, ovvero il suo contenuto presenti profili di illegalità per la qualificazione giuridica del fatto, per la pena o per la misura di sicurezza, applicata od omessa.»

Dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità, nei suoi plurimi interventi successivi alla indicata novella, si era, in effetti, pronunciata sui vizi ricorribili in sostanziale continuità interpretativa con pregressi maggioritari orientamenti, che già avevano apprezzato i vizi ricorribili ex art. 606 cod. proc. pen. tenendo conto dell’accordo processuale alla base del rito.

Dando conto di detti interventi, in termini generali e nei limiti funzionali alla decisione, era stato rilevato, tra l’altro, come fosse esclusa la proponibilità, a seguito di applicazione di pena su richiesta delle parti, di ripensamenti o proposizioni di asseriti vizi di volontà o di intelligenza, irrilevanti se non si traducono in censure di nullità, per le quali vige peraltro il principio di tassatività (Sez. 4, n. 54580 del 19/09/2018) e l’ammissibilità dei motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato ove il ricorso non contenga la specifica indicazione degli atti o delle circostanze che hanno determinato il vizio (Sez. 1, n. 15557 del 20/03/2018) così come era stato riaffermato, quanto al motivo relativo all’erronea qualificazione giuridica del fatto contenuto in sentenza, che sono denunciabili i soli casi di errore manifesto (Sez. 1, n. 15553 del 20/3/2018) o di motivazione meramente apparente (Sez. 6, n. 13836 del 16/01/2019) ovvero di qualificazione palesemente eccentrica rispetto al contenuto del capo di imputazione (Sez. 3, n. 23150 del 17/04/2019; Sez. 6, n. 2721 del 08/01/2018) con conseguente inammissibilità della denuncia di errori valutativi in diritto che non risultino evidenti dal testo del provvedimento impugnato.

Si era, invece, ritenuto non deducibile, alla stregua del nuovo regime impugnatorio, il vizio relativo all’omessa valutazione da parte del giudice delle cause di proscioglimento previste dall’art. 129 cod. proc. pen., sì da ritenersi l’intervento normativo «una ulteriore evoluzione della limitata ricorribilità della sentenza di “patteggiamento” già affermata, nel vigore della precedente normativa, nella giurisprudenza di legittimità, che per indirizzo consolidato disconosceva all’imputato il potere di rimettere in discussione i profili oggettivi e soggettivi della fattispecie su cui era caduto l’accordo in quanto coperti dal patteggiamento, conformando il ridotto obbligo di motivazione in considerazione dell’accordo presupposto dalla decisione (Sez. U, n. 5777 del 27/03/1992, omissis, Rv. 191135; Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995, omissis, Rv. 202270)» (Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018).

La previsione espressa quale motivo di ricorso della illegalità della misura di sicurezza, accanto alla illegalità della pena, aveva dal canto suo indotto la giurisprudenza a chiedersi come la illegalità della misura di sicurezza dovesse essere intesa e se soprattutto la sua definizione dovesse o meno ripetere quella adottata per configurare come illegale, e censurabile con ricorso per cassazione prima della legge n. 103 del 2017, la pena concordata tra le parti e ratificata dal giudice.

Ciò posto, veniva a tal proposito fatto presente come la nozione di pena illegale si fosse attestata attraverso una progressiva elaborazione da parte della giurisprudenza e di plurimi interventi delle Sezioni Unite che l’avevano valorizzata sia in funzione di deroga del principio devolutivo, sia, e soprattutto, per la definizione dei detti limiti di sindacabilità, quanto alla determinazione della pena, della sentenza resa ex art. 444 cod. proc. pen., procedendo da un ambito che la correla ai casi di illegalità ab origine della pena, inflitta extra o contra legem perché non prevista dall’ordinamento giuridico ovvero non corrispondente, per specie ovvero per quantità (sia in difetto che in eccesso), a quella astrattamente prevista per la fattispecie incriminatrice concreta, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio delineato dal codice penale (tra le altre, Sez. 6, n. 32243 del 15/07/2014; Sez. 2, n. 20275 del 07/05/2013; Sez. 2, n. 22136 del 19/02/2013) ed estendendola anche alla pena determinata dal giudice attraverso un procedimento di commisurazione basato su una norma dichiarata costituzionalmente illegittima e, quindi, inesistente sin dalla sua origine (Sez. U, n. 37107 del 26/02/2015; Sez. U, n. 33040 del 26/2/2015; Sez. U, 18821 del 24/10/2013) ovvero in violazione del principio di irretroattività della legge penale più sfavorevole sancito dall’art. 24, secondo comma, Cost. (Sez. U, n. 40986 del 19/7/2018 che aveva anche dato conto degli approdi della giurisprudenza di legittimità e dei casi individuati come integranti ipotesi di pena illegale con riferimento al “patteggiamento“).

In linea con tale delineato ambito della illegalità della pena, si era quindi affermato come non vi rientri la pena che risulti complessivamente legittima, anche se determinata secondo un percorso argomentativo viziato.

La nozione di misura di sicurezza illegale, invece, era stata definita da tre contemporanee decisioni (Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018; Sez. 6, n. 5875 del 19/12/2018; Sez. 6, n. 7630 del 19/12/2018, Fall, già citate quali espressive del primo orientamento oggetto del contrasto potenziale), mutuando le definizioni, già maturate, di pena illegale, sulla premessa che «il principio di legalità, enunciato per le misure di sicurezza dall’art. 199 cod. pen. e sistematicamente composto con quello della legalità della pena, di cui all’art. 1 cod. pen., nella previsione dell’art. 25, secondo comma, Cost., informa di sé tutto il sistema penale e vieta che abbia esecuzione, con la pena illegale, anche una misura di sicurezza illegale», e ritenendo tale la misura di sicurezza non prevista dall’ordinamento giuridico per il caso concreto oggetto di giudizio, ovvero quella eccedente, per specie e quantità, i relativi limiti legali.

