Pubblico impiego: nuove ipotesi di licenziamento disciplinare e tutela reale per i licenziamenti illegittimi

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La riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche

Ad oltre 15 anni dall’emanazione del D.Lgs 165/2001 (T.U. Pubblico Impiego), che reca le norme fondamentali in materia di lavoro nelle pubbliche amministrazioni, può finalmente dirsi concluso il lungo iter che – nell’ambito della più ampia delega al Governo in materia di riorganizzazione delle amministrazioni pubbliche contenuta agli artt. 16 e  17, comma 1, della Legge n. 124/2015 (c.d. Legge Madia) – ha portato alla riforma della disciplina relativa al lavoro nelle PP.AA. e, per quanto qui interessa, alla modifica delle disposizioni in materia di licenziamento disciplinare. [1]

Difatti, sebbene il sistema disciplinare nel pubblico impiego sia già stato in precedenza oggetto di un’ampia riforma nel 2009 ad opera del D.lgs n. 150 (c.d. Riforma Brunetta), ad oggi, con l’entrata in vigore del D.Lgs n. 75 del 25 maggio 2017 e, in seguito, con la recente approvazione del D.lgs n. 118 del 5 agosto 2017 che prevede disposizioni integrative e correttive al precedente D.lgs n. 116/2016[2] – recante modifiche all’art. 55-quater del Decreto legislativo 165 del 2001, ai sensi dell’art. 17, comma 1, lett. s) della Legge n. 124/2015, in materia di licenziamento disciplinare – numerose sono le novità che hanno investito la materia della responsabilità disciplinare nel pubblico impiego.[3]

Tra tutte, quelle che in questa sede si intendono approfondire riguardano, dapprima, le modifiche apportate all’art. 55-quater del T.U.P.I. (DLgs 165/2001) in materia di licenziamento disciplinare dei dipendenti pubblici. Una norma, questa, introdotta dal D.lgs 150/09, che si occupa di tipizzare alcune fattispecie legali di recesso per giusta causa e giustificato motivo soggettivo per le quali, secondo il legislatore, “si applica comunque la sanzione disciplinare del licenziamento”(art. 55-quater, comma 1): laddove il termine “comunque”, deve intendersi riferito alla necessità di irrogare il licenziamento disciplinare per le ipotesi ivi indicate, indipendentemente dalla presenza o meno di simili fattispecie di infrazione nella contrattazione collettiva di comparto, il cui ruolo è stato così ridimensionato.[4]

Certamente, le fattispecie contemplate dalla norma in esame non esauriscono le ipotesi di licenziamento disciplinare come, del resto, si evince dalla clausola di salvaguardia contenuta nel primo comma della norma e che fa salve le eventuali “ulteriori ipotesi previste dal contratto”. Ciò nondimeno, deve considerarsi che le disposizioni de quibus sono inderogabili da parte della contrattazione collettiva, atteso che, a mente dell’art. 55, comma 1, le disposizioni di cui all’art. 55 e ss. “costituiscono norme imperative, ai sensi e per gli effetti degli articoli 1339 e 1419, comma 2, codice civile”. Ne consegue, in estrema sintesi, che, se per un verso, la contrattazione collettiva può prevedere infrazioni ulteriori rispetto a quelle tipizzate; per altro verso, è fatto assoluto divieto di derogare alle suddette prescrizioni normative.

Ora, non è senz’altro questa la sede per soffermarsi sugli aspetti maggiormente controversi e dibattuti che hanno fatto seguito all’entrata in vigore dell’art. 55-quater D.Lgs 165/2001. Basti qui ricordare che la norma in questione, ancor prima dei D.Lgs n. 75 e n. 118 del 2017, era già stata modificata in senso fortemente sanzionatorio dal D.Lgs n. 116 del 2016 cui si deve l’introduzione di ben cinque ulteriori commi (commi 1-bis, 3-bis, 3-ter, 3-quater e 3-quinquies), volti a contrastare il fenomeno delle false attestazioni in servizio di cui si dirà in seguito.

