Principio di non respingimento e stato di necessità dei naufraghi

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   Maurizio Cardanobile e Paola DE SANTIS

    Indice

  1. Il principio del non refoulement, le fonti normative
  2. Il caso
  3. Conclusioni

1. Il principio del non refoulement, le fonti normative

Il principio del non refoulement, tradotto letteralmente, di non respingimento, rappresenta un principio cardine del diritto d’asilo e del diritto internazionale dei rifugiati.

Detto principio, si sostanzia nel diritto, riconosciuto allo status di profugo, a non essere condotto nei territori laddove la sua incolumità individuale e le sue libertà fondamentali potrebbero essere esposti a serio pericolo.

Il principio del non respingimento trova ufficialmente riconoscimento nel 1951 con la Convenzione delle Nazioni Unite relativa allo Status dei rifugiati[1].

Tale Convenzione, ha avuto il pregio di aver definito, o meglio, tentato di addivenire ad una nozione di rifugiato onnicomprensiva, sancendone, inoltre, i relativi diritti nonché gli obblighi gravanti sugli Stati nazionali.

Dunque, secondo l’art. 1 della Convenzione in commento, rifugiato <<è colui che si trova fuori dal proprio Stato di appartenenza ed ha fondato timore, nel caso vi facesse ritorno, di essere perseguitato per ragioni di razza, religione, nazionalità o appartenenza ad un determinato gruppo sociale o politico>>.

Invece, il principio oggetto di trattazione, dal mero punto di vista sistematico, viene espressamente sancito dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra del 1951, nonché, previsto in maniera indiretta dalla Convenzione Europea dei Diritti dell’uomo[2].

Come pocanzi indicato, il principio di non refoulement è contemplato, in maniera diretta, dalla Convenzione di Ginevra e precisamente all’art. 33, rubricato, “Divieto d’espulsione e di rinvio al confine”, il quale, dispone che: <<Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche. La presente disposizione non può tuttavia essere fatta valere da un rifugiato se non per motivi seri egli debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese>>.

Da quanto emerge da detto articolo, il principio di non refoulement si traduce nell’obbligo incombente sugli Stati, di non trasferire, in maniera diretta o indiretta, un rifugiato o un richiedente asilo in un luogo nel quale la sua vita o la sua libertà sarebbe posta in pericolo in relazione ai concetti di razza, religione o nazionalità od ancora alla sua appartenenza ad un determinato gruppo sociale o a causa delle sue opinioni politiche.

Dunque, il principio espresso opera nei confronti non solo di chi beneficia dello status di rifugiato, ma anche nei confronti di chi potrebbe acquisire tale status, offrendo, in tal guisa, una tutela anticipata.

A riprova di questo assunto, si prevede che gli Stati, prima di poter adottare qualsivoglia provvedimento concernente espulsione o respingimento, devono accertarsi che gli individui da espellere o respingere non corrano il rischio di subire trattamenti proibiti secondo quanto previsto dalle Convenzioni Internazionali.

Deve inoltre rammentarsi che, il divieto di non refoulement viene oggi considerato un principio di diritto internazionale consuetudinario.

Inoltre, in merito al riconoscimento del principio in considerazione si è espresso lo stesso Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati, sancendo che, detto principio, così come contenuto nell’art. 33 della Convenzione del 1951 si pone a completamento del quadro dei diritti umani, ed è idoneo a soddisfare i requisiti della pratica consuetudinaria.

A conclusione di queste considerazioni, si ritiene opportuno ribadire che la giurisprudenza internazionale ha annotato una voluminosa disamina in materia di criminalità migratoria[3] condizionata dall’emergenza in atto e dal complicato coordinamento tra le forze europee per la gestione dei relativi flussi, circostanza, quest’ultima, dettata dall’ assenza di una disciplina analitica, sul riparto delle competenze degli Stati membri in materia, appunto, di accoglienza dei migranti.

Ad integrazione dell’impianto di garanzie sin qui delineato, devono rammentarsi taluni provvedimenti di matrice comunitaria, alludendo alle direttive 2003/84/CE e 2005/85/CE, le quali, hanno fornito una nozione di status di rifugiato più ampia rispetto a quella contemplata dalla Convenzione di Ginevra del 1951.