Difatti, distinta dalla illegalità, che predica la totale estraneità a sistema della misura di sicurezza, come della pena, per una irrimediabile deviazione dal rilevante modello tipico, è, per dette decisioni, la illegittimità conseguente a un vizio della motivazione, in una delle sintomatiche declinazioni di cui all’art. 606, comma 1, lett. e), cod. proc. pen. che, a differenza della illegalità, è emendabile nel rapporto tra giudizio rescindente e giudizio rescissorio di rinvio sostenendosi in tal senso anche che «l’illegalità della pena o della misura di sicurezza sussiste solo quanto la sanzione irrogata non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero quando, per specie e quantità, risulti eccedente il limite legale, ma non quando risulti errato il calcolo attraverso il quale essa è stata determinata, salvo che non sia frutto di errore macroscopico, trattandosi di errore censurabile solo attraverso gli ordinari mezzi di impugnazione della sentenza», giudicandosi estraneo alla nozione di illegalità il vizio relativo alla quantificazione del profitto (così, Sez. 6, n. 52205 del 16/10/2018) mentre in altri casi si è, invece, estesa la nozione di illegalità della misura di sicurezza, che consente il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., ai casi in cui detta misura sia applicata in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge anche in caso di motivazione mancante o meramente apparente, rilevante come “violazione di legge” ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., valorizzando i presupposti applicativi delle misure di sicurezza, personali e reali, e richiamando risalente arresto (Sez. 3, n. 1044 del 10/7/1967) che aveva ritenuto che tutto ciò che si riferisce all’applicazione di una misura di sicurezza fuori dai casi consentiti costituisce violazione del più ampio principio di legalità di cui agli artt. 199 cod. pen. e 25 Cost., cui è sottoposto anche il regime delle misure di sicurezza (in questo senso, Sez. 3, n. 15525 del 15/2/2019; Sez. 3, n. 4252 del 15/1/2019).

A detta nozione di illegalità della misura di sicurezza si era, infine, anche ricondotta l’ipotesi di omessa applicazione con la sentenza di “patteggiamento” della misura di sicurezza ritenendosi ammissibile il ricorso per cassazione del pubblico ministero volto a denunciarla, perché «incidente sul complessivo trattamento sanzionatorio e perciò rilevante come “violazione di legge” ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost.» (Sez. 3, n. 20781 del 17/12/2018, dep. 2019, con riguardo alla espulsione dello straniero ai sensi dell’art. 86 d.P.R. n. 309 del 1990) ovvero «in quanto tale omissione determina una illegalità sul piano quantitativo delle statuizioni conseguenti alla realizzazione del reato per il quale [la] confisca è prevista come obbligatoria (Sez. 3, n. 29428 del 08/05/2019, con riguardo alla confisca, diretta o per equivalente, prevista dall’art. 12-bis d.lgs. 10 marzo 2000, n. 74, per il reato di omesso versamento di IVA), ovvero in quanto «l’omissione di qualsiasi statuizione sul punto integra un’ipotesi di illegalità della pena e della misura di sicurezza» (Sez. 5, n. 19735 del 11/01/2019, con riguardo alla confisca prevista dall’art. 11 legge 16 marzo 2006, n. 146).

Poste tali considerazioni, ad avviso delle Sezioni Unite, la soluzione della questione devoluta – che, in coerente rapporto con il thema decidendum, presuppone che, con la sentenza di “patteggiamento”, sia stata applicata una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, obbligatoria o facoltativa, concordata o meno tra le parti – deve procedere apprezzando la portata dell’art. 448-bis cod. proc. pen. nel delineato contesto normativo e interpretativo e in rapporto all’istituto del “patteggiamento” e al tema più generale, sotteso alla stessa prospettata questione, dell’attuale vigenza di un regime di impugnazione unitario della sentenza di applicazione di pena concordata, come delineato dall’art. 448-bis cod. proc. pen., ovvero della coesistenza con tale regime di quello “ordinario” di cui all’art. 606 cod. proc. pen., azionabile dalle parti per le statuizioni estranee al loro accordo.

Ciò posto, si notava a tal proposito come le Sezioni Unite, che sotto diversi aspetti si erano occupate della sentenza di “patteggiamento” ponendo la sua motivazione e la sua impugnazione in correlazione con l’accordo delle parti sulla pena del quale la stessa rappresenta l’epilogo decisorio e che ne giustifica le sue peculiari caratteristiche, abbiano da tempo messo in rilievo il rapporto tra il profilo di negozialità di detto accordo e il profilo dei poteri del giudice sulla sua verifica.

L’equilibrio di tale rapporto ovvero il bilanciamento del controllo giurisdizionale e dell’assetto predisposto dalle parti, coinvolgenti anche il tema della natura della sentenza di “patteggiamento“, per gli Ermellini, non richiedevano approfondimenti in sede di legittimità ordinaria essendo a loro avviso sufficiente rilevare che, pur a fronte degli interventi normativi che avevano modificato nel tempo l’istituto in esame, erano rimasti immutati, oltre alle modalità dell’accordo sulla pena previsto dall’art. 444 cod. proc. pen. (formato dalla richiesta di applicazione di pena, indicata al primo comma, e dal consenso, indicato al secondo comma, della «parte che non ha formulato la richiesta»), i parametri del controllo giudiziario da compiersi sull’intero progetto di decisione che, se era limitato a un accertamento negativo circa la possibilità di pronunciare sentenza di proscioglimento per una delle cause di non punibilità indicate dall’art. 129 cod. proc. pen., era positivo, e bilancia il profilo dispositivo dell’accordo, quanto alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, all’applicazione e alla comparazione delle circostanze prospettate dalle parti e alla congruità della pena nonché quanto alla sussistenza delle condizioni che giustificano la concessione della sospensione condizionale, alla quale la richiesta sia stata subordinata.