Le novità della riforma del 2017

Tanto premesso, e così passando alla più stringente analisi delle novità disposte dalla Riforma del 2017 – in particolare dall’art. 15 del D.Lgs 75/2017 – ciò che emerge è l’estensione del novero delle ipotesi che legittimano l’irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare, che da sei passano a dieci. Così, oltre alle già esistenti ipotesi di:

  1. falsa attestazione della presenza in servizio ovvero giustificazione dell’assenza dal servizio mediante una certificazione medica falsa o che attesta falsamente uno stato di malattia; [5]
  2. assenze ingiustificate per più di tre giorni in un biennio o più di sette giorni in dieci anni;
  3. ingiustificato rifiuto del trasferimento disposto dall’amministrazione per motivate esigenze di servizio;
  4. falsità documentali o dichiarative commesse ai fini o in occasione dell’instaurazione del rapporto di lavoro ovvero di progressioni di carriera;
  5. reiterazione nell’ambiente di lavoro di gravi condotte aggressive o moleste o minacciose o ingiuriose o comunque lesive dell’onore e della dignità personale altrui;
  6. condanna penale definitiva, con interdizione perpetua dai pubblici uffici ovvero l’estinzione del rapporto di lavoro;

Sono state incluse le seguenti “nuove” fattispecie inerenti:

  • le gravi o reiterate violazioni dei codici di comportamento (art. 55-quater, comma 1, lett. f-bis);
  • la commissione dolosa o gravemente colposa dell’infrazione di cui all’articolo 55-sexies, comma 3, che si verifica nei confronti del responsabile nei casi di mancato esercizio o di decadenza dell’azione disciplinare dovuta all’omissione o al ritardo ingiustificato degli atti del procedimento disciplinare ovvero a valutazioni manifestamente irragionevoli della insussistenza dell’illecito a fronte di condotte aventi oggettiva e palese rilevanza disciplinare (art. 55-quater, comma 1, lett. f-ter);
  • lo scarso rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa che abbia determinato l’irrogazione della sospensione dal servizio per un periodo superiore a un anno nell’arco del biennio (art. 55-quater, comma 1, lett. f-quater);
  • l’insufficiente rendimento dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione lavorativa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza, e rilevato dalla costante valutazione negativa della performance del dipendente per ciascun anno dell’ultimo triennio (art. 55-quater, comma 1, lett. f-quinquies).

Fatta questa doverosa elencazione, occorre notare come le nuove fattispecie tipizzate dal legislatore con il D.Lgs 75 del 2017, e confluite nell’art. 55-quater del T.U. D.L.gs 165/2001, non costituiscano un’assoluta novità in quanto le medesime condotte erano, in realtà, sanzionabili anche in precedenza.

Difatti, se per un verso la condotta sanzionata alla lett. f-bis era già richiamata – evidentemente per finalità di coordinamento interno – dall’art. 54 comma 3, del D.Lgs n. 165/2001; dall’altro lato, l’ipotesi tipizzata alla successiva lett. f-ter, non rappresenta altro che una “maggiore sanzione” prevista per il caso in cui l’infrazione, già descritta all’art. 55-sexies, comma 3, sia stata commessa con dolo o colpa grave.

Lo stesso è a dirsi, infine, anche con riferimento alle condotte di scarso e insufficiente rendimento dei dipendenti pubblici tipizzate alla nuova lett- f- quater e quinquies, la cui previsione legislativa non giunge affatto nuova, rispondendo, semmai, ad un’esigenza di sistematizzazione delle ipotesi già in precedenza contemplate tanto dal legislatore, allo stesso art. 55-quater, comma 2, di cui appunto è stata prevista l’abrogazione,[6] quanto dalla contrattazione collettiva al CCNL Ministeri del 13 giugno 2003.[7]

Ebbene tali ultime due ipotesi, per quanto non inedite, rappresentano, senz’altro, le fattispecie più problematiche sulla cui applicazione ed interpretazione è destinata a concentrarsi l’attenzione degli operatori del diritto.