Nonché, a ciò deve aggiungersi che, la Carta europea dei diritti fondamentali, ai sensi dell’art. 19 co. secondo, ha ridefinito, seppur in maniera poco incisiva la nozione di rifugiato, sulla scia di quanto previsto dalla Convenzione di Ginevra, sostituendo l’inciso, «rischio serio» con «fondato timore».

Da ultimo, deve segnalarsi che, lo statuto giuridico-individuale della condizione di rifugiato, si inviene nel testo costituzionale e precisamente dal combinato disposto degli artt. 10, 13 e 28 Cost.


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2. Il caso

Prima di affrontare la questione sottoposta al Supremo Consesso, si ritiene opportuno, ai fini di una migliore comprensione, premettere brevi cenni sulle norme convenzionali che regolano l’obbligo di soccorso in mare.

Anzitutto, deve rammentarsi che si tratta di un obbligo funzionale alla tutela di diritti fondamentali delle persone., dalla quale, emerge, in tutta evidenza, la portata onnicomprensiva della tutela ivi rappresentata.

In tale contesto, dunque, rileva: la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare (UNCLOS)[4], che, all’art. 98, comma 1, prevede che, il comandante della nave deve prestare soccorso <<a chiunque sia trovato in mare in pericolo di vita quanto più velocemente possibile>>, nei limiti della ragionevolezza dell’intervento; al comma secondo, invece, la disposizione de quo, stabilisce che ogni Stato costiero è tenuto a <<promuovere l’istituzione, l’attivazione e il mantenimento di un adeguato ed effettivo servizio di ricerca e soccorso relativo alla sicurezza in mare e, ove le circostanze lo  richiedano, di cooperare a questo scopo attraverso accordi regionali con gli Stati limitrofi>>.

Quanto enunciato dalla Convenzione UNCLOS costituisce un’esplicazione di due accordi internazionali, tutt’oggi in vigore, elaborati a suo tempo dalla IMO[5]; si fa riferimento, alla Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare[6] (SOLAS) e la Convenzione internazionale sulla ricerca e il salvataggio marittimo[7] (SAR).

Per quanto concerne la Convenzione SOLAS, al cap. V, Reg. 33, dell’Allegato, si dispone che, il comandante di una nave, il quale, abbia ricevuto comunicazioni sulla presenza di persone in una situazione di pericolo in mare e che, la sua nave si trovi in posizione idonea a prestare assistenza, è obbligato <<a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza>>.

Ed inoltre, in base al cap. V, Reg. 7, dell’Allegato, dispone che, gli Stati contraenti sono tenuti <<a garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste>>.

Dunque, l’attività di ricerca e soccorso vengono analiticamente disciplinati dalla Convenzione SAR, la quale, si fonda sul principio di cooperazione tra gli Stati e prevede una ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio d’intesa tra quest’ultimi, ed inoltre, sono tenuti ad approntare piani operativi che prevedano le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri all’uopo preposti.

Secondo quanto previsto dalla Convenzione suindicata, le autorità di uno Stato costiero, avente competenza sulla zona di intervento, le quali, abbiano avuto notizia, dall’autorità di un altro Stato, della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare SAR di propria competenza, devono intervenire immediatamente; difatti, ai sensi del Cap. II, par. 2.1.10, devono assicurare <<… che sia fornita assistenza a ogni persona in pericolo in mare… senza tener conto della nazionalità o dello status di tale persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata>>.

La Convenzione SAR, inoltre, offre una definizione di salvataggio, intesa come una <<operazione destinata a recuperare le persone in pericolo e a prodigare loro le prime cure mediche o altre di cui potrebbero aver bisogno e a trasportarle in un luogo sicuro>>.

Quindi, da quest’ultimo assunto, si può evincere che, l’operazione di salvataggio può dirsi terminata solo quando il naufrago abbia concluso la procedura di sbarco, la quale, deve avvenire il più presto possibile e, soprattutto, in un “luogo sicuro”.

Per quanto fin qui premesso, passiamo in rassegna il caso oggetto della presente trattazione.

