Primo commento all’art. 30 del ddl semplificazioni bis

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L’art. 30 (modifiche alla disciplina della conferenza dei servizi) del c.d. ddl semplificazioni bis sostituisce il contenuto dispositivo dell’art. 14-quater, comma 3 della l. 241/90, afferente alle modalità di risoluzione delle ipotesi di dissenso qualificato tra amministrazioni titolari di interessi pubblici antagonisti.

Passandone in rassegna il testo, si evince che il disegno di legge intende novellare l’art. 14-quater, comma 3, a) mutandone parte del dettato normativo, b) eliminando l’ultimo inciso del comma 3, c) inserendovi un procedimento trifasico per il raggiungimento dell’intesa ovvero per l’adozione della delibera del Consiglio dei Ministri.

In merito all’intervento di modifica di cui al punto a), il testo normativo che ne conseguirebbe suonerebbe in tal modo: «ove venga espresso motivato dissenso […], la questione […] è rimessa dall’amministrazione procedente alla deliberazione del Consiglio dei Ministri, previa intesa con la Regione o le Regioni e le Province autonome interessate, in caso di dissenso tra un’amministrazione statale e una regionale o tra più amministrazioni regionali».

Per vero, la modifica appare di incerta formulazione. Sembra, infatti, che, al fine di investire della “questione” il Consiglio dei Ministri, sia necessaria la previa intesa tra amministrazione procedente ed amministrazioni dissenzienti.

Tuttavia, nell’inciso successivo, si legge: «Ai fini del raggiungimento della predetta intesa, entro i primi 30 giorni dalla data di rimessione della questione alla delibera del Consiglio dei Ministri, viene indetta una riunione dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri». L’espressione riportata induce a ritenere, viceversa, che la “predetta intesa” costituisca l’esito al cui raggiungimento è preordinato il procedimento trifasico di nuovo conio e non l’incipit, come erroneamente indicato dalla sciatta formulazione lessicale che precede.

Come indicato nel punto b), si rileva la soppressione dell’ultimo inciso del comma 3, risultante dalla sostituzione della precedente formulazione del medesimo comma dell’art.14-quater della L. 241/90 ad opera dell’art. 49, cooma 3, lett. b) del D.L. 31 maggio 2010, n. 78, convertito, con modificazioni, nella legge. 30 luglio 2010, n. 122. L’inciso soppresso è il seguente: «Se il motivato dissenso è espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, il Consiglio dei Ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate».

Infine, punto c), si disciplina minuziosamente il procedimento, da seguirsi in caso di dissenso nell’ambito della conferenza dei servizi, innanzi al Consiglio dei Ministri. Tuttavia, non mutano le amministrazioni legittimate ad imporre la rimessione della decisione alla seconda istanza innanzi al Consiglio dei Ministri. Infatti la prima parte del comma 3 dell’art. 14-quater rimane invariata.

Diversamente dalla formulazione attuale, la modifica proposta dal ddl semplificazioni bis all’art. 14-quater, comma 3, si sofferma sulle modalità di svolgimento delle riunioni al Consiglio dei Ministri. L’amministrazione procedente e le amministrazioni titolari di interessi qualificati, che abbiano espresso il proprio dissenso in sede di conferenza dei servizi, devono formulare le proprie indicazioni per pervenire ad una soluzione condivisa. Nella prima riunione, da convocare entro i primi 30 giorni dalla rimessione, tali indicazioni sono da riferirsi a modifiche progettuali di carattere non sostanziale. Nel caso in cui la prima riunione abbia esito negativo, se ne convoca una seconda, entro ulteriori 30 giorni, nell’ambito della quale possono valutarsi soluzioni progettuali alternative. Nei successivi ultimi 30 giorni si valutano residui interventi tecnici. Trascorsi i complessivi 90 giorni dalla rimessione, senza che si sia raggiunta l’intesa, il Consiglio dei Ministri adotta comunque la propria deliberazione.

Per vero, la soppressione dell’ultimo inciso del comma 3 dell’art. 14-quater (introdotto dalla legge 122/2010) – punto b) –, in uno con l’elaborazione di un articolato procedimento per il conseguimento dell’intesa – punto c) –, devono essere valutati per il fuoco della recentissima sentenza della Corte costituzionale 11 luglio 2012, n. 179. L’art. 30 del ddl in esame, infatti non è null’altro che il tentativo del legislatore di conformare il testo dell’art. 14-quater, comma 3 alle indicazioni fornite dalla Corte costituzionale nella sentenza citata.

