Nuovi profili normativi e giurisprudenziali in tema di affidamento in house

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I – Introduzione

L’istituto dell’affidamento in house (noto anche come in house providing, come tale contrapposto al contracting out o outsourcing), ancor prima del suo sostanziale recepimento nella disciplina italiana in tema di servizi pubblici1, è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria a partire dalla celebre sentenza resa nel caso Teckal2, nella quale sono stati individuati i due criteri cumulativi, la cui contemporanea sussistenza consente di sottrarre alle procedure di aggiudicazione previste per gli appalti pubblici tutti quei rapporti intercorrenti tra una pubblica amministrazione ed un ente soggetto all’influenza dominante di quest’ultima.

In effetti, alla luce del diritto comunitario, il concetto di pubblica amministrazione non è unico e il settore che ha conosciuto la massima esplicazione di tale elastico concetto è quello delle società deputate alla gestione dei servizi pubblici locali di cui all’art. 113 del T.U.E.L, con precipuo riferimento a quelle che gestiscono il servizio pubblico in house.

Tale normativa, abrogata per effetto dell’art. 23-bis del d.l. n. 112/2008 e dell’art. 12 del successivo regolamento di attuazione di cui al d.p.r. 168/2010, è stata di recente sostituita dall’art. 4, comma 13, del d.l. 138/2011, convertito dalla legge n. 148/2011, che ha ammesso l’affidamento a favore di società a capitale interamente pubblico in house come opzione eccezionalmente praticabile nei soli casi in cui il valore economico dei servizi oggetto dell’affidamento è pari o inferiore a 900.000 euro annui. Da ultimo, la norma è stata recentemente modificata dall’art. 25 del decreto-legge n. 1/2012, che ha introdotto modifiche sostanziali alla disciplina ed ha modificato il predetto valore portandolo a 200.000 euro annui.

Un’ulteriore figura di affidamento in house è stata introdotta in materia dall’art. 19, comma 5, del decreto-legge 78/2009, convertito dalla Legge 102/2009.

La figura comunitaria dell’in house providing, di cui la sopracitata normativa costituisce la traduzione nazionale nel campo dei servizi pubblici locali, non trova una definizione e una disciplina generale nelle normative sia comunitarie che interne. Tuttavia, è possibile colmare tale lacuna con una perimetrazione, in negativo, delle figure dell’appalto e della concessione dei pubblici servizi3. Difatti, in entrambe le fattispecie si riscontra un’alterità del soggetto in relazione all’ente pubblico, mentre nel modello in house difetta un rapporto di intersoggettività, in quanto l’intensità del controllo esercitato dal soggetto pubblico sull’affidatario è tale da fare escludere, al di là del dato formale, che vi sia una distinzione sostanziale tra i due soggetti4. La mancanza di tale relazione intersoggettiva elimina l’obbligo di gara, comportando, in concorso con altri criteri, il configurarsi di un affidamento in house.

Per la Corte di Giustizia l’in house è un modello che vale anche al di fuori del settore dei servizi pubblici, così come il partenariato pubblico privato istituzionalizzato (P.P.P.I)5, e tale modello consente di non rispettare i principi fondamentali del Trattato, altrimenti estensibili a tutti i contratti da stipulare da parte di amministrazioni aggiudicatrici6.

In ragione dell’evoluzione normativa nazionale intervenuta in materia, accompagnata da una ricca produzione giurisprudenziale che ha ulteriormente delimitato l’ambito di applicazione del modello in house, è necessario esaminare l’attuale contesto applicativo dell’istituto, passando in rassegna prima i connotati fondamentali e analizzando, quindi, le più recenti disposizioni legislative.

Inoltre, poiché il massimo organo della giustizia comunitaria ha affermato la libertà per il legislatore nazionale di prevedere indifferentemente la gestione interna o esterna di un servizio pubblico, è necessario verificare se il modello di autoproduzione possa operare sempre, anche in assenza di una specifica disciplina normativa, oppure se sia indispensabile un’espressa statuizione normativa che autorizzi tale modulo di gestione.

II. Brevi cenni sull’evoluzione normativa e giurisprudenziale dell’in house providing. Il controllo analogo e la dedizione prevalente ai bisogni dell’ente pubblico. Il problema dello svolgimento delle attività extraterritoriali

Trattandosi di deroga ai principi comunitari di libera concorrenza, non discriminazione e trasparenza, l’in house providing è ammissibile soltanto in presenza di alcune rigorose condizioni, individuate in maniera sempre più restrittiva dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale, che ha ridefinito l’ambito di applicazione dell’istituto adeguandolo ai limiti imposti dal necessario rispetto dei principi cardini dei Trattati europei7.