La Corte di appello di Palermo, in riforma della sentenza emessa all’esito del giudizio di primo grado, condannava gli imputati per taluni reati previsti e puniti dagli artt. 336, 337 e 339 c.p., nonché dal D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, commi 2 e 3 bis.

In relazione a quanto è emerso nelle more del primo grado di giudizio, gli imputati, in concorso tra loro, avrebbero adoperato violenza e minaccia nei confronti dell’equipaggio e del comandante dell’’imbarcazione intervenuta nelle procedure di soccorso, battente bandiera italiana “Vos Thalassa”, al fine di costringere l’intera equipe al compimento di un atto contrario ai doveri d’ufficio.

Più nel dettaglio, dopo che si era provveduto al soccorso in area SAR, (zona Libica) di 67 migranti, interveniva, come da procedura, la comunicazione a Roma e questi, impartiva la direttiva di dirigersi verso le coste africane al fine di consentire il trasbordo dei migranti su una motovedetta libica e nell’apprendere ciò, gli imputati, contestualmente, accerchiavano e minacciavano di morte parte dell’equipaggio.

Tali condotte, con evidenti connotazioni e finalità costrittive, imponevano al comandante della nave soccorritrice di invertire la rotta verso il punto di primo soccorso, nonché, a richiedere l’intervento delle autorità italiane.

Quindi, costretti dalla situazione creatasi, l’imbarcazione si dirigeva verso le coste italiane, al fine di ricevere i soccorsi dalla nave della marina militare “Diciotti” (così al capo di imputazione A).

Con tali condotte, inoltre, gli imputati avrebbero compiuto atti diretti a procurare illegalmente l’ingresso nel territorio dello Stato di un numero non meglio definito, comunque superiore a cinque, di migranti clandestini provenienti da diverse nazioni, “trasbordati”, in dipendenza della condotta illecita descritta sulla nave militare “Diciotti”, che giungeva presso le coste (così al capo di imputazione B).

Per quanto, fin qui, rappresentato, il giudice di prime cure concludeva con l’assoluzione degli imputati ritenendo sussistente la scriminante della legittima difesa prevista dall’art. 52 c.p.; in quanto, i medesimi imputati, avrebbero reagito per non essere respinti in Libia, dove, con probabilità vicino la certezza, sarebbero stati esposti al pericolo di violenze e di trattamenti inumani e degradanti.

Avverso la decisione della Corte di appello, che, come già ribadito ne affermava la responsabilità penale in merito ai reati loro ascritti, gli imputati, individualmente, proponevano ricorso per Cassazione avverso la sentenza di condanna, articolando diversi motivi.

La suprema Corte riteneva entrambi i ricorsi fondati.

Secondo l’analisi della Corte di Cassazione, i motivi di ricorso, pongono <<molteplici questioni che attengono al diritto degli Stati di controllare i confini e garantire la sicurezza nell’esercizio della propria sovranità, all’obbligo di contrastare e punire il traffico illecito di migranti e la tratta di esseri umani, alle norme sui diritti umani che impongono di trarre in salvo coloro che rischiano la vita in mare – inclusi i migranti-, alla tutela dei diritti fondamentali di ogni persona, al principio di non respingimento[8]>>.

A parere della Cassazione, <<si tratta di questioni che richiedono una ricostruzione del quadro normativo nel cui ambito si collocano i fatti oggetto del processo, necessaria per verificare la “tenuta” della sentenza impugnata non solo in ordine alla verifica della rilevanza penale dei fatti contestati, ma anche, sotto il profilo più strettamente processuale, alla osservanza dell’obbligo di motivazione rafforzata cui la Corte di appello era vincolata al fine di riformare la sentenza pronunciata all’esito del giudizio di primo grado>>

Ai fini della decisione, la Corte ritiene necessario fare riferimento alla ricostruzione fattuale, compiuta dal Tribunale, che lo ha condotto all’assoluzione degli imputati.