Prima di affrontare il punctum pruriens del disegno novellatore in esame, è d’uopo una sintetica ricostruzione della disciplina del superamento del dissenso quale appare nel testo ancora attuale dell’art. 14-quater, comma 3 della legge 241/90.

Il superamento del dissenso è regolato dal comma 6-bis dell’articolo 14-ter, che definisce la fase conclusiva della conferenza nell’ipotesi in cui non siano espressi dissensi qualificati, e dall’ articolo 14-quater, che contiene viceversa la disciplina per il superamento del dissenso qualificato.

Il dissenso, infatti, può essere ordinario o qualificato, a seconda che venga o meno espresso da una amministrazione preposta alla cura di interessi c.d. sensibili ovvero da un Regione o Provincia autonoma nelle materie di propria competenza. Il dissenso qualificato, conseguentemente, può distinguersi secondo due criteri: uno oggettivo, che ha riguardo al singolo interesse pubblico curato dall’amministrazione che lo manifesta, l’altro soggettivo, il quale, viceversa, tiene conto dell’ ente pubblico (Regione o Provincia autonoma) da cui promana, prescindendo dalla natura degli interessi tutelati e potendo riguardare qualsivoglia materia di competenza della Regione o Provincia autonoma.

La particolare posizione riconosciuta a Regioni e Province autonome dall’articolo 14-quater, è certamente conseguenza dell’ esigenza di tenere conto della nuova situazione conseguente alla modifica del titolo V della Costituzione e della compatibilità con i principi della superabilità del dissenso delle Regioni espresso nelle materie di propria competenza. Infatti, prima delle recenti modifiche, nel modello prodotto dalla legge 340/2000, le uniche amministrazioni titolari del potere di remissione della decisione alla seconda istanza erano quelle preposte alla cura di interessi c.d. sensibili.

Ricostruita nei termini esposti la disciplina di riferimento, deve segnalarsi che la Corte Costituzionale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’articolo 49, comma 3, lettera b), del decreto-legge 31 maggio 2010, n. 78 (Misure urgenti in materia di stabilizzazione finanziaria e di competitività economica), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 luglio 2010, n. 122, nella parte in cui, modificando l’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990, prevede che, se in sede di conferenza di servizi il motivato dissenso è espresso da una Regione o da una  Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, “il Consiglio dei Ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate”.

I giudici pervengono alla declaratoria di incostituzionalità osservando che la norma impugnata reca la «drastica previsione» della decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso, posto che il Consiglio dei ministri delibera unilateralmente in materie di competenza regionale, allorquando, a seguito del dissenso espresso in conferenza dall’amministrazione regionale competente, non si raggiunga l’intesa con la Regione interessata nel termine dei successivi trenta giorni.

La Corte sovrana obietta, infatti, non solo che il termine sia così esiguo da rendere oltremodo complesso e difficoltoso lo svolgimento di una qualsivoglia trattativa, ma come dal suo inutile decorso si faccia automaticamente discendere l’attribuzione al Governo del potere di deliberare, senza che siano previste le necessarie «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze» (come, peraltro, era invece previsto dall’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990, nel testo previgente, come risultante dalle modifiche introdotte dalla legge n. 15 del 2005)”.

In ossequio agli insegnamenti della giurisprudenza costituzionale, il legislatore ha, dunque, manifestato l’intento di porre nuovamente mano al comma 3 dell’art. 14-quater della legge 241/90, da un lato, eliminando il riferimento al dissenso (soggettivamente qualificato) espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza, dall’altro, elaborando un articolato procedimento suddiviso in fasi, ove tentare mediazioni di tipo tecnico progressivamente più incisive, fino al raggiungimento dell’intesa ovvero all’adozione della delibera del Consiglio dei Ministri, nell’ipotesi in cui siano infruttuosamente decorsi 90 giorni dalla rimessione.