Nelle ipotesi di licenziamento per scarso e/o insufficiente rendimento, infatti, l’ambito discrezionale dell’amministrazione, e quello, susseguente, del giudice del lavoro, è senz’altro più ampio rispetto alle altre fattispecie, come, ad esempio, quelle dell’assenza ingiustificata o del rifiuto del trasferimento. Ed invero, mentre queste ultime contengono, comunque, un aspetto “oggettivo” ovvero presuppongono un sostrato documentale; diversamente è a dirsi per le ipotesi di cui alla lett. f quater e quinquies, ove l’inadempimento degli obblighi contrattuali da parte del lavoratore, per rilevare, deve essere ricollegato ad una sua “mancanza”, nel senso che lo scarso e/o insufficiente rendimento devono essere imputabili alla negligente condotta del lavoratore, la cui prova è a carico del datore di lavoro.

Ciò significa, dunque, che ai fini disciplinari il rendimento scarso o insufficiente non può essere automaticamente ricavato dall’applicazione delle regole in tema di valutazione, dovendo questo espressamente dipendere dal comportamento negligente del lavoratore, quindi, da una sua colpa.

Così stando le cose, allora, per la configurabilità dell’infrazione non basta il giudizio dell’amministrazione che formula una valutazione di scarso o insufficiente rendimento, in rapporto ad un periodo di tempo, rispettivamente, di due (lett. f-quater) o tre anni (lett.f-quinquies); essendo altresì necessario che lo scarso o insufficiente rendimento sia dovuto alla reiterata violazione degli obblighi lavorativi, accompagnata, nel caso di cui alla lett.f-quater, dall’irrogazione della sospensione del servizio, ovvero, nell’ipotesi successivamente prevista alla lett.f-quinquies, dalla valutazione negativa costantemente resa per tutti e tre gli anni ai sensi dell’art. 3, comma 5-bis del D.Lgs 150/09.

In questi casi, dunque, benchè il licenziamento sia una soluzione imposta dalla legge, esso presuppone sempre, alla base una valutazione discrezionale dell’amministrazione, nonché l’espletamento del procedimento disciplinare, ivi compresa, se costitutiva dell’addebito, la specifica contestazione della recidiva.

Ad ogni buon conto, è bene ricordare – come di recente affermato dalla Corte di Cassazione – che la tipizzazione legale della sanzione espulsiva, operata dall’art 55-quater, D.lgs n. 165/2001, non configura alcun automatismo nell’irrogazione del licenziamento, essendo comunque necessario che il giudice verifichi la legittimità del provvedimento espulsivo procedendo a un giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto all’infrazione (Cass. n. 24574 e n. 24570 del 2016).

È stato, infatti, più volte rimarcato dalla Suprema Corte che “In tema di licenziamento per giusta causa, anche in materia di pubblico impiego contrattualizzato è da escludere qualunque sorta di automatismo a seguito dell’accertamento dell’illecito disciplinare, sussistendo l’obbligo per il giudice di valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, e, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta” (Cass. n. 18858/2016).

Posto, invero, che il criterio di proporzionalità tra sanzione e infrazione, di cui all’art. 2106 cod. civ. è “una regola valida per tutto il diritto punitivo”, la Corte ha ritenuto che “se è pur vero che nel caso in esame la massima sanzione è tipizzata dalla legge (art. 55-quater) … ciò nondimeno anche tale previsione è sindacabile alla luce del principio di civiltà giuridica del canone di proporzionalità della sanzione”; pertanto “anche in tal caso, l’accertamento in concreto della giustificatezza del licenziamento costituisce apprezzamento di fatto, riservato al giudice del merito ed incensurabile in sede di legittimità se sorretta da motivazione congrua e immune da vizi” (Cfr. Cass. n. 1351/2016 e n. 12806/2014)

Un orientamento, questo, che offre una lettura costituzionalmente orientata della norma in esame e che, a ben vedere, può senz’altro ritenersi valido anche a fronte delle recenti modifiche legislative.

