Osservazioni sul concorso di opposizioni esecutive (Nota a Cass. civ., Sezione VI-3, ordinanza dell’11 febbraio 2020, n. 3166, rv. 656752-01)

Redazione 30/03/20
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di Elisabetta Silvestri

Sommario

Massima

1. La vicenda

2. La questione decisa

Cass. civ., Sezione VI-3, ordinanza dell’11 febbraio 2020, n. 3166, rv. 656752-01( Presidente: Raffaele Frasca; Relatore: Paolo Porreca)

ESECUZIONE FORZATA – OPPOSIZIONI – IN GENERE – Contestuale proposizione di opposizione all’esecuzione e opposizione agli atti esecutivi – Conseguente sentenza – Impugnazione – Diversificazione dei distinti rimedi impugnatori – Necessità – Effetti.

Massima:

Qualora una opposizione in materia esecutiva possa scindersi in un duplice contenuto, in parte riferibile ad una opposizione agli atti esecutivi e in parte ad una opposizione all’esecuzione, l’impugnazione della conseguente sentenza deve seguire il diverso regime previsto per i distinti tipi di opposizione.

1. La vicenda

Con l’ordinanza in commento, la Suprema Corte dichiara inammissibile il ricorso proposto contro la decisione con cui il Tribunale di Trapani aveva confermato la pronuncia del Giudice di pace (non è dato sapere di quale luogo) che aveva accolto la domanda di F., volta a far dichiarare la nullità di un preavviso di fermo amministrativo di beni mobili registrati (presumibilmente, un autoveicolo, in considerazione dell’organo giudiziario adíto) e delle relative cartelle esattoriali. Dal testo della pronuncia della Corte non si comprende come sia stato possibile che la domanda di F. sia stata accolta in prime cure, con decisione addirittura confermata in appello, pur essendo stata proposta contestualmente nelle forme sia di una opposizione all’esecuzione exart. 615 cod. proc. civ., sia di una opposizione agli atti esecutivi exart. 617 cod. proc. civ. La giurisprudenza più recente, infatti, ha chiarito qual è la natura del fermo amministrativo e, a maggior ragione, del preavviso di fermo, precisando che non tratta di atti esecutivi e neppure di atti prodromici all’esecuzione forzata. Il fermo amministrativo (di cui all’art. 86, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 602 e successive modificazioni), infatti, va considerato come una «misura puramente afflittiva volta ad indurre il debitore all’adempimento; con la conseguenza che la sua impugnativa, sostanziandosi in un’azione di accertamento negativo della pretesa creditoria, segue le regole generali del rito ordinario di cognizione in tema di riparto della competenza per materia e per valore»[1]. È pur vero che le opposizioni esecutive si configurano come ordinari giudizi di cognizione, ma le ragioni che inducono la giurisprudenza ad attribuire all’impugnativa del fermo natura di azione di accertamento negativo della pretesa creditoria portano ad escludere che tale azione sia compatibile con la ben nota struttura bifasica delle opposizioni.

Secondo la Corte, il ricorso è inammissibile per violazione dell’art. 366, nn. 3 e 6 cod. proc. civ.: per ciò che interessa in questa sede, sotto il profilo dell’inosservanza del n. 3 della norma, rileva l’assenza di specifici riferimenti al contenuto della sentenza di primo grado, rispetto alla quale il ricorso si limita a riportare che l’accoglimento della domanda era stato determinato da intervenuta prescrizione, senza ulteriori precisazioni. In aggiunta, secondo la Corte dalla decisione impugnata non emerge se il giudice di primo grado aveva qualificato l’opposizione proposta contro il fermo provvisorio come opposizione all’esecuzione o come opposizione agli atti esecutivi. Contro la sentenza resa in prime cure era stato vittoriosamente proposto appello, ma nel ricorso per cassazione mancano gli elementi idonei a valutare le ragioni dedotte quali motivi d’appello. Ancora, posto che uno dei motivi del ricorso riguardava la nullità della notificazione delle cartelle esattoriali, l’inammissibilità del ricorso discende anche dalla violazione dell’art. 366, n. 6 c.p.c., in quanto la decisione impugnata aveva confermato la declaratoria di nullità della notificazione di cinque delle sei cartelle esattoriali inviate al debitore e solo per una aveva ritenuto operante l’avvenuta estinzione del credito per effetto di prescrizione, ma di tutto ciò il ricorso non fa menzione, omettendo, tra l’altro, di indicare esattamente gli estremi della produzione dei documenti (presumibilmente, le cartelle di pagamento, oltre a tutto ciò che consentirebbe di verificare la ritualità o meno della loro notificazione).