In effetti, a partire dal libro bianco della Commissione Europea del 1998, nel quale il cd. “in house contract” compare per la prima volta con riferimento al settore degli appalti pubblici, la giurisprudenza della Corte di Giustizia ha assunto più volte il ruolo di interprete nella definizione dei requisiti di ammissibilità dell’affidamento diretto.

Con la celebre sentenza Teckal8 del 1999, la Corte subordina la legittimità dell’istituto alla sussistenza di due requisiti: il “controllo analogo” a quello esercitato dall’ente sui propri servizi, e la realizzazione della parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti controllanti.

L’espressione “in house” richiama, appunto, una gestione in qualche modo riconducibile allo stesso ente affidante o alle sue articolazioni, ragion per cui l’affidamento diretto di un servizio è consentito tutte le volte in cui un ente pubblico decida di affidarne la gestione al di fuori di una gara, avvalendosi di una società esterna che presenti, in realtà, caratteristiche tali da qualificarsi come una longa manus dell’ente stesso. Trattasi, in sostanza, di un modello di organizzazione meramente interno, qualificabile in termini di delegazione interorganica, non soggetto alla disciplina comunitaria dei pubblici appalti che si applica, invece, quando l’ente affidatario è distinto dall’amministrazione aggiudicatrice sul piano formale ed è autonomo sul piano sostanziale.

Difatti, quale conseguenza del “controllo analogo” e della “destinazione prevalente dell’attività”, l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa. Per tale motivo non è necessario che l’amministrazione ponga in essere procedure di evidenza pubblica per l’affidamento di appalti.

Sul punto, le recenti pronunce della Corte di Giustizia9 e del Consiglio di Stato10 hanno chiarito che i requisiti dell’in house providing, costituendo un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario, vanno interpretati restrittivamente.

In relazione al requisito del controllo analogo, la dottrina distingue tra controllo strutturale, che consiste nel potere di nomina della maggioranza dei soggetti che compongono gli organi di amministrazione, direzione o vigilanza dell’aggiudicatario, e controllo sull’attività, che costituisce la valutazione della conformità dell’attività svolta dall’ente gestore ad un parametro legale o di efficienza.

La tesi prevalente sostiene che al controllo sull’attività deve aggiungersi anche il controllo strutturale, in quanto il primo non integra da solo gli estremi di un’ingerenza pubblica sull’organizzazione imprenditoriale tale da implicare la qualificazione del rapporto fra i due soggetti interessati alla stregua di un legame organizzativo meramente interno all’amministrazione stessa. Occorre evidenziare, inoltre, che il controllo analogo dell’in house providing non s’identifica con il controllo strutturale valido per l’organismo di diritto pubblico, consistente nell’influenza pubblica dominante, poiché sembra soddisfatto ogniqualvolta l’amministrazione si riservi un potere di ingerenza nell’organizzazione della produzione del prestatore anche a carattere meramente sanzionatorio, a seguito dell’esito negativo del controllo sull’attività oppure quando il mero controllo a posteriori sia inidoneo ad influenzare le decisioni dell’organismo controllato11.

A proposito dei limiti del controllo analogo, nel 2006 è intervenuta una rilevante pronuncia della Corte di Giustizia12, con la quale si afferma che l’influenza esercitata dall’ente locale sulla società aggiudicataria per il tramite di una società holding può incidere negativamente sulla esistenza del controllo ai fini della legittimità dell’affidamento in house. In tale sentenza, i giudici comunitari hanno, inoltre, dichiarato che non è compatibile con la direttiva 93/36 l’affidamento diretto di un appalto di forniture e di servizi, con prevalenza del valore della fornitura, ad una società per azioni il cui consiglio di amministrazione possiede ampi poteri di gestione esercitabili in maniera autonoma e il cui capitale è integralmente detenuto da un’altra società per azioni, della quale è a sua volta socio di maggioranza l’amministrazione aggiudicatrice.

Successivamente la Corte13, considerando l’assenza di un’effettiva intersoggettività, ha stabilito la non applicabilità, ai fini dell’affidamento domestico, delle regole comunitarie per la selezione dell’appaltatore.