Modifiche legislative, quelle da ultimo apportate con il D.lgs 75/2017 alla norma in commento, che non si sono tuttavia limitate ad ampliare l’elenco delle fattispecie legittimanti l’irrogazione della sanzione del licenziamento disciplinare.

Particolarmente rilevante, invero, è la modifica apportata al comma 3 che ha esteso le previsioni dei commi da 3-bis a 3-quinquies – relative alla sospensione cautelare e senza stipendio, al procedimento disciplinare accelerato, all’azione di responsabilità per danni di immagine della P.A e alla responsabilità dirigenziale – in precedenza riferiti ai soli casi di “falsa attestazione”, a tutte le condotte punibili con il solo licenziamento nei casi in cui sia accertate in flagranza.

Ne consegue – alla luce dei nuovi commi inseriti 3-bis e 3-ter –  che allorquando il dipendente pubblico venga scoperto scatta l’obbligo della sospensione dal servizio entro le 48 ore successive. Al riguardo, il legislatore ha individuato anche il soggetto responsabile dell’avvio del procedimento nella persona del dirigente responsabile della struttura di appartenenza del dipendente, il quale deve disporre, con provvedimento motivato, la sospensione cautelare del dipendente dalla quale discende anche la sospensione dalla retribuzione, senza che scatti l’obbligo di sentire, in via preventiva, il lavoratore circa la contestazione dell’addebito.

La disposizione, peraltro, precisa che il mancato rispetto del predetto termine delle quarantotto ore, non determina la decadenza dall’azione disciplinare né l’inefficacia della sospensione cautelare, fatta salva l’eventuale responsabilità del dipendente cui essa sia imputabile.

Con il medesimo provvedimento di sospensione cautelare si procede anche alla contestuale contestazione per iscritto dell’addebito ed alla convocazione del dipendente, dinanzi all’Ufficio competente, con un preavviso di almeno quindici giorni per essere sentito a difesa: egli, così, può produrre una memoria scritta fino al giorno fissato per l’audizione e farsi assistere da un procuratore o da un rappresentante sindacale dell’associazione alla quale è iscritto ovvero abbia conferito mandato. In caso di grave, oggettivo ed assoluto impedimento, il dipendente può chiedere un rinvio che, se accordato, non può superare cinque giorni e che, in ogni caso, può essere disposto solo una volta nel corso del procedimento.

L’iter procedimentale

La disposizione di cui al comma 3-ter, prosegue poi precisando che l’Ufficio per i procedimenti disciplinari deve concludere l’iter entro trenta giorni che, per espressa previsione, decorrono dalla contestazione dell’addebito (dunque dalla ricezione della documentazione ovvero da quello di conoscenza del fatto, se antecedente). La violazione di tale termine, fatta salva la responsabilità del dipendente a cui la stessa possa essere imputata, non determina la decadenza dell’azione disciplinare, né l’invalidità della sanzione irrogata, purché non risulti irrimediabilmente compromesso il diritto di difesa del dipendente e non sia superato il termine per la conclusione del procedimento che  l’art. 55-bis, comma 4 fissa in 120 giorni, dalla contestazione dell’addebito.[8]

Di rilievo, in quanto ulteriormente modificata dal successivo D.Lgs n. 118/2017, è poi la disposizione seguente di cui al comma 3-quater dell’art. 55-quater in commento, la quale si occupa di questioni a latere del provvedimento, prevedendo che:

