Occupazione appropriativa, occupazione acquisitiva e accessione invertita: la fine di un’epoca

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Fino a non molto tempo fa, la giurisprudenza riconduceva la fattispecie dell’occupazione illegittima di un immobile compiuta dall’Amministrazione a danno del cittadino, cui faceva seguito la realizzazione dell’opera pubblica, all’istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”, che determinava l’acquisizione della proprietà del fondo a favore della Pubblica Amministrazione per “accessione invertita”, allorché si fosse verificata l’irreversibile trasformazione dell’area. Come noto, tale istituto, di origine pretoria, è sorto con la sentenza della Corte di Cassazione del 26 febbraio 1983, n. 1464.

È il caso di delineare compiutamente i più recenti sviluppi giurisprudenziali, che hanno stravolto di colpo un indirizzo consolidatissimo che voleva sanata ogni irregolarità amministrativa a danno del cittadino, tanto che abbondante giurisprudenza ha parlato addirittura di acquisizione “sanante”, cioè di procedura illegittima sanata per il fatto stesso della trasformazione irreversibile del bene. In circa un ventennio tale principio ha trovato uniforme applicazione, anche se forti sono state le critiche dei TAR ed, evidentemente, dei difensori dei cittadini. Ciò perché alla base dello Stato di diritto vi è il principio di legalità; si è chiesto e richiesto allora: come è possibile che un Comune possa di fatto appropriarsi del bene del cittadino in violazione di ogni normativa?

Domanda che si è posta, come vedremo, anche la Corte Europea per i Diritti dell’Uomo.

Oggi, dopo vent’anni di irragionevole orientamento giurisprudenziale, l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso. Ciò perché il solo fatto dell’occupazione illegittima o dell’irreversibile trasformazione, non costituisce titolo idoneo per il trasferimento della proprietà.

Come detto, la materia che ci occupa ha seguito negli anni un altalenante percorso giurisprudenziale, anche a seguito di pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo.

In ultimo, in subiecta materia la giurisprudenza della Repubblica Italiana si è adattata all’indirizzo della Corte Europea ed ha stabilito principi fondamentali che stravolgono il precedente quadro giuridico.

Per il Consiglio di Stato, l’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso (Consiglio di Stato, Sez. IV – Sentenza 2 settembre 2011, n.4970). Viceversa, precedentemente il cittadino non poteva pretendere la restituzione del bene e per qualunque forma risarcitoria era soggetto a termini di prescrizione capaci di mettere a repentaglio ogni diritto, mentre ora l’azione per la restituzione è imprescrittibile, trattandosi in fatto di rivendicazione della proprietà.

L’intervenuta realizzazione dell’opera pubblica, quindi, non fa venire meno l’obbligo dell’amministrazione di restituire al privato il bene illegittimamente appreso perché la realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato non assurge a titolo dell’acquisto.

Ne consegue che il mero fatto (realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente occupato) è inidoneo a determinare il trasferimento della proprietà.

Solo il formale atto di acquisizione dell’amministrazione può essere in grado di limitare il diritto alla restituzione.

Ne discende che è obbligo primario dell’amministrazione di procedere alla restituzione della proprietà illegittimamente detenuta.

Tale nuovo quadro giuridico stravolge venti anni di sentenze.

Per venti anni, infatti, la giurisprudenza ha ricondotto la fattispecie in esame all’istituto della c.d. occupazione “appropriativa” o “acquisitiva”, che determinava l’acquisizione della proprietà del fondo a favore della Pubblica Amministrazione per “accessione invertita”, allorché si fosse verificata l’irreversibile trasformazione dell’area (come detto istituto di origine pretoria sorto con la discussa sentenza della Corte di Cassazione del 26 febbraio 1983, n. 1464).

In seguito alle pronunce della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo si è consolidato – al contrario – l’orientamento giurisprudenziale oggi dominante e granitico, secondo cui, in mancanza di un atto adottato nelle forme di legge, non si verifica l’acquisizione dell’area da parte della pubblica amministrazione.

Per il Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Regione Siciliana, su tutti, l’Ordinamento “non prevede più l’istituto dell’occupazione appropriativa”; “la sola occupazione sine titulo del bene lascia ancora intatto il diritto di proprietà dell’interessato e il conseguente diritto ad ottenere la restituzione dell’immobile” (Cfr. C.G.A.R.S., sentenze nn. 49, 51 e 52 del 18/02/2009).

Pertanto, l’irreversibile trasformazione del fondo, per la giurisprudenza prevalente, non produce più l’effetto di trasferire la proprietà (ex plurimis, Consiglio di Stato, Sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1514).

Superata la questione che la costruzione dell’opera pubblica e l’irreversibile trasformazione del suolo non producono più effetti preclusivi o limitativi della tutela in forma specifica del privato, è evidente che la domanda di restituzione di un immobile, previo ripristino dei luoghi, è ormai pacificamente ammissibile, ove fondata in fatto ed in diritto.

Tale domanda, manifestandosi in una rivendicazione di proprietà, non è soggetta ad alcun termine di prescrizione.