In senso critico, per vero, deve rilevarsi che la soluzione elaborata nel ddl semplificazioni bis sembra non cogliere le doglianze della Corte costituzionale avverso il comma 3 dell’art. 14-quater della legge 241/90. Infatti, la vicenda sottoposta al giudizio costituzionale e la soluzione adottata dalla Corte, ripropongono all’attenzione un problema ben noto degli ordinamenti fondati sul pluralismo istituzionale. Per giustificare una deroga al riparto delle competenze legislative di cui all’art. 117 Cost., fondata sull’effetto di traino operato dalle attribuzioni amministrative (come situate in base al criterio di sussidiarietà), è necessario non solo che la valutazione dell’interesse pubblico sottostante all’assunzione di funzioni regionali da parte dello Stato sia proporzionata, non risultando affetta da irragionevolezza sulla base di uno scrutinio stretto di costituzionalità, ma è inoltre richiesto che tale vicenda complessa – nell’ambito della quale si deve appunto valutare e ponderare il carattere unitario di un complesso di interessi che, comunque, rimangono plurali – sia oggetto di un accordo stipulato con la Regione interessata. La descritta necessità conduce alla previsione della previa acquisizione, al termine del procedimento che dà forma alla funzione attratta in sussidiarietà, di intese in senso “forte” tra i diversi livelli di governo coinvolti dalla vicenda traslativa.

Le intese in senso “forte”, dunque, per definizione e per come espressamente concepite dallo stesso giudice costituzionale, impongono sempre e comunque la codecisione, ossia l’effettivo raggiungimento dell’accordo tra le parti come condizione necessaria per l’adozione o quantomeno per l’efficacia dell’atto. Ciò a garanzia della piena conformità della decisione alle rispettive posizioni costituzionali dei soggetti coinvolti.

È in questo quadro che la Corte costituzionale valuta la disciplina del superamento del dissenso (soggettivamente qualificato) espresso in sede di conferenza, così come introdotta dal comma 3, lettera b), dell’art. 49, in specie nella parte in cui, modificando l’art. 14-quater della legge n. 241 del 1990, stabilisce che, ove il motivato dissenso sia espresso da una Regione o da una Provincia autonoma in una delle materie di propria competenza e non sia raggiunta la prescritta intesa con la Regione o le Regioni e le Province autonome interessate entro trenta giorni, «il Consiglio dei ministri delibera in esercizio del proprio potere sostitutivo con la partecipazione dei Presidenti delle Regioni o delle Province autonome interessate».

La Corte sovrana, viceversa, non valuta affatto la legittimità costituzionale del procedimento per il raggiungimento di quella diversa intesa, cui si perviene a seguito d’un dissenso qualificato in ragione d’un singolo interesse c.d. sensibile. Tale intesa infatti, diversamente dall’intesa in senso “forte”, non realizza un codeterminazione del contenuto dell’atto conclusivo, ma compone unicamente un conflitto in atto tra due specifici interessi: quello perseguito dall’amministrazione procedente ed uno dei tanti interessi, c.d. sensibili, divisati dal legislatore.

La Corte costituzionale, con sentenza 179/2012, stigmatizza, conformemente alla richiamata giurisprudenza costituzionale, l’assenza di «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze», e la conseguente decisività della volontà di una sola parte, in caso di dissenso (soggettivamente qualificato), unicamente nella prospettiva dell’intesa in senso “forte”, quale precipitato applicativo del principio di leale collaborazione.

Il disegno novellatore appare, allora, del tutto inappropriato nella parte in cui intende introdurre un articolato procedimento di seconda istanza innanzi al Consiglio dei Ministri, al fine di raggiungere un intesa che è affatto differente da quell’intesa in senso “forte” divisata dalla richiamata giurisprudenza costituzionale, la quale sola impone un tavolo delle trattative per evitare un esproprio di competenze costituzionalmente riconosciute, quale contemperamento della sussidiarietà ascendente ed espressione del principio di leale collaborazione. Per suo tramite si realizza, dunque, un inutile appesantimento del procedimento amministrativo, in netto contrasto con l’intento semplificatorio che anima l’intero intervento riformatore.

La modifica in esame, inoltre, frustrerebbe ogni aspirazione di speditezza del procedimento amministrativo. Infatti, a fronte d’un dissenso oggettivamente qualificato, innanzi al Consiglio dei Ministri dovrebbe tentarsi di comporre il contrasto tra amministrazione procedente ed amministrazione titolare dell’interesse c.d. sensibile, assuntamene leso, anche attraverso modifiche sostanziali del progetto. Il chè, tuttavia, potrebbe significare la compromissione di interessi diversi, ma di pari grado, alla cui stregua un’ulteriore amministrazione potrebbe esprimere il proprio dissenso parimenti qualificato dall’interesse pubblico della cui cura sia titolare.

Per le esposte ragioni, sembra dunque più conforme alle indicazioni della Corte costituzionale una formulazione dell’art. 14-quater, comma 3 della legge 241/90 analoga a quella attualmente vigente, ferma la soppressione dell’ultimo inciso del comma 3 dell’art. 14-quater della legge 241/90, come introdotto dall’art. 49, comma 3, lettera b), del decreto-legge 78/2010, conv. in legge 122/2010; ovvero, conservata la vigenza dell’ultimo inciso del comma 3, includervi quel complesso procedimento innanzi al Consiglio dei Ministri descritto nella novella di riforma, ove ricorrano ipotesi di c.d. “chiamata in sussidiarietà”.

In disparte ogni valutazione sulle anelate modifiche del titolo V della Costituzione, anch’esse contenute nel ddl appena licenziato dal Consiglio dei Ministri, deve in ogni caso rilevarsi che il vero punctum pruriens della vicenda risiede nel fatto che l’intesa in senso “forte”, al fine dell’adozione del provvedimento conclusivo ovvero per la sua efficacia, attribuisce in favore delle Regioni o delle Province autonomie una sorta di veto a valle del procedimento, quando, cioè, si è ormai giunti ad una definizione del progetto definitivo. Viceversa, salvo ogni ulteriore approfondimento, appare più appropriato alle esigenze di speditezza dell’azione amministrativa che tale potere sia esercitato in una fase preliminare al procedimento, sulla falsa riga della disciplina sulle c.d. “Grandi Opere”, ovvero rendendo obbligatoria, per infrastrutture di interesse statale, la conferenza preliminare di cui all’art.14-bis, legge 241/90 al fine di anticipare, in una fase pre-procedimentale, le valutazioni regionali, con conseguente consunzione dei margini di discrezionalità ad essa riconosciuti una volta giunti a valle del procedimento.

Ogni valutazione a riguardo riveste carattere d’estrema attualità, anche in ragione del fatto che la sentenza della Corte sovrana in rassegna fa sorgere dubbi di rango costituzionale sull’art. 38 della legge 134/2012, che, modificando l’art. 52-quinquies, comma 6 del D.P.R. 327/2001, elimina quelle «idonee procedure per consentire reiterate trattative volte a superare le divergenze», già previste nella vecchia formulazione del comma 6, la cui mancanza è stata stigmatizzata dal Giudice delle leggi sul crinale della legittimità costituzionale.

Per vero, l’eventuale declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 38 della c.d. legge Cresci Italia creerebbe un vuoto normativo non colmabile con un mero rinvio alla disciplina generale di cui all’art. 14-quater, comma 3 della legge 241/90, nel testo risultante a seguito della modificata del ddl semplificazioni bis. Infatti, i procedimenti di autorizzazione di infrastrutture lineari energetiche afferiscono a quell’alveo normativo proprio dei procedimenti di localizzazione di opere di interesse statale, cui si riferisce la clausola di esclusione posta nell’incipit della norma di cui al comma 3 dell’art. 14-quater, legge 241/90.

Di tal chè, nell’ipotesi in cui l’art. 38 della legge Cresci Italia, già oggetto di impugnazione da parte di talune Regioni innanzi la Corte costituzionale, sia da quest’ultima ritenuto affetto da vizi di rango costituzionale, diverrebbe urgente un nuovo intervento novellatore, pena una stasi procedimentale non altrimenti risolvibile ogni qualvolta la Regione interessata, negando l’intesa, ponga il proprio veto all’autorizzazione di cui ai sensi all’art. 52-quinquies del D.P.R. 327/2001 per la costruzione e l’esercizio dell’infrastruttura lineare energetica divisata dallo Stato.

Casalino Donato

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