  • la denuncia al Pubblico Ministero e la segnalazione alla Procura competente per territorio ed alla Procura regionale della Corte dei Conti, avvenga entro 20 giorni (in precedenza 15 gg) dall’avvio del procedimento disciplinare;
  • la Procura della Corte dei Conti, ricorrendo i presupposti del danno all’immagine, emetta invito a dedurre entro i tre mesi successivi alla conclusione della procedura di licenziamento;
  • l’azione di responsabilità debba essere esercitata entro 150 giorni (e non più 120 gg come in precedenza) successivi alla denuncia, senza alcuna possibilità di proroga: il tutto nel rispetto dei termini e delle modalità previste dall’art. 5, Legge n. 19/1994, di conv. con modificazioni del D.L. n. 453/1993;
  • l’ammontare del risarcimento del danno venga rimesso alla valutazione equitativa del giudice il quale deve tenere conto, sia della rilevanza del fatto che dell’impatto dello stesso sui mezzi di informazione. In ogni caso, è previsto che l’eventuale condanna non può essere inferiore a sei mensilità calcolate sull’ultimo stipendio, oltre agli interessi ed alle spese legali.

Inoltre, vale la pena evidenziare come all’esito della Riforma, il comma 3-quinquies estenda la responsabilità disciplinare, per il caso di uffici privi di dirigenti, anche ai responsabili di servizio competenti che, senza giustificato motivo, pur avendo avuto conoscenza del fatto abbiano omesso di attivare il procedimento disciplinare e non abbiano adotto il provvedimento di sospensione cautelare. Una simile condotta, dunque, costituisce illecito disciplinare punibile con il licenziamento e l’Ufficio per i provvedimenti disciplinari è obbligato a darne, immediatamente, notizia alla Procura della Repubblica competente per territorio ai fini dell’accertamento della sussistenza di eventuali reati.

Da ultimo, occorre poi evidenziare come il D.Lgs n. 118/2017 abbia aggiunto all’art. 55-quater in commento, il successivo comma 3-sexies, il quale impone che sia il provvedimento di sospensione cautelare che quello di apertura del contraddittorio che, infine, quelli finali siano inviati all’Ispettorato per la funzione pubblica, secondo la previsione contenuta nell’art. 55-bis, comma 4, che fissa tale onere da adempiere entro i venti giorni dalla loro adozione.

Fino quanto qui osservato, deve poi necessariamente essere coordinato con le novità introdotte sempre dal D.Lgs 75/2017, all’art. 63 del T.U.P.I., che, come è noto, fissa le regole fondamentali in materia di licenziamento illegittimo dei dipendenti pubblici.

Al riguardo, come osservato dalla Relazione Illustrativa al D.Lgs 75/2017, il legislatore è intervenuto sul comma 2, dell’art. 63 del T.U. 165/2001, cristallizzando un principio di tutela “reale” nei confronti del dipendente pubblico, già peraltro oggetto di vivace dibattito e approdo giurisprudenziale a seguito del sovrapporsi di diverse previsioni normative nel tempo.[9]

In particolare, il nuovo comma 2,  ora prevede che il giudice, con la sentenza con la quale annulli o dichiari nullo il licenziamento, condanna l’amministrazione alla reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione di riferimento per il calcolo del TFR corrispondente al periodo dal giorno del licenziamento fino a quello dell’effettiva reintegrazione, e comunque in misura non superiore a 24 mensilità. Da tale importo va dedotto quanto il lavoratore abbia percepito per lo svolgimento di altre attività lavorative c.d. “aliunde perceptum”.

La disposizione in commento precisa, poi, che alla condanna segue, per il datore di lavoro pubblico, anche l’obbligo di versare i contributi previdenziali e assistenziali per l’intero periodo. Il legislatore, dunque, non parla di maggiorazione degli interessi legali senza sanzioni, come invece succede per i privati con l’applicazione dell’art. 18 dello Statuto del Lavoratori (Legge n. 300/1970); e, a differenza che nel settore privato, neppure è previsto il c.d. “opting out”, ossia la possibilità per il dipendente di rinunciare al posto di lavoro, previo pagamento di 15 mensilità.

Inoltre, è stato aggiunto il successivo comma 2-bis il quale afferma che nel caso in cui una sanzione disciplinare, e quindi anche il licenziamento disciplinare, venga annullato per difetto di proporzionalità, il giudice può rideterminare la sanzione, in applicazione delle disposizioni legali e contrattuali vigenti, tenendo conto della gravità del comportamento e dello specifico interesse pubblico violato.