Del resto, si notava come anche la Corte costituzionale, investita di questioni di legittimità costituzionale in tema di applicazione della pena su richiesta delle parti, avesse affermato che il potere dispositivo delle parti, «concepito in funzione di collaborazione ad una rapida affermazione della giustizia con una effettiva ed immediata applicazione della pena», si inserisce in un contesto edittale predeterminato dal legislatore in cui il giudice, senza rivestire un ruolo di carattere meramente “notarile“, esercita una funzione giurisdizionale determinante allorché procede al controllo sull’accordo raggiunto tra le parti e alle ulteriori valutazioni di merito (Corte cost., sent. n. 313 del 1990) fermo restando il fondamento primario dell’istituto nell’accordo tra pubblico ministero e imputato sul merito dell’imputazione, responsabilità dell’imputato e pena conseguente (sent. n. 66 del 1990) che condiziona, circoscrive e indirizza il compito del giudice (sent. n. 155 del 1996) e la cui componente negoziale è resa evidente anche dalla facoltà concessa al giudice di verificare la volontarietà della richiesta o del consenso (articolo 446, comma 5, cod. proc. pen.) in un «sistema costruito in modo che l’imputato possa determinarsi alla sua scelta con piena consapevolezza delle conseguenze giuridiche derivanti dall’applicazione della pena su richiesta, così da poterne adeguatamente ponderare i benefici e gli svantaggi» (sent. n. 394 del 2002).

Chiarito ciò, i giudici di piazza Cavour evidenziavano, a questo punto della disamina, come il tema del contenuto dell’accordo sulla pena e dei limiti del controllo giurisdizionale e con esso delle censure proponibili con il ricorso per cassazione, inoltre, sia anche alla base del contrasto, denunciato in termini potenziali e come tale devoluto, seguito alla entrata in vigore della indicata legge alla luce della previsione del richiamato art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. posto che detta norma è stimata introduttiva, in relazione a dati testuali e sistematici, di un regime di impugnazione specifico per la sentenza di applicazione di pena, giustificato «dall’origine concordata del provvedimento impugnato (e dalla conseguente preclusione della possibilità di contestare i termini fattuali dell’imputazione e la valutazione di merito sulle prove)».

Orbene, tale regime, riferito a punti della decisione certamente estranei all’accordo delle parti, come quello relativo all’applicazione di misure di sicurezza (espressamente ricorribile solo in caso di illegalità della disposta misura), è ritenuto proprio a tutte le statuizioni, espresse e contenute in sentenza, che «rientrino o meno nel perimetro dell’accordo sulla pena» con estraneità al sindacato di legittimità della diversa fattispecie della misura di sicurezza la cui applicazione sia denunciata per vizio di motivazione (Sez. 6, n. 3819 del 19/12/2018).

Al contrario, valorizzandosi la unicità del regime di impugnazione previsto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. per le statuizioni recettive dell’accordo e per quelle estranee allo stesso, la nozione di illegalità della misura di sicurezza è ritenuta comprensiva di tutti i casi in cui la misura sia disposta in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge per la sua applicazione e anche senza motivazione o con motivazione apparente (Sez. 3, n. 4252 del 15/01/2019) ovvero, rimarcandosi la «estraneità strutturale della misura di sicurezza al concordato sanzionatorio» il cui oggetto è tipizzato dall’art. 444 cod. proc. pen., l’aspetto estraneo all’accordo è ritenuto ricorribile secondo le regole generali (Sez. 3, n. 30064 del 23/05/2018; conforme, Sez. 4, n. 22824 del 17/04/2018).

Detto questo, si notava come la lettura alternativa proposta dalla Sezione Sesta muovesse, a sua volta, anche dall’esame dell’accordo sotteso alla sentenza di applicazione di pena e delle sue caratteristiche strutturali, che lo rendono vincolato sul piano contenutistico a quanto stabilito dall’art. 444 cod. proc. pen., e valorizza, in rapporto ai limiti della sua controllabilità, la possibilità che profili pertinenti a elementi che non hanno una base concordata siano oggetto di statuizione giudiziale ovvero che il patto abbia un oggetto più ampio e riguardi elementi accessori e comunque ulteriori rispetto al nucleo tipico ed essenziale dell’accordo sulla pena.

La prima possibilità è correlata all’applicabilità, con la sentenza, unitamente alla pena delle misure di sicurezza patrimoniali o personali, di carattere obbligatorio o facoltativo, di diversa natura e fondamento, implicanti, per l’imputato, anche la probabile irreversibile disposizione di diritti fondamentali, senza alcuna rinuncia da parte sua ai diritti e alle garanzie che caratterizza, invece, la scelta di accedere al rito del “patteggiamento” e soggette, per il giudice, all’onere di motivare e fornire una giustificazione esterna e razionale della decisione.

Le argomentazioni svolte al riguardo sono tese a dimostrare, da un lato, la sussistenza di questioni, non risolte, indotte dalla soluzione interpretativa, che, facendo riferimento all’integrale contenuto della sentenza di origine concordata, individua nel regime impugnatorio specifico, introdotto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., i casi di impugnazione e i punti impugnabili, con esclusione di ogni diversa censura che non sia, quanto alle misure di sicurezza, la loro illegalità, intesa come radicale estraneità a sistema per mancanza di elementi di struttura, e, dall’altro lato, la sussistenza di ragioni inducenti a diverso esito impugnatorio in relazione: alla natura negoziale del rito che dà via a un accordo sulla pena, senza possibilità di recesso; alla estraneità a tale logica di statuizioni, implicanti l’accertamento dei presupposti giustificativi del loro oggetto, e non attività meramente ricognitiva, e alla esigenza della controllabilità di tali statuizioni.