Tralasciando l’analitica ricostruzione dei fatti posti a fondamento della sentenza di assoluzione, seguendo l’iter argomentativo del medesimo Tribunale, <<ai fini della valutazione dei fatti oggetto del processo, non assumerebbe decisivo rilievo nemmeno il memorandum d’intesa stipulato tra l’Italia e la Libia nel 2017 in quanto la Libia, al momento della commissione dei fatti, non poteva comunque considerarsi un luogo sicuro in cui condurre le persone; al momento in cui la condotta fu posta in essere, gli imputati “stavano vedendo violato il loro diritto ad essere condotti in un luogo sicuro in ragione di un ordine….contrario alla Convenzione di Amburgo”: esisteva una situazione di pericolo concreto ed attuale non volontariamente determinato che legittimò la reazione proporzionata degli imputati>> .

A ben vedere, inoltre, il giudice nomofilattico, in prima analisi, ritiene che la riforma della sentenza di assoluzione, operata dalla Corte di appello, imponesse a quest’ultima di adottare una motivazione rafforzata.

Difatti, a tal proposito, le Sezioni unite della Corte hanno evidenziato <<come l’obbligo della motivazione rinforzata si imponga per il giudice di appello tutte le volte in cui ritiene di ribaltare la decisione del giudice di primo grado, sia assolutoria, che di condanna. Tale principio è ormai consolidato ed è parte integrante dell’ordinamento giuridico vivente; tale obbligo non opera nel caso di conferma della sentenza di primo grado, perché, in questa ipotesi, la motivazione della decisione di appello si salda con quella precedente fino a formare, quasi sempre, un unico complesso argomentativo>>.

Sempre in riferimento alla tematica della motivazione rafforzata, a parere della Corte, <<l’obbligo di motivazione rafforzata assume un contenuto argomentativo diverso a seconda che il giudice di appello, in riforma della sentenza di primo grado, condanni o assolva. Il tema attiene al rapporto tra motivazione rafforzata e principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio. Mentre infatti per pronunciare nel giudizio di appello una sentenza di condanna a fronte di una pronuncia assolutoria in cui sia emerso un dubbio ragionevole, è necessario rimuovere il dubbio con un ragionamento che ne dimostri l’insussistenza, nel caso di assoluzione che riformi una precedente sentenza di condanna è invece sufficiente argomentare in positivo, nel senso che è necessario e sufficiente rappresentare l’esistenza del dubbio ragionevole. Si è notato come, mentre nel caso di riforma peggiorativa di una sentenza di assoluzione, il giudice di appello debba prima demolire il ragionamento probatorio culminato con la deliberazione del primo giudice e poi strutturare un proprio ragionamento che dimostri, al di là di ogni ragionevole dubbio, il fondamento della tesi opposta, in caso invece, di integrale riforma migliorativa di una sentenza di condanna il giudice di appello, seppur con una motivazione rafforzata nel senso indicato, deve solo destrutturare il ragionamento del primo giudice, nel senso di configurare l’esistenza di un ragionevole dubbio che di per sé è destinato a destituire di fondamento la prospettiva accusatoria recepita dal primo giudice[9]>>

Cosi concludendo, in relazione alla motivazione rafforzata, la Corte affronta, ulteriormente, la tematica delle norme convenzionali che disciplinano il caso in esame, ed infatti, <<la Convenzione SOLAS, ai sensi del cap. V, Reg. 33, dell’Allegato, il comandante di una nave in posizione idonea a prestare assistenza, che abbia ricevuto informazioni sulla presenza di persone in una situazione di pericolo in mare, è obbligato “a procedere con tutta rapidità alla loro assistenza”. Al contempo, in base al cap. V, Reg. 7, dell’Allegato, gli Stati parte sono tenuti “a garantire che vengano presi gli accordi necessari per le comunicazioni di pericolo e per il coordinamento nella propria area di responsabilità e per il soccorso di persone in pericolo in mare lungo le loro coste”. La ricerca e il soccorso sono disciplinati dalla Convenzione SAR che si fonda sul principio di cooperazione e che prevede una ripartizione delle zone di ricerca e salvataggio d’intesa tra gli Stati interessati, i quali sono tenuti ad approntare piani operativi che prevedano le varie tipologie d’emergenza e le competenze dei centri preposti. Ai sensi della Convenzione SAR, le autorità di uno Stato costiero competente sulla zona di intervento in base agli accordi stipulati, le quali abbiano avuto notizia, dall’autorità di un altro Stato, della presenza di persone in pericolo di vita nella zona di mare SAR di propria competenza, devono intervenire immediatamente; ai sensi del par. 2.1.10 dell’Annesso, devono assicurare “… che sia fornita assistenza a ogni persona in pericolo in mare… senza tener conto della nazionalità o dello status di tale persona, né delle circostanze nelle quali è stata trovata”. Ai sensi del par. 1.3.2 dell’Annesso della Convenzione SAR, per salvataggio si intende una “operazione destinata a recuperare le persone in pericolo e a prodigare loro le prime cure mediche o altre di cui potrebbero aver bisogno e a trasportarle in un luogo sicuro”. L’espressione “luogo sicuro” viene utilizzata anche nel par. 3.1.9 dell’Annesso, dove è previsto che la parte responsabile dell’area di ricerca e di salvataggio nella quale si procede “dovrà esercitare la primaria responsabilità per assicurare che siano svolti il coordinamento e la cooperazione, in modo che i superstiti assistiti siano sbarcati dalla nave che ha prestato assistenza e consegnati in un luogo sicuro” e che “lo sbarco sia effettuato al più presto, come ragionevolmente praticabile”>>.