Una normativa, quella appena indicata, che appare del tutto diversa sia da quella prevista dal D.Lgs 23/2015 (c.d. Job Act, meglio noto come Decreto sulle Tutele Crescenti) che da quella di cui all’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori (Legge n. 300/1970) che, in seguito alla riforma operata dalla Legge n. 92/2012 (c.d. Legge Fornero), ha fortemente ristretto l’area della c.d. tutela reale, ossia la reintegrazione nel posto di lavoro nel caso di licenziamenti dichiarati illegittimi dal giudice.[10]

D’altronde, come sopra accennato, le difficoltà interpretative insorte circa l’applicabilità ai dipendenti pubblici dell’art. 18 St. Lav., nonchè del Dlgs 23/2015  (c.d. Jobs Act) per gli assunti dopo il 7 marzo 2015, avevano portato ad un empasse che, sebbene la giurisprudenza della Corte di Cassazione aveva cercato di superare, non poteva che essere risolta dal Legislatore.[11]

E, al riguardo, nella nuova versione dell’art. 63 del T.U.P.I. non può che rinvenirsi una tutela speciale, elaborata ad hoc per i dipendenti pubblici nel caso del licenziamento illegittimo, ma che, tuttavia, non introduce alcuna espressa deroga alle disposizioni contenute nelle leggi riguardanti la disciplina del lavoro privato, destinate, ai sensi del rinvio operato dall’art. 51, comma 2, del D.Lgs n. 165/2001, ad estendersi automaticamente al lavoro pubblico.[12]

La mancata abolizione della richiamata norma, infatti, presta il fianco all’insorgere di ulteriori incertezze interpretative sul punto, senza contare, inoltre, che la scelta operata dal legislatore di apprestare ai lavoratori pubblici la tutela della reintegrazione – a fronte, invece, di una disciplina del lavoro privato completamente diversa – rischia di esporre la norma in questione a possibili rilievi di illegittimità costituzionale per manifesta disparità di trattamento nella tutela di un bene primario come quello del lavoro.

Una differenza, questa, che tuttavia la giurisprudenza di legittimità – da ultimo resa sull’argomento con la nota sentenza n. 11868 del 9 giugno 2016 – ha ritenuto invece del tutto giustificata sulla scorta del rilievo per cui nel settore pubblico i limiti al potere di licenziare sono posti «non solo e non tanto nell’interesse del soggetto da rimuovere, ma anche e soprattutto a protezione di più generali interessi collettivi», venendo così in rilievo non già la tutela della libertà di impresa (art. 41 Cost.), ma quella disposizione della Costituzione che impone al legislatore di preoccuparsi del «buon andamento» e dell’imparzialità della pubblica amministrazione» (art. 97).[13]

[1] Vale la pena ricordare come la responsabilità disciplinare che interessa in questa sede – e che si accompagna agli altri tre tipi di responsabilità penale, erariale e civile, cui è sottoposto  lavoratore dipendente da una pubblica amministrazione –  sia una responsabilità molto particolare che si configura allorquando il funzionario pubblico commetta specifiche infrazioni agli obblighi previsti dal rapporto di lavoro, e che si caratterizza per il fatto che le sanzioni vengono applicate, non già da una pubblica autorità in senso lato, bensì nell’ambito di un rapporto di tipo negoziale tra soggetti privati. D’altronde, è in tal modo che deve considerarsi anche la P.A. allorchè si ponga, come avviene nel lavoro pubblico “privatizzato”, quale parte contrattuale-datore di lavoro (art. 5, TUPI).