Recentemente, il TAR Catania14 ha assunto una rigorosa posizione in materia, affermando che“…i due fondamentali requisiti in proposito elaborati dalla giurisprudenza comunitaria e nazionale – ossia la partecipazione totalitaria del soggetto pubblico affidante al capitale della società “in house” affidataria; nonché il c.d. “controllo analogo” (a quello, totale, che si avrebbe sui propri organi interni) che il primo deve avere su quest’ultima – vanno “interpretat[i] restrittivamente e l’onere di dimostrare l’effettiva sussistenza delle circostanze eccezionali che giustificano la deroga a quelle regole grava su colui che intende avvalersene”… per la sussistenza del controllo analogo, sono necessari, oltre al possesso dell’intero capitale azionario, anche il controllo del bilancio, il controllo sulla qualità dell’amministrazione, la spettanza dei poteri ispettivi diretti e concreti, nonché la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.”

Il tema del controllo analogo è stato affrontato anche dall’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato (sentenza n. 1 del 3 marzo 2008) la quale ha assunto una posizione in linea con quella della Corte di Giustizia, affermando che l’istituto de quo rappresenta un’eccezione alle regole generali del diritto comunitario e, di conseguenza, i suoi requisiti vanno interpretati restrittivamente. Pertanto, il controllo analogo va escluso in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato, in quanto in tal caso l’amministrazione non potrebbe esercitare lo stesso controllo che svolge sui propri servizi.

A livello europeo, la sussistenza del controllo analogo in presenza di una compagine societaria composta anche da capitale privato viene esclusa ritenendosi necessaria la partecipazione pubblica totalitaria. Infatti, la partecipazione (pure minoritaria) di un’impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare su detta società un controllo analogo a quello che essa svolge sui propri servizi15.

Pertanto, è necessario che l’ente possegga l’intero pacchetto azionario della società affidataria16. Tuttavia, come chiarito dalla giurisprudenza comunitaria17, la partecipazione pubblica totalitaria, per quanto necessaria, non è da sola sufficiente alla configurazione del presupposto in esame, essendo indispensabile la sussistenza di maggiori strumenti di controllo da parte dell’ente rispetto a quelli previsti dal diritto civile. La Corte di Giustizia, in particolare, afferma che “l’impresa non deve avere acquisito una vocazione commerciale che rende precario il controllo dell’ente pubblico e che risulterebbe, tra l’altro: dall’ampliamento dell’oggetto sociale; dall’apertura obbligatoria della società, a breve termine, ad altri capitali; dall’espansione territoriale dell’attività della società a tutta l’Italia e all’estero18.

Nella stessa direzione si è espresso il Consiglio di Stato19, affermando, in particolare che “lo statuto della società non deve consentire che una quota del capitale sociale, anche minoritaria, possa essere alienata a soggetti privati20 e che “il consiglio di amministrazione della società non deve avere rilevanti poteri gestionali e all’ente pubblico controllante deve essere consentito esercitare poteri maggiori rispetto a quelli che il diritto societario riconosce normalmente alla maggioranza sociale”21, evidenziando, infine, che “le decisioni più importanti devono essere sottoposte al vaglio preventivo dell’ente affidante22.

In sostanza, si ritiene che il solo controllo societario totalitario non sia garanzia della ricorrenza dei presupposti dell’in house, occorrendo anche un’influenza determinante da parte del socio pubblico, sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti23.

Sul punto, il Consiglio della Giustizia Amministrativa della Regione Siciliana24, sempre in aggiunta alla necessaria totale proprietà del capitale da parte del soggetto pubblico, ha ritenuto essenziale il concorso dei seguenti ulteriori fattori, tutti idonei a concretizzare una forma di controllo che sia effettiva, e non solo formale o apparente: a) il controllo del bilancio; b) il controllo sulla qualità della amministrazione; c) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti; d) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali.

Da ultimo, nuovamente il Consiglio di Stato25 ha aggiunto che la semplice previsione statutaria delle possibilità di ingresso del capitale privato nella società affidataria pregiudica la sua condizione di organo in house in quanto implica la finalizzazione dell’attività dell’ente societario alla tutela di interessi esterni a quelli del socio pubblico e non giustifica l’affidamento diretto della stessa. In particolare, con la sentenza n. 1365/2009, il Supremo Consesso ha fornito risposta al quesito