Ogni forma di risarcimento, poi, nella nuova qualificazione giuridica della fattispecie, sarebbe soggetta a termine breve di prescrizione, specificamente al termine di cinque anni, ove si considerasse l’occupazione illegittima alla stregua di un atto illecito (attenzione, lo è, ma non è solo tale); soggetta a termine ordinario di prescrizione, quindi al termine di dieci anni, ove si valutasse l’occupazione illegittima come risultato di una procedura amministrativa radicalmente viziata. In ogni caso, il vero problema sta nell’individuare con certezza il dies a quo. Ebbene, il dies a quo del termine di prescrizione (breve o ordinario che sia) decorre non più dall’occupazione appropriativa, istituto pretorio venuto meno, con la conseguenza che il fatto dell’occupazione rimane un mero fatto, improduttivo di effetti giuridici; non più dal completamento dell’opera pubblica; non più dall’irreversibilità della trasformazione del suolo; bensì il dies a quo coincide con la data del provvedimento con cui si trasferirà eventualmente al patrimonio del Comune il bene oggetto di occupazione o con la data di restituzione del bene al cittadino. Ciò perché il contenzioso pendente tra Amministrazione e cittadino ha esplicato l’effetto di interrompere la prescrizione.

In tale nuova connotazione interessante è stata la soluzione di diritto adottata dal TAR Catania con la sentenza n. 1075/2012, i cui principi generali hanno già trovato accoglimento dinanzi al Consiglio di Giustizia Amministrativa per la Sicilia.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per la Sicilia, Sezione staccata di Catania (Sezione II), ha accolto il ricorso del cittadino per analoga questione e per l’effetto ha disposto la restituzione, in favore dei proprietari, del bene illegittimamente occupato, ovvero, in alternativa, l’acquisizione non retroattiva dello stesso, secondo il modulo procedimentale di cui all’art. 42-bis DPR 327/2001, salva sempre la liquidazione del danno derivante dalla illegittima occupazione del fondo.

Ciò perché “è possibile per le parti di concludere un accordo teso al trasferimento della proprietà, deve imporsi all’Amministrazione di rinnovare, nel termine di giorni novanta dalla notificazione, a cura di parte, della presente sentenza (ovvero, se anteriore, dalla sua comunicazione in via amministrativa), la valutazione di attualità e prevalenza dell’interesse pubblico all’eventuale acquisizione del fondo per cui è causa, adottando, all’esito, un provvedimento con cui lo stesso sia, alternativamente:

A) acquisito non retroattivamente al patrimonio indisponibile comunale, liquidando il risarcimento anche in relazione ai danni per il periodo di illegittima occupazione del bene;

B) restituito in tutto od in parte ai legittimi proprietari, previo ripristino dello stato di fatto, esistente al momento dell’apprensione;

tanto nel termine di giorni novanta, di cui sopra.

Nel caso in cui l’Amministrazione ritenga di dover restituire il terreno, dovrà comunque emettere un provvedimento per il risarcimento del danno derivante dalla illegittima occupazione del fondo (sul punto, Cons. Stato, Sez. IV, 16 marzo 2012, n. 1514)” Cfr. TAR Catania, sentenza n. 1075/2012.

Tale soluzione è stata, peraltro, avallata in più occasioni dal TAR di Palermo, che ha condannato gli Enti resistenti, ex art. 34, primo comma, lett. c),c.p.a., alla restituzione ai cittadini ricorrenti degli immobili, previa loro rimessione in pristino, ovvero alla loro acquisizione nei modi legittimi nel termine di mesi 3 decorrenti dalla comunicazione ovvero notificazione, se anteriore, delle rispettive sentenze (T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. III, Sentenza 25 marzo 2013, n. 676. T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. II, Sentenza 14 novembre 2012, n. 24).

Per la relativa liquidazione del ristoro, che rimane risarcitorio per l’articolo 42 bis, terzo comma citato, può farsi riferimento ai criteri di cui alla medesima disposizione, sicché ex art. 34, comma 4 del c.p.a. (T.A.R.,Sicilia, Sez. III, 21.1.2013, n. 152) il danno dovrà essere liquidato dall’Amministrazione nella misura pari all’interesse del cinque per cento annuo sul valore venale (T.A.R. Calabria, Sez. II, 20.11.2012, n. 1125;T.A.R. Puglia Bari, Sez. III, 4.5.2012 n. 8922; T.A.R. Liguria, Sez. I, 12 dicembre 2011, n. 1756) che l’immobile aveva ogni anno successivo alla scadenza del termine di occupazione legittima (C.d.S., Sez. IV,16.3.2012, n. 1514; TAR Sicilia, Sez. II, 11.1.2013, n. 24) e per ciascun anno del periodo di occupazione illegittima; le somme calcolate, anno per anno, andranno poi separatamente incrementate, per interessi e rivalutazione monetaria, fino al dì del pagamento, trattandosi di obbligazione risarcitoria da fatto illecito, per cui sono dovuti sia la rivalutazione monetaria, essendo per i debiti di valore la svalutazione monetaria una delle voci del danno emergente sofferto, sia gli interessi al tasso legale, a titolo di risarcimento del lucro cessante (T.A.R. Sicilia Palermo, Sez. III, Sentenza 25 marzo 2013, n. 676).

In conclusione, possiamo dire “meglio tardi che mai” e chiederci: chi risarcirà coloro che nei vent’anni precedenti hanno subito la sottrazione di un proprio bene da parte della pubblica amministrazione senza alcuna forma di tutela, anzi pure con la condanna alle spese di lite? E ancora: come è stato possibile ritenersi trasferito un immobile nel patrimonio dell’Amministrazione attraverso comportamenti contra legem? Per dare giustizia ai cittadini “fregati” dal tempo, per i quali è intervenuta una sentenza prima che si consolidasse l’orientamento odierno, si dovrebbe fare una legge ad hoc per ristorare, almeno simbolicamente, il danno da essi patiti, perché in uno Stato di diritto la giustizia deve essere ristabilita ogni qualvolta l’ingiustizia si è manifestata. Come nel caso di specie.

Lillo Massimiliano Musso

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