[2] Al riguardo, si rammenta che l’intervento correttivo dato dal D.Lgs n. 116 del 2016  faceva seguito alla sentenza n. 251 del 2016, con cui la Corte costituzionale aveva dichiarato l’illegittimità costituzionale di alcune disposizioni di delega al Governo contenute nella L. n. 124/2015, tra le quali figurava la disposizione di cui all’art. 17, co. 1, lett. s), nella parte in cui, pur incidendo su materie di competenza sia statale sia regionale, prevedono che i decreti attuativi siano adottati sulla base di una forma di raccordo con le Regioni, che non è quella dell’intesa, bensì quella del semplice parere. In particolare, per l’adozione delle norme attuative della delega in tema di riordino della disciplina del lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni, la Corte aveva precisato che la previa intesa doveva essere raggiunta in sede di Conferenza Stato-Regioni. Sicché, le disposizioni impugnate erano state colpite dalla declaratoria di incostituzionalità solo nella parte in cui prevedevano che i decreti legislativi fossero adottati previo parere e non previa intesa.

[3] Una materia, questa, notoriamente disciplinata dagli artt. 55 e ss del D.Lgs n. 165/2001 (T.U. Pubblico Impiego) – ossia da quel complesso normativo diretto a regolare il potere disciplinare della pubblica amministrazione nei confronti del proprio personale dipendente –  e che, negli ultimi anni, complice il diffuso sentimento di sdegno sociale per alcuni episodi di assenteismo, è stata oggetto di particolare interesse da parte del legislatore mediante l’introduzione di quel “principio di obbligatorietà dell’azione disciplinare” che, di fatto, ha determinato il passaggio della sanzione del licenziamento nel pubblico impiego, da semplice facoltà datoriale, a vero e proprio obbligo legislativamente previsto e sanzionato – previo vaglio di proporzionalità – a beneficio dell’interesse al buon andamento e all’efficienza della P.A.

[4] Ed invero, il D.Lgs n. 150/09 ha manifestato una palese sfiducia nei confronti della fonte negoziale, peraltro ribadita dall’art. 2, co. 2, TUPI, proprio tipizzando alcune infrazioni che finiscono per occupare spazi in precedenza riservati alla contrattazione collettiva.

[5] Trattasi, come è noto, della fattispecie disciplinare introdotta dal cennato D.Lgs n. 116 del 2016, la cui portata è poi ampliata e specificata dal successivo comma 1-bis al fine di far valere anche la responsabilità di coloro che abbiano agevolato, con la propria condotta attiva o omissiva, la condotta fraudolenta.

 

[6] L’abrogato comma 2, art. 55-quater, invero prevedeva che “Il licenziamento in sede disciplinare è disposto, altresì, nel caso di prestazione lavorativa, riferibile ad un arco temporale non inferiore al biennio, per la quale l’amministrazione di appartenenza formula, ai sensi delle disposizioni legislative e contrattuali concernenti la valutazione del personale delle amministrazioni pubbliche, una valutazione di insufficiente rendimento e questo è dovuto alla reiterata violazione degli obblighi concernenti la prestazione stessa, stabiliti da norme legislative o regolamentari, dal contratto collettivo o individuale, da atti e provvedimenti dell’amministrazione di appartenenza o dai codici di comportamento di cui all’articolo 54

[7] In particolare, si ricorda che l’art. 13, comma 2, lett.f, CCNL Ministeri del 13 giugno 2003 puniva con la sanzione del rimprovero verbale o scritto o con la multa fino a 4 ore di retribuzione l’”insufficiente rendimento”; il successivo comma 4, lett. d), della medesima disposizione contrattuale puniva con la sospensione dal servizio e dalla retribuzione da 11 giorni fino a sei mesi l’«insufficiente persistente scarso rendimento dovuto a comportamento negligente»; infine, il comma 5, lett. e) sanzionava con il licenziamento con preavviso la «continuità, nel biennio, dei comportamenti attestanti il perdurare di una situazione di insufficiente scarso rendimento dovuta a comportamento negligente ovvero per qualsiasi fatto grave che dimostri la piena incapacità ad adempiere adeguatamente agli obblighi di servizio»

[8] Si badi, peraltro, che nel corso dell’istruttoria, l’Ufficio per i procedimenti disciplinari può acquisire da altre amministrazioni pubbliche informazioni o documenti rilevanti per la definizione del procedimento, senza che ciò, tuttavia, determini il differimento dei termini o la sospensione del procedimento (art. 55-bis, comma 6).