La seconda possibilità è, invece, correlata alla «compartecipazione» delle parti e del giudice nella «determinazione dalla sentenza», che si trae dalla impostazione che si configura sulla base della interpretazione prescelta dalla Corte costituzionale (sent. n. 313 del 1990) alla cui stregua, in tema di applicazione concordata di pena, si individua nel giudice «l’organo del controllo di legalità che sovrintende all’accordo delle parti» e al consolidato principio, affermato prima della riforma, della inseribilità nell’accordo sul trattamento sanzionatorio di pattuizione attinente alle misure di sicurezza, non vincolante per il giudice, tenuto a motivare le ragioni della sua diversa decisione.

Registrato detto principio, si osserva che il modello di compartecipazione delle parti e del giudice, legittimo con riferimento al tema principale della responsabilità e della sanzione, costituenti presupposti dell’accordo, può essere estensibile anche alla parte relativa all’applicazione delle misure di sicurezza, in assenza di ostacoli a una estensione della logica negoziale ad altri punti della

decisione e in presenza del previsto vaglio del giudice sulle prospettazioni delle parti, funzionale al rispetto dei canoni costituzionali di legalità e giurisdizionalità.

La prima e la seconda possibilità fondano l’opzione interpretativa secondo cui, nella riaffermata centralità dell’accordo sulla pena, il riferimento contenuto nell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. alla misura di sicurezza illegale è interpretabile come riferentesi alla ricorribilità della sentenza di “patteggiamento“, che recepisca un accordo relativo anche alla misura di sicurezza, solo se questa sia illegale mentre, nell’ipotesi in cui tale accordo non sia recepito nella parte accessoria dal giudice, che non vi è obbligato, e nell’ipotesi in cui il giudice disponga una misura di sicurezza, patrimoniale e personale, su cui non è intervenuto alcun accordo tra le parti, il potere di impugnazione non potrebbe non ricomprendere anche il sindacato sulla motivazione del provvedimento, che deve pertanto essere specificamente svolta, e troverebbe il suo fondamento giustificativo nella norma generale di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen..

Orbene, a fronte di quanto sin qui esposto, le diverse interpretazioni proposte in ordine alla ricorribilità o no per cassazione per vizio di motivazione della sentenza di “patteggiamento” in ordine all’applicazione di misure di sicurezza, che delimita il tema devoluto in questione, si espongono, secondo la Suprema Corte, a taluni rilievi critici.

Si evidenziava a tal riguardo che l’interpretazione, che valorizza il testo dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., e congiunte ragioni di natura sistematica e logica e di coerenza con i parametri costituzionali e convenzionali, non considera che il riferimento alla illegalità della misura di sicurezza come motivo di ricorso per cassazione, ove inteso come limitativo della possibilità di dolersi della statuizione a essa relativa, compresa o meno nell’accordo tra le parti, solo se la misura sia radicalmente estranea a sistema, prescinde da ogni riferimento coerente alla pur richiamata origine concordata del provvedimento, da un lato, e alla poliforme natura giuridica, ai presupposti applicativi, alle finalità delle misure di sicurezza, dall’altro lato, oltre che alle consolidate regulae iuris quanto alla motivazione, e per l’effetto alla impugnabilità dei suoi vizi, in punto di applicazione delle stesse misure.

In tale prospettiva, secondo il Supremo Consesso, la disciplina impugnatoria, se applicata come dedotto, più che essere, come assunto, compatibile con i parametri costituzionali e convenzionali, si pone in contrasto, nel non consentire la ricorribilità delle statuizioni relative alle misure di sicurezza per vizio di motivazione, con esigenze di tutela dei diritti e, come ricordato nell’ordinanza rimettente, con il principio di proporzionaltà, che, affermato anche a livello sovranazionale dalle fonti dell’Unione (par. 3 e 4 dell’art. 5 TUE, art. 49 par. 3 a art. 52 par. 1 della Carta dei diritti fondamentali) e dal sistema della CEDU, assolve «ad una funzione strumentale per un’adeguata tutela dei diritti individuali in ambito processuale penale, e ad una funzione finalistica, come parametro per verificare la giustizia della soluzione presa nel caso concreto», né aggiungono ragioni di concretezza alla indicata interpretazione la sua evocata favorevole rispondenza nella ratio dell’intervento riformatore, espressa nella Relazione governativa di accompagnamento dell’originario disegno di legge (A.C. 2798 – XVII Legislatura), relativo alla predetta norma posto, peraltro, l’espresso riferimento operato al «modulo consensuale di definizione del processo, proprio del cosiddetto patteggiamento» e al profilo transattivo, le cui condizioni sono stabilite negli artt. 444 e segg. cod. proc. pen., né, ancora, il richiamo alla categoria, di incerto contenuto e di non agevole controllabilità, della ragionevole prevedibilità del limitato regime impugnatorio delle misure di sicurezza all’atto della scelta del rito alternativo comunque riferibile all’oggetto dell’accordo.

Anche l’opzione interpretativa, che riconduce alla nozione di misura di sicurezza illegale la misura applicata senza motivazione o con motivazione apparente (cui è anche estesa la sua omessa applicazione) rilevante come «violazione di legge» ai sensi dell’art. 111, comma 7, Cost., non può per la Corte di legittimità essere favorevolmente apprezzata.

Tale interpretazione, invero, se risponde all’avvertita esigenza di cercare una soluzione ragionevole, scardina il chiaro riferimento della illegalità, da parte della giurisprudenza di legittimità e delle stesse Sezioni Unite, alla pena irrogata non prevista dall’ordinamento giuridico per il caso concreto oggetto di giudizio, così collocandosi al di fuori del sistema sanzionatorio delineato dal codice penale, ovvero quella eccedente, per specie e quantità, i relativi limiti legali, e in tali termini riferita alla misura di sicurezza

La riconduzione della illegalità, a tutti i casi in cui le misure siano disposte (ovvero non disposte) in violazione dei presupposti e dei limiti stabiliti dalla legge, richiamando le valutazioni sottese alla loro applicazione, è anche in evidente contrasto con il testo normativo che utilizza il richiamo alla illegalità sia per la pena sia per le misure di sicurezza, salvo in ipotesi estendere anche alla pena la sindacabilità della violazione di legge derivante da vizio di motivazione, nella sua forma più radicale di omessa o apparente motivazione, con le relative conseguenze anche in rapporto alla sindacabilità della pena concordata, costituente l’oggetto essenziale dell’accordo delle parti, in contrasto con la qui riaffermata distinzione delle categorie della illegittimità e della illegalità della pena e con la stessa modifica normativa dell’art. 448 cod. proc. pen..