Dunque, da quanto, pacificamente, si evince dal tenore letterale della Convenzione SAR, “l’operazione di salvataggio può dirsi conclusa solo quando il naufrago sia stato sbarcato, esito che deve avvenire il più presto possibile e in un “luogo sicuro”.

Purtroppo, quest’ultimo dato non è privo di lacune, difatti, entrambe le Convenzioni SOLAS e SAR, non forniscono una definizione di “luogo sicuro”.

A tal proposito, in argomentazione, la Corte indica che, <<Assumono, tuttavia, rilevante valenza il contenuto delle Linee guida dell’Organizzazione Internazionale Marittima- Comitato per la sicurezza marittima (IMO) sul trattamento delle persone soccorse in mare, benché esse non possano essere considerate come fonti del diritto internazionale ai sensi dell’art. 38 dello Statuto della Corte internazionale di giustizia e siano prive di efficacia vincolante. Per dette linee guida per “luogo sicuro” deve intendersi “una località dove le operazioni di soccorso si considerano concluse… dove la sicurezza dei sopravvissuti o la loro vita non siano più minacciate, dove le necessità umane primarie (come cibo, alloggio e cure mediche) possano essere soddisfatte. E, inoltre, un luogo dal quale possa essere organizzato il trasporto dei sopravvissuti nella destinazione vicina o finale”>>.

Tant’è che <<In via provvisoria, fintantoché i naufraghi non siano stati sbarcati, anche la nave che presta soccorso può essere considerata un luogo sicuro, come previsto nei parr. 6.13 e 6.14 delle Linee guida[10]>>.

Nel proseguo dell’argomentazione, la Cassazione, sulla base della ricostruzione fattuale compiuta e del quadro normativo indicato verifica se la Corte di appello abbia adempiuto l’obbligo di motivazione a lei imposto ed abbia fatto corretta applicazione della legge penale.

I punti della decisione devoluti alla cognizione della Corte di appello riguardavano: a) l’esistenza, affermata dal Tribunale, di un diritto fondamentale della persona al non respingimento in un luogo non sicuro; b) la definizione di “luogo sicuro”; c) la individuazione dell’Autorità che avrebbe dovuto coordinare le azioni di salvataggio; d) il tema dell’applicazione del Trattato di Amburgo e del memorandum sottoscritto tra Italia a Libia nel 2017; e) l’esistenza di un pericolo attuale della lesione di un diritto soggettivo “.

Alla prospettazione dei suindicati punti, segue un lungo excursus argomentativo a sostegno della tesi secondo la quale, dalla sentenza impugnata, emerge come la Corte di appello non abbia sostanzialmente affrontato e risolto nessuno dei temi e dei punti a lei devoluti, essendosi limitata a mostrare dubbi e perplessità, normativamente non supportati.

3. Conclusioni

La Corte di appello palermitana in riforma della sentenza del giudice di prime cure, condannando gli imputati per i delitti a loro ascritti, esclude l’operatività, nel caso di specie, della scriminante di cui all’art. 52 c.p. in quanto, i due imputati, si sarebbero posti volontariamente nella situazione di pericolo e, pertanto, non potevano invocare la causa di giustificazione in commento.

A Risultare evidente, non sono tanto gli errori in cui è incappato lo stesso giudice palermitano, ma soprattutto il fatto che, nell’ambito di una vasta mole di norme imperative, cause di giustificazione, doveri sanciti nella normativa comunitaria e internazionale, che nella pratica si intervallano, i reati commessi dai naufraghi per approdare al <<luogo sicuro>> ovvero, per evitare il rimpatrio, come nel caso in commento, vengono giustificati, eventualmente, dallo stato di necessità/adempimento del dovere di prestare soccorso ai naufraghi consentendo loro di sbarcare in un «luogo sicuro», e dalla legittima difesa contro colui che intendeva riportare i migranti in un luogo pericoloso per la loro incolumità individuale, nonché, a ciò devono aggiungersi le difficoltà di orientamento dell’interprete nella qualificazione normativa del fatto nella sua complessità.

Nonostante voglia riconoscersi lo sforzo interpretativo del giudice di appello, la Cassazione indica la sentenza impugnata, come viziata, non solo sul piano della motivazione e nell’applicazione della legge penale in ordine ad entrambe le imputazioni, ma anche in riferimento ai temi relativi fondanti la responsabilità penale in riferimento ai reati contestati.

Dunque, a conclusione dell’analisi, la Cassazione dispone che la sentenza deve essere annullata senza rinvio perché i fatti non sussistono.


Note

[1] La Convenzione di Ginevra del 1951, anche conosciuta, appunto, come Convenzione relativa allo status dei rifugiati, rappresenta, dal punto di vista giuridico, un trattato internazionale multilaterale delle Nazioni Unite approvato nella Conferenza di Ginevra del 28 luglio 1951.

[2] Protocollo n.4 della Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e della Libertà fondamentali, che riconosce ulteriori diritti e libertà fondamentali rispetto a quelli già previsti e garantiti dalla Convenzione medesima, nonché, dal primo Protocollo addizionale alla Convenzione, emendato dal protocollo n. 11. (Protocollo addizionale n.4) CEDU.

[3]  Affaire Drozd et Janousek c. France et Espagne, requête n. 12747/87, sent. del 26 giugno 1992; Affaire Loizidou c. Turquie, requête n. 15318/89, sent. del 23 marzo 1995; Hussun e altri c. Italia, ricorsi n. 10171/05, 10601/05, 11593/05 e 17165/05, sent. del 19 gennaio 2010.; Hirsi Jamaa et al. c. Italia, sent. 23.2.2012, par. 113; V. Chahal c. Regno Unito, sent. 15.11.1996; Soering c. Regno Unito, sent. del 7 luglio 1989; P. c. Belgio, 1963; Saadi c. Italia, sent. 28 febbraio 2008.

[4]La Convenzione UNCLOS (United Nations Convention on the law of the sea) venne aperta alla firma a Montego Bay il 10 dicembre 1982, entrata in vigore il 16 novembre 1994 e ratificata con L. 2 dicembre 1994, n. 689.

[5] IMO (International Maritime Organization), trattasi di un istituto specializzato delle Nazioni Unite, con competenze nello sviluppo di principi e tecniche della navigazione marittima.

[6] La Convenzione SOLAS, (Safety of Life at Sea), venne aperta alla firma a Londra il 1 novembre 1974, entrata in vigore il 25 maggio 1980, ratificata con L. 23 maggio 1980, n. 313

[7] La Convenzione SAR (Search and Rescue), aperta alla firma ad Amburgo il 27 aprile 1979, entrata in vigore il 22 giugno 1985, ratificata con L. 3 aprile 1989, n. 147.

[8] Cort. Cass. sez. VI del 26 aprile 2022 n. 15869.

[9] Cort. Cass. Sez. II del 20/06/2017, n. 41571, Marchetta.

[10] Cort. Cass. Sez. III del 16/01/2020, n. 6626, Rackete.

Sentenza collegata

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Maurizio Cardanobile

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