[1] In questo senso, cfr. Cass. civ., Sez. III, 8 novembre 2018, n.28528, in cui si fa espresso riferimento a Cass. civ., Sez. Unite, 22 luglio 2015, n. 15354 (ord.). Numerose, comunque, sono le pronunce nel medesimo senso: cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. VI – Lavoro Ord., 4 luglio 2019, n. 18041 (rv. 654525-01); Cass. civ., Sez. III, 8 novembre 2018, n. 28528; Cass. Civ., Sez. Unite, 27 aprile 2018, n. 10261 (Rv. 648267); Cass. Civ., Sez. Unite, 17 gennaio 2017, n. 959 (ord.); Cass. civ., Sez. III, 27 novembre 2015, n. 24234 (rv. 637764).

2. La questione decisa

Gli anni appena trascorsi ci hanno reso familiare il «mantra» della sinteticità degli atti processuali di parte e dei provvedimenti giurisdizionali; così, nessuno può negare che un periodare barocco e ridondante nella redazione delle sentenze non renda un buon servizio alla giustizia e a chi ne fruisce, a causa della minore comprensibilità (sia per le parti, sia per l’intera collettività) delle ragioni delle decisioni, contenute in motivazioni convolute e prolisse[2]. Meno frequente è l’osservazione che conseguenze altrettanto negative ha pure l’eccesso opposto, ossia una motivazione particolarmente stringata, al punto da risultare ben poco illuminante sia rispetto alla vicenda processuale di cui costituisce l’epilogo, sia con riguardo alla ratio decidendi. E l’ordinanza oggetto di queste brevi osservazioni appartiene proprio alla categoria dei provvedimenti in cui un eccesso di sintesi rende difficilmente apprezzabile il contenuto della motivazione. In effetti, la ricostruzione dei fatti di causa e del procedimento innanzi ai giudici di merito appare ardua, com’è arduo comprendere se, nel caso di specie, la Corte abbia ritenuto che l’azione proposta in primo grado avanti al giudice di pace fosse da considerarsi quale opposizione all’esecuzione o opposizione agli atti esecutivi.

Tuttavia, vi è almeno un aspetto della decisione che risulta chiaro e che, a differenza di altri passaggi della motivazione, non si presta a fraintendimenti. Si tratta dell’affermazione del principio secondo cui ogni qualvolta, con un unico atto, viene proposta un’opposizione esecutiva qualificabile, in astratto, tanto come opposizione all’esecuzione quanto come opposizione agli atti esecutivi, l’impugnazione della sentenza resa a conclusione del giudizio dovrà necessariamente seguire il diverso regime previsto per l’una o per l’altra. Si tratta di un principio che ricorre costante nella giurisprudenza di legittimità[3] e che sembra avere implicazioni rilevanti. In primo luogo, pare potersi affermare che, qualora la parte non abbia indicato esattamente quale opposizione intende proporre, spetterà al giudice sciogliere il dubbio, specificando nella sentenza se l’opposizione proposta sia riconducibile alla disciplina degli artt. 615 s c.p.c. o a quella degli artt. 617 s. c.p.c. e, naturalmente, indicando in maniera specifica le ragioni della scelta alla luce delle allegazioni formulate dall’opponente. In secondo luogo, è pure ipotizzabile il caso in cui l’opposizione, formalmente unica, possa essere scissa in due distinte forme di contestazione, ossia in una opposizione all’esecuzione e, contestualmente, in una opposizione agli atti esecutivi: in questo caso, la sentenza consterà di capi distinti, ciascuno soggetto all’impugnazione prevista per ciascun tipo di opposizione[4]. A questo riguardo, sembra opportuno ricordare che la sentenza con cui si chiude il giudizio di opposizione all’esecuzione è soggetta agli ordinari mezzi di impugnazione e quindi, in primo luogo, ad appello[5], in ossequio ad un consolidato orientamento giurisprudenziale, che è tornato ad affermarsi quando, nel 2009, è stato soppresso l’ultimo periodo dell’art. 616 c.p.c. (introdotto nel 2006), secondo il quale la causa era decisa con sentenza non impugnabile[6]. Diversamente, la sentenza resa su opposizione agli atti esecutivi è espressamente qualificata come non impugnabile dall’art. 618, ult. comma c.p.c.: esclusa, quindi la proponibilità dell’appello, si ritiene che la decisione sia comunque suscettibile di ricorso straordinario per cassazione, a norma dell’art. 111, comma 7 Cost.[7], esperibile per tutti i motivi contemplati dall’art. 360 c.p.c., oltreché di regolamento di competenza, per espressa previsione dell’art. 187 disp. att. c.p.c.