Non può invece per il Supremo Consesso ritenersi esaustiva l’impostazione ermeneutica che è favorevole alla deducibilità in cassazione del vizio di motivazione secondo le regole generali con riguardo al punto relativo all’applicazione delle misure di sicurezza sostenendo la tesi del regime di impugnazione differenziato sulla base della estraneità delle misure di sicurezza al concordato sulla pena e della conformazione dell’onere di motivazione gravante sul giudice e del potere di impugnazione della parte al tipo di statuizione e al rapporto tra la stessa e il contenuto del patto.

L’apertura sul regime differenziato, invero, si arresta al rilievo della estraneità strutturale delle misure di sicurezza all’accordo che, ex art. 444 cod. proc. pen., può riguardare solo la sanzione sostitutiva, la pena pecuniaria e la pena detentiva, sì da indicarsi come imposta al giudice, anche in presenza di un accordo delle parti sull’applicazione della misura di sicurezza, la verifica in concreto della sussistenza dei relativi parametri applicativi, omettendosi ogni riferimento alla previsione dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. né appare completa l’ultima opzione che, posta la fattibilità di un accordo a contenuto complesso in cui le parti abbiano concordato anche l’applicazione di misure di sicurezza, ipotizza che – mentre l’accoglimento dell’accordo nella sua interezza esonera il giudice dal motivare specificamente sul punto relativo all’applicazione della misura di sicurezza concordata tra le parti, e la sentenza sarebbe impugnabile entro i limiti previsti dall’art. 448, comma 2-bis cod. proc. pen. – il mancato accoglimento dell’accordo nella parte accessoria imporrebbe una motivazione specifica, e una tale motivazione sarebbe richiesta anche se fosse applicata una misura di sicurezza non concordata, con deducibilità del relativo vizio di motivazione secondo la norma generale di cui all’art. 606, comma 1, cod. proc. pen.

Tale soluzione, che consente nel coerente sviluppo dato al già affermato regime differenziato il controllo del vizio di motivazione delle statuizioni su punti estranei all’accordo, recuperando, riguardo alle stesse, il controllo di legalità, e che permette una logica lettura del riferimento, nell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., alla illegalità della misura di sicurezza, non spiega, invero, per i giudici di piazza Cavour, la ragione per cui l’inserimento nell’accordo di «eventuali, possibili, profili ulteriori (misura di sicurezza) […] accidentalia negotii» indicato come produttivo dell’esito decisionale di cui al secondo comma dell’art. 444 cod. proc. pen. se l’accordo è recepito nella sua interezza, con le pure indicate conseguenze quanto alla ricorribilità della sentenza, non determini l’effetto negativo, supposto dalla medesima norma, ove l’accordo sulla misura di sicurezza non sia accolto, piuttosto che il ricorso ex art. 606 cod. proc. pen. per vizio della motivazione mancante, contraddittoria o manifestamente illogica.

Ebbene, a questo punto della disamina, veniva stimato utile per la Suprema Corte procedere da un più ampio confronto con il significato e la incidenza dell’intervento normativo, rappresentato dal nuovo comma 2-bis dell’art. 448 cod. proc. pen., limitato nella forma al controllo della sentenza di “patteggiamento” in sede di legittimità.

Chiarito ciò, si osservava come l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. come più volte rappresentato, avesse introdotto per la prima volta un regime di impugnazione specifico per la sentenza resa ex art. 444 cod. proc. pen. disponendo, ferme restando le ulteriori disposizioni contenute nel titolo II del libro VI del codice di procedura penale, che il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro detta sentenza «solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza».

Il riferimento specifico tra i casi di ricorso alla illegalità della misura di sicurezza, affiancata alla illegalità della pena, a sua volta, non è solo riducibile alla indicazione tassativa di un punto impugnabile, di non univoco ovvero limitato contenuto, e riconducibile a esigenze deflattive e per l’effetto limitative della ricorribilità per cassazione delle sentenze di applicazione della pena, avendo una valenza significante di più ampia portata posto che la norma si collega, completandolo, a un percorso di rimodellamento del procedimento, già in corso per pregressi interventi normativi con riguardo specifico, per quanto qui interessa, alla pena e alle misure di sicurezza.

Detto questo, veniva altresì osservato come una prima rilevante innovazione sia stata attuata, con la legge 16 dicembre 1999, n. 479, che ha introdotto, nell’innovato secondo comma dell’art. 444 cod. proc. pen., la espressa previsione del giudizio sulla “congruità della pena” «divenuto da criterio eccezionale operante solo in forza di un accertamento di responsabilità secondo lo schema delineato dall’art. 448 c.p.p. […] lo specimen, legislativamente predisposto, di ogni controllo del giudice, secondo uno schema costituzionalmente obbligato […] da statuizioni demolitorie ultranovennali della Corte costituzionale (più in particolare dalle sentenze 313 del 1990 e 443 del 1990)» (Sez. U, n. 17781 del 29/11/2005, omissis, cit.).

Un successivo intervento normativo, attuato con la legge 11 giugno 2003, n. 134, ha invece comportato che l’istituto dell’applicazione della pena su richiesta delle parti abbia «decisamente cambiato pelle» (Sez. U, omissis, cit.).