 

[9] Occorre ricordare, infatti, che dopo l’entrata in vigore della L. n.92/12 (c.d. Legge Fornero), dottrina e giurisprudenza di merito si sono aspramente fronteggiate sul delicato tema del possibile ambito applicativo della stessa al rapporto di lavoro privatizzato delle Pubbliche Amministrazioni. Il punto più acceso del dibattito si è focalizzato in particolare sull’applicabilità o meno del nuovo art.18 St. Lav. ai dipendenti pubblici, per cui sono emerse ambiguità e incertezze che ne hanno fatto oggetto di critiche severe. Sull’argomento, le posizioni assunte dalla giurisprudenza non sono sempre state univoche. Secondo un primo orientamento espresso dalle stesse Sezioni Lavoro della Cassazione (sentenza n. 24157 del 26 novembre 2015), ai licenziamenti statali doveva ritenersi applicabile  l’art. 18 nella versione aggiornata dalla “Riforma c.d. Fornero”, in ragione del complesso apparato normativo che regola il settore, ed in particolare in ragione del disposto dell’art. 2, co. 2, del d.lgs. n. 165/2001 (Testo Unico sul pubblico impiego), il quale rende applicabile ai pubblici dipendenti le principali norme dettate per il lavoro privato nell’impresa, incluse eventuali novelle legislative. Ad un diverso approdo ermeneutico è successivamente giunta la stessa Corte di legittimità che, con la nota sentenza 9 giugno 2016, n. 11868 ha, invece, sostenuto l’esistenza di un “doppio binario” nel sistema normativo dei licenziamenti: da una parte, i lavoratori del settore privato, cui si applica, a seconda del momento dell’assunzione, l’art. 18 riformato dalla “Legge Fornero” o il recente “Jobs Act” (d.lgs. n. 23/2015); dall’altra, i dipendenti pubblici, cui, secondo la sentenza in commento, si applica il dettato originario dell’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori. Una pronuncia, questa, che sull’argomento concludeva comunque auspicando iniziative normative dirette ad armonizzare la disciplina relativa ai dipendenti delle amministrazioni pubbliche.

[10] Si ricorda, infatti, che secondo il dettato del “vecchio” art. 18, quando il giudice dichiarava inefficace o nullo il licenziamento, oppure lo annullava per assenza di giusta causa o giustificato motivo, era tenuto ad ordinare al datore di lavoro, nelle imprese con più di 15 dipendenti, di reintegrare il lavoratore illegittimamente licenziato nel posto di lavoro (secondo il modello della c.d. “tutela reale”). Diversamente, a seguito della novella del 2012 è stato introdotto un sistema differenziale di pro­­­­tezione, con la tutela reale (limitata ad ipotesi specifiche di licenziamento) affiancata ad una tutela di natura indennitaria, cioè sprovvista dell’obbligo di reintegrazione e fondata sul solo obbligo del pagamento di una somma di danaro.

[11] Tanto è vero che ’articolo 16, comma 1, della legge-delega n.124 del 2015 prevede che nell’esercizio della delega il Governo si attenga ai seguenti principi e criteri direttivi generali: b) coordinamento formale e sostanziale del testo delle disposizioni legislative vigenti, apportando le modifiche strettamente necessarie per garantire la coerenza giuridica, logica e sistematica della normativa e per adeguare, aggiornare e semplificare il linguaggio normativo; c) risoluzione delle antinomie in base ai princìpi dell’ordinamento e alle discipline generali regolatrici della materia.

[12] Ed invero, attraverso un indiscutibile rinvio dinamico, la richiamata previsione dispone che: “La legge 20 maggio 1970, n.300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.

[13] Trattasi, a ben vedere, di una soluzione del tutto in linea con la giurisprudenza tradizionale della Corte Costituzionale, che sempre aveva sottolineato il permanere di differenze fra i due settori.

Avv. Cusumano Celine

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