Ancora con riferimento alla corretta individuazione del mezzo di impugnazione esperibile contro la sentenza resa su di un’opposizione esecutiva, mette conto di segnalare un altro orientamento giurisprudenziale, relativo al c.d. principio dell’apparenza. In base a tale principio, l’impugnazione esperibile deve essere identificata facendo riferimento soltanto alla qualificazione dell’azione esperita che il giudice a quo abbia compiuto, indipendentemente sia dalla correttezza o meno di tale qualificazione, sia dalla qualificazione proposta dalle parti. Tuttavia, è necessario verificare se il giudice a quo abbia inteso effettivamente fornire la qualificazione dell’azione o se si sia limitato a formulare al riguardo un’affermazione solo generica. In questo secondo caso, infatti, il potere di qualificare l’azione proposta in prime cure spetterà al giudice ad quem, ai fini sia della decisione nel merito, sia della pronuncia sull’ammissibilità della impugnazione[8].

[2] Sul punto, cfr. ampiamente gli scritti contenuti in Ministero della Giustizia, Gruppo di lavoro sulla chiarezza e la sinteticità degli atti processuali (decreti ministeriali 18 settembre 2017 e 3 gennaio 2018), Breviario per una buona scrittura (16 febbraio 2018), disponibile all’indirizzo https://www.federnotizie.it/wp-content/uploads/2018/10/BREVIARIO_ATTI_PROCESSUALI.pdf.

[3] Tra le tante, cfr. Cass. civ., Sez. III, 18 luglio 2016, n. 14661 (rv. 640586); Cass. civ., Sez. VI, 29 settembre 2015, n. 19267 (rv. 636948); Cass. civ., Sez. III, 27 agosto 2014, n. 18312 (rv. 632102); Cass. civ., Sez. III, 31 maggio 2010, n. 13203 (rv. 613198).

[4] In questo senso, cfr. Cass. civ., Sez. III, 6 luglio 2006, n. 15376 (rv. 593561).

[5] Cfr., ad esempio, Cass. civ., Sez. III, 31 agosto 2015, n. 17314; Cass. civ., Sez. III, 19 maggio 2003, n. 7762; Cass. civ., Sez. III, 9 aprile 1993, n. 4335.

[6] Sul punto, con ampi riferimenti dottrinali, per tutti cfr. F. Cabrini, in F. Carpi – M. Taruffo (a cura di), Commentario breve al codice di procedura civile 9, Wolters Kluwer-CEDAM, 2018, sub art. 616, § IV.

[7] In tema, cfr. diffusamente C. Mandrioli – A. Carratta, Diritto processuale civile 27, IV, Giappichelli Editore, 2019, p. 244.

[8] Cass. civ., Sez. III, 22 giugno 2016, n. 12872; Cass. civ., Sez. VI, 2 marzo 2012, n. 3338; Cass. civ., Sez. III, 17 maggio 2007, n. 11455 (rv. 597804); Cass. civ., Sez. III, 28 febbraio 2006, n. 4507 (rv. 588209).

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