Con detta legge, ritenuta dalla Corte costituzionale (sent. n. 219 del 2004) non in contrasto con i richiamati principi costituzionali, si è, tra l’altro, elevato il tetto di pena detentiva, previsto dall’art. 444, comma 1, cod. proc. pen. per l’introduzione del rito, da due a cinque anni e sono state introdotte per il nuovo patteggiamento (c.d. editio maior) preclusioni oggettive e soggettive in relazione alla gravità dei reati e ai casi di pericolosità qualificata dell’imputato, oltre alla esclusione di alcuni effetti premiali, rimasti a connotare l’applicazione della pena inferiore a due anni (c.d. editio minor).

Quanto agli effetti premiali, in particolare, è stata prevista, nel nuovo art. 445, comma 1, cod. proc. pen., l’operatività della esenzione dal pagamento delle spese processuali, del divieto di applicare pene accessorie e misure di sicurezza (ad eccezione della confisca nei casi di cui all’art. 240 cod. pen., e non più solo nei casi di cui al suo secondo comma) e della estinzione del reato nei termini rispettivamente previsti per i delitti e per le contravvenzioni solo nei casi in cui la pena detentiva “irrogata” non superi i due anni, soli o congiunti a pena pecuniaria, a ciò conseguendo che, a contrario, l’editio maior comporta l’applicazione delle pene accessorie e delle misure di sicurezza, compresa la confisca nei casi previsti dall’art. 240 cod. pen.

Pertanto, nel delineato contesto normativo, il giudice «al verificarsi del presupposto per la confisca obbligatoria o di quella facoltativa […] è tenuto ad applicarla, a prescindere dall’intervenuto accordo delle parti sul punto» (Sez. U, omissis, cit.) con la pronuncia della sentenza di applicazione della pena concordata, equiparata a una pronuncia di condanna, salve diverse disposizioni di legge, secondo il precetto che, già contenuto nell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen., è stato trasferito dalla stessa legge nel successivo nuovo comma 1-bis.

A fronte di ciò, assume per le Sezioni Unite univoco rilievo dimostrativo della prosecuzione con la ridetta legge dell’intrapreso rimodellamento dell’assetto normativo riguardante il “patteggiamento” proprio il riferimento fatto dall’indicato art. 445, comma 1, cod. proc. pen., alla pena “irrogata” laddove si prevede che «la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, quando la pena irrogata non superi […,] non comporta […] l’applicazione di pene accessorie e di misure di sicurezza […]» affermandosi al riguardo «che mentre la pena “applicata” esprime il contrassegno della specialità del rito, la pena “irrogata” designa la risultante del principio di equiparazione reso palese – nell’ineludibile unitarietà dell’istituto – dall’applicazione, nelreditio maior, di un regime che non può che conseguire da una sentenza di condanna, e che si concentra nella condanna alle spese del procedimento e nell’applicazione delle misure di sicurezza» (Sez. U, omissis, cit.).

La positivizzazione del regime di impugnazione delle sentenze di applicazione della pena con l’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., da parte sua, ha all’evidenza tenuto conto dei ridetti approdi della giurisprudenza di legittimità nella cui sequenza è individuabile un oggettivo diritto vivente, e della pertinente normativa complementare già incisa dalle indicate interpolazioni prescrittive, intervenute in un ambito sistematico in cui – al di là delle linee interpretative volte a cogliere di volta in volta il mantenuto equilibrio, funzionale alla stessa legittimità dell’istituto, del controllo giurisdizionale e della regolamentazione pattizia – sono rimasti apparentemente immodificati nel loro nucleo essenziale la struttura e la funzione del “patteggiamento” posto che la certa interpolazione, con la legge n. 134 del 2003, dell’istituto del “patteggiamento” con la eliminazione di ogni limite all’applicazione della confisca, sussistente nel testo originario e riferito alla sole ipotesi di cui all’art. 240, secondo comma, cod. pen., e con l’applicazione, prevista a contrario, delle misure di sicurezza in genere quando «la pena irrogata […] superi i due anni […]» e posto l’approdo della giurisprudenza di legittimità, già registrato, con il quale si è riconosciuta la possibilità alle parti processuali di inserire nel perimetro negoziale pattuizioni, come quelle afferenti alle misure di sicurezza, non necessarie ai fini e per gli effetti di cui agli artt. 444 e segg. cod. proc. pen., per il Supremo Consesso, è desumibile dal testo normativo che la novella, andando anche oltre i contenuti riferiti dalle richiamate decisioni ai casi concreti e non univocamente rappresentati quanto agli effetti della inclusione della pattuizione relativa alle misure di sicurezza nell’accordo sulla pena, ha, a sua volta, interpolato l’art. 444 cod. proc. pen..

In particolare, detta interpolazione è stata operata introducendosi, con valenza precettiva, un contenuto innovativo nell’oggetto del “patteggiamento” che è stato ampliato con la possibilità che l’accordo riguardi anche le misure di sicurezza, previste espressamente come applicabili con la sentenza resa ex art. 444, comma 2, alla stregua del disposto dell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen., e già ritenute dalla giurisprudenza, antecedente alla novella, inseribili nel perimetro dell’accordo processuale.

Tale rimodellamento dell’art. 444 cod. proc. pen., per la Cassazione, comporta, poi, per coerenza interna del sistema, che, se le misure di sicurezza sono inserite nell’accordo, la relativa pattuizione è vincolante e non discutibile per le parti processuali, alla pari delle pattuizioni “necessarie” (sulla pena), ove ratificata dal giudice, salva la loro illegalità che – denunciabile in sede di legittimità ex art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen. – compromette, se denunciata e ritenuta, la permanente validità della base negoziale sulla quale è maturato l’accordo, viziando la sentenza che lo ha recepito mentre al fatto stesso della possibile inseribilità nell’accordo di “pattuizioni facoltative” (sulle misure di sicurezza), ulteriori rispetto al nucleo essenziale dell’accordo sulla pena, consegue che se, a seguito della richiesta di misura di sicurezza inserita nell’accordo sulla pena, non vi è il consenso dell’altra parte, non si forma l’accordo e non vi è spazio per la pronuncia della sentenza di patteggiamento “complessa“.

A sostegno di tale assunto, per le Sezioni Unite, militano rilievi di natura sistematica e logica.

Veniva a tal riguardo, innanzitutto, rilevato che il comma 2-bis dell’art. 448, rubricato «provvedimenti del giudice», segue il primo e il secondo comma, che attengono alla pronuncia della sentenza nella ricorrenza delle «condizioni per accogliere la richiesta prevista dall’art. 444, comma 1» e alla disciplina del dissenso del pubblico ministero rispetto alla stessa richiesta e ai suoi effetti, in contesto riferito alla pronuncia sul patto di cui all’art. 444 cod. proc. pen..

Orbene, per gli Ermellini, detta annotazione fonda anche un ulteriore rilievo, correlato alla rimodulata disciplina del primo comma dell’art. 448 cod. proc. pen., con legge n. 479 del 1999, e al trasferimento all’art. 444, comma 2, cod. proc. pen. del giudizio di congruità della misura della pena, assurto da parametro di valutazione di natura eccezionale per la pronuncia della sentenza «dopo la chiusura del dibattimento di primo grado o nel giudizio di impugnazione», unitamente al giudizio di ingiustificato dissenso del pubblico ministero, a oggetto necessario di ogni controllo del giudice, condizionante lo stesso accesso all’istituto del “patteggiamento”.

Conferma ulteriormente le già menzionate considerazioni, per la Corte di legittimità, la circostanza che l’indicato trasferimento del criterio di congruità della misura della pena, pur conseguito all’intervento della Corte costituzionale (sent. n. 313 del 1990), si pone in termini di univoca premessa sistematica rispetto alla previsione, quale motivo di ricorso, della illegalità della pena (già ritenuta congrua dal giudice che l’ha applicata), da ciò dovendo logicamente inferirsi che il richiamo normativo congiunto alla illegalità della pena e della misura di sicurezza – riaffermatone il comune riferimento alla stessa nozione – esprime la scelta del legislatore di porre anche la misura di sicurezza, ove inserita nell’accordo, come oggetto, tra gli altri, del controllo del giudice ai fini e per gli effetti di cui all’art. 444 cod. proc. pen., conformando il predisposto meccanismo di protezione alla nuova dimensione del patto processuale né può trascurarsi di rilevare che il possibile consentito ampliamento dell’accordo in dipendenza del suo contenuto innovativo, indotto dall’interferente sistema impugnatorio predisposto dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., e segnatamente dalla previsione del ricorso per cassazione per illegalità della misura di sicurezza, consente di ritenere, disvelando – attraverso la «mediazione accertativa della giurisprudenza» (così espressa da Sez. U civ., n. 15144 del 11/07/2011) – le dinamiche evolutive interne all’ordinamento che, in linea con la direzione in cui si sta sviluppando il processo penale nel quale si assiste alla espansione dei profili patrimoniali e preventivi, e con essi alla moltiplicazione soprattutto delle misure di sicurezza patrimoniali, anche l’istituto del “patteggiamento” si stia rinnovando, adeguandosi a tale tendenza, con il riconoscimento a ciascuna delle parti della facoltà di chiedere l’applicazione, o di dare il consenso all’applicazione, di misure di sicurezza, e quindi inserire nell’accordo anche la pattuizione alle stesse relativa, con accettazione delle conseguenze connesse e conseguenti alla pronuncia sull’intero accordo, ratificato dal giudice, della sentenza resa ex art. 444 cod. proc. pen. e tra queste quelle – correlate alle, già enunciate, caratteristiche formali, strutturali, genetiche e funzionali di detta sentenza – riguardanti la sua motivazione e la sua impugnazione.

Peraltro, nell’indicato segnato contesto relativo all’istituto del “patteggiamento“, permane un rapporto tra il patto e la giurisdizione non sbilanciato a favore della componente pattizia rivestendo essenziale rilievo anche il controllo che il giudice, secondo il modello codicistico congruente con il suo oggetto, compie sulle richieste e prospettazioni congiunte delle parti, e quindi sull’intero progetto di decisione a contenuto complesso, e che, in collegamento con il regolamentato sindacato di legittimità della decisione finale, se è un accertamento negativo in relazione alla responsabilità, è positivo quanto alla verifica – oltre che in ordine alla correttezza della qualificazione giuridica del fatto, all’applicazione e alla comparazione delle circostanze e alla congruità della pena – anche quanto al riscontro della legalità della pena e della misura di sicurezza, oggetto di accordo bilanciando il ridetto contenuto pattizio del rito.

Dall’esame delle «connotazioni testuali» dell’art. 448, comma 2-bis,cod. proc. pen. (Sez. U, n. 3464 del 30/11/2017), che rappresentano l’oggetto prioritario dell’attività interpretativa e segnano il limite “esterno” indicato, in ambito civile, come il limite di «tolleranza ed elasticità del significante testuale» (Sez. U civ., n. 15144 del 11/07/2011; Sez. U civ., n. 27341 del 23/12/2014) senza esonerare il giudice dalla ricerca dei possibili e coerenti significati autorizzati dal testo «anche alla luce del sistema normativo in cui [la norma] è inserita [… e] della disciplina legale dell’istituto di cui la norma è parte» (Sez. U, n. 40986 del 19/07/2018) si trae, pertanto, per il Supremo Consesso, un coerente significato del riferimento, nel testo, alla illegalità della misura di sicurezza.

Tale significato della norma, come individuato, e la sua incidenza rispetto all’istituto del “patteggiamento“, a sua volta, sempre le Sezioni Unite, confermano la logica coerenza del quadro normativo che – a fronte della riaffermata legittimità dello stesso istituto, del più volte ribadito giudizio della sua complessiva armonia costituzionale e della riconosciuta aderenza della sua applicazione ai principi CEDU – limita a ipotesi specifiche la ricorribilità della sentenza di applicazione della pena correlandole, sotto l’aspetto strutturale-sistematico, a profili particolari che hanno comunque riguardo all’aspetto negoziale del rito e anche a un oggetto, quale la misura di sicurezza, che, una volta ricompreso nell’accordo, non è “a peso intermedio” ma vincola il giudice a recepire l’intero accordo complesso ovvero a non pronunciare la sentenza di “patteggiamento” e prendere i consequenziali provvedimenti.

Da quanto sin qui esposto, si procedeva a ribadire tali argomentazioni, in forma sintetica, nel seguente modo: a) se la misura di sicurezza è parte dell’accordo tra le parti, il giudice, nel ratificare tale accordo complesso, potrà ricorrere a una motivazione sintetica, tipica del rito, e comunque la sentenza sarà ricorribile per cassazione nei limiti previsti dall’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen.;

  1. b) se, a seguito del ricorso per cassazione, l’applicazione concordata della misura di sicurezza dovesse risultare “illegale“, la conseguenza sarà l’annullamento senza rinvio della sentenza di “patteggiamento” dal momento che la rilevata illegalità rende invalido l’intero accordo.

Da quanto sin qui enunciato i giudici di piazza Cavour giungeva alla conclusione secondo la quale l’applicazione, obbligatoria o facoltativa, di una misura di sicurezza, personale o patrimoniale, non concordata fra le parti, può essere comunque disposta, ai sensi dell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen., con la sentenza prevista dall’art. 444, comma 2, in relazione al quantum della «pena irrogata» e, in tal caso, se la sentenza dispone una misura di sicurezza, sulla quale non è intervenuto accordo tra le parti, la statuizione relativa – che richiede accertamenti circa i previsti presupposti giustificativi e una pertinente motivazione che non ripete quella tipica della sentenza di “patteggiamento“, ed è inappellabile, alla luce del disposto del, tuttora vigente, art. 448, comma 2, cod. proc. pen. – è impugnabile, per coerenza dello sviluppo del ragionamento giuridico non disgiunto da esigenze di tenuta del sistema secondo postulati di unitarietà e completezza, con ricorso per cassazione anche per vizio della motivazione, ex art. 606, comma 1, cod. proc. pen..

Del resto, per il Supremo Consesso, militano in tal senso le stesse previsioni delle richiamate norme poiché non appare senza significato che la formula di cui al ridetto art. 444, comma 2, cod. proc. pen. (il giudice «dispone con sentenza l’applicazione [della pena] enunciando nel dispositivo che vi è stata la richiesta delle parti») rinvia alla specialità del rito, connotato, tra l’altro, da un regime di impugnazione limitato, quanto alle misure di sicurezza, alla loro illegalità; il riferimento alla pena irrogata nell’art. 445, comma 1, cod. proc. pen. rinvia più direttamente al principio di equiparazione della sentenza a una pronuncia di condanna, attestato dal regime applicabile (condanna alle spese del procedimento e applicazione delle misure di sicurezza) quando la pena supera i due anni; l’art. 448, comma 2, seconda parte, cod. proc. pen., prevede tuttora l’inappellabilità della sentenza «negli altri casi», diversi dalla ipotesi in cui è il pubblico ministero dissenziente legittimato all’appello, e quindi ammette il ricorso per cassazione ai sensi del vigente art. 568, comma 2, cod. proc. pen. nella vigenza del nuovo comma 2-bis dello stesso art. 448 cod. proc. pen..

Le ragioni esposte e le conclusioni cui si è pervenuti escludono quindi, per la Cassazione, che possa formare oggetto di ricorso per cassazione, a norma dell’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., la censura relativa alla omessa applicazione – con la sentenza di applicazione della pena concordata – di una misura di sicurezza, salvo, come è chiaro, che essa sia prevista per legge come obbligatoria in relazione al titolo di reato, oggetto di imputazione, soccorrendo in tal caso la disciplina generale di cui all’art. 606 cod. proc. pen., ovvero le possibili alternative tutele offerte dall’ordinamento, la cui natura e i cui limiti trovano la loro disciplina nelle pertinenti disposizioni che le prevedono.

Veniva, conseguentemente, enunciato, il seguente principio di diritto: «A seguito della introduzione della previsione di cui all’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell’accordo delle parti».

 

Conclusioni

 

La decisione in oggetto è assai interessante in quanto, componendosi un contrasto giurisprudenziale, le Sezioni Unite, come appena visto, affermano il principio di diritto secondo il quale, a seguito della introduzione della previsione di cui all’art. 448, comma 2-bis, cod. proc. pen., è ammissibile il ricorso per cassazione per vizio di motivazione contro la sentenza di applicazione di pena con riferimento alle misure di sicurezza, personali o patrimoniali, che non abbiano formato oggetto dell’accordo delle parti.

Tal che ne consegue che, in relazione a quanto disposto dall’art. 448, c. 2-bis, c.p.p. (“Il pubblico ministero e l’imputato possono proporre ricorso per cassazione contro la sentenza solo per motivi attinenti all’espressione della volontà dell’imputato, al difetto di correlazione tra la richiesta e la sentenza, all’erronea qualificazione giuridica del fatto e all’illegalità della pena o della misura di sicurezza”), in questa pronuncia, viene chiarita la portata applicativa di questa norma procedurale per l’appunto affermando che è consentito ricorrere per Cassazione per vizio motivazionale, e quindi per mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione secondo quanto previsto dall’art. 606, c. 1, lett. e), c.p.p., solo contro la sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti a proposito delle misure di sicurezza, personali o patrimoniali nella misura in cui però essere non siano state oggetto dell’accordo con cui le parti hanno “concordato” la pena.

Il giudizio in ordine a quanto statuito in siffatta sentenza, proprio perché fa chiarezza su tale tematica procedurale, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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