Paziente che chiede il risarcimento del danno per contagio da virus dell’epatite c a seguito di un intervento chirurgico deve dimostrare di aver contratto il virus a causa di detto intervento

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Il fatto

Con la sentenza oggetto di commento, la Corte di Cassazione ha deciso un ricorso promosso da una paziente che lamentava di aver contratto il virus dell’epatite C a seguito di un intervento chirurgico e conseguente ricovero presso una struttura sanitaria.

In particolare, la paziente sosteneva di aver effettuato un intervento di artroprotesi al ginocchio destro presso una casa di cura milanese, nell’aprile del 2004, e che, circa un anno dopo, si era sottoposta a delle cure otorinolaringoiatriche presso un medico svizzero, effettuando – per tale motivo – degli esami da cui era emerso che la medesima aveva contratto l’epatite virale C. La paziente, quindi, sosteneva di aver così preso conoscenza, per la prima volta, di essere affetta dal virus dell’epatite C e attribuiva la responsabilità del contagio all’intervento che aveva effettuato un anno prima presso la citata casa di cura milanese.

In ragione di ciò, la signora agiva dinnanzi al Tribunale di Milano per far accertare la responsabilità della struttura sanitaria e sentirla quindi condannare al risarcimento dei danni subiti a causa dell’infezione nocosomiale.

La struttura sanitaria si era costituita in giudizio negando la propria responsabilità nonché quella dei suoi sanitari, in considerazione del fatto che non era stato dimostrato il nesso di causalità fra l’evento dannoso (costituito dal contagio del virus) e la condotta posta in essere dalla convenuta e dei suoi medici (consistente nell’intervento praticato al ginocchio destro della paziente). Infatti, secondo la struttura sanitaria convenuta, era altamente probabile che, nel momento in cui la paziente era entrata presso la struttura sanitaria, essa avesse già contratto il virus: a riprova di ciò, deponeva il fatto che il materiale utilizzato in sala operatoria era sterile nonché il fatto che durante l’intervento non era stata effettuata alcuna trasfusione sulla persona della paziente; inoltre, a ciò doveva aggiungersi il fatto che quest’ultima aveva, per la prima volta, denunciato l’esistenza della malattia soltanto dopo un anno dall’intervento e che la convenuta non aveva alcun obbligo di effettuare la verifica dell’esistenza del virus prima dell’effettuazione dell’intervento chirurgico.

Il tribunale di Milano aveva respinto la domanda dell’attrice, ritenendo che non fosse stata raggiunta la prova dell’esistenza del nesso causale tra la condotta e l’ evento, prova che gravava sul paziente danneggiato: secondo il giudice meneghino, infatti, nei giudizi di responsabilità medica l’attore deve provare, oltre al contratto con il sanitario, anche il nesso di causalità fra la condotta, attiva o omissiva, del convenuto e l’evento dannoso, costituito dall’aggravamento della situazione patologica già esistente o dall’insorgenza di una nuova patologia. Per i giudici milanesi, nel caso di specie, il fatto che non era stata effettuata alcuna trasfusione, faceva ricadere sulla paziente l’onere di provare che la stessa non aveva già contratto il virus prima di sottoporsi all’intervento presso la casa di cura convenuta. A sostegno dell’inesistenza del nesso di causalità, inoltre, il giudice milanese portava l’esito della consulenza tecnica d’ufficio svolta in fase istruttoria, secondo la quale la probabilità che il contagio da virus dell’epatite C da parte della signora fosse avvenuto durante l’intervento chirurgico presso la struttura sanitaria convenuta era di gran lunga inferiore al 50%.

In considerazione il rigetto della domanda avanzata in primo grado, la paziente impugnava la sentenza dinanzi alla corte d’appello di Milano, la quale, tuttavia, respingeva l’appello confermando integralmente la decisione di prime cure.

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La decisione della Suprema Corte

L’attrice, nonostante essere stata soccombente in entrambi i gradi di giudizio di merito, ha ricorso alla corte di cassazione, facendo valere un asserito errore del collegio milanese nell’applicazione dei principi in materia di riparto dell’onere della prova. Secondo la ricorrente, tale errore è consistito nell’aver escluso che gravasse sulla struttura sanitaria convenuta l’onere di dimostrare che la paziente aveva contratto il virus dell’epatite C prima dell’esecuzione dell’intervento chirurgico di cui è causa. Ciò, in quanto, a detta della ricorrente, secondo l’orientamento unanime della giurisprudenza di merito e di legittimità, nei giudizi di responsabilità medica, il paziente deve soltanto provare il contratto (e quindi l’esecuzione dell’intervento chirurgico) e l’insorgenza della malattia o la sua scoperta dopo la condotta posta in essere dal sanitario; mentre, il nesso causale fra condotta ed evento risulta insito nello stesso concetto di infezione nosocomiale.

La corte di cassazione ha, però, rigettato il ricorso promosso dalla paziente, ritenendo infondato il sopra esposto motivo di doglianza.

Preliminarmente, gli ermellini hanno evidenziato, in primo luogo, come sia pacifico tra le parti in causa che, durante il ricovero e l’intervento chirurgico de quo presso la casa di cura convenuta, la paziente non fosse stata sottoposta a nessuna trasfusione di sangue. In secondo luogo, come la consulenza tecnica d’ufficio effettuata in primo grado avesse ritenuto che era più probabile che il contagio dal virus dell’epatite C non fosse avvenuto durante l’intervento chirurgico di cui è causa, piuttosto che l’opposto: ciò, in considerazione del fatto che la paziente, prima del suddetto intervento, si era sottoposta ad almeno altri sei interventi o trattamenti sanitari rispetto ai quali sussisteva il rischio di contagio del virus HCV (pertanto, secondo un calcolo matematico delle probabilità, effettuato su sette diversi interventi possibili cause del contagio, emergeva che la probabilità di trasmissione del virus per ognuno di essi si attestava intorno al 15%).

Ciò detto, i giudici supremi hanno ricordato che, in materia di responsabilità sanitaria spetta al paziente, il quale chiede il risarcimento dei danni subiti, l’onere di provare il nesso di causalità fra l’evento dannoso di cui chiede il risarcimento e la condotta attiva o omissiva dei sanitari. Invece, non si applica, in questi casi, il principio della maggiore vicinanza della prova al debitore.

Pertanto, il paziente danneggiato deve provare che il comportamento attivo o omissivo del sanitario convenuto ha determinato l’evento dannoso, secondo il criterio del più probabile che non. Qualora tale prova non sia raggiunta poiché rimane ignota la causa del danno, l’onere della prova dovrà ritenersi non assolto e conseguentemente la domanda dovrà essere respinta.

Nel caso di specie, la corte di cassazione ha valutato che i giudici milanesi avessero correttamente applicato i sopra richiamati principi, ritenendo che gravasse sulla paziente, la quale chiedeva il risarcimento del danno causato dal contagio da virus dell’epatite C a seguito di un intervento chirurgico, dimostrare che la stessa aveva contratto il virus proprio a causa dell’intervento eseguito dalla struttura sanitaria convenuta.

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Sentenza collegata

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Avv. Muia’ Pier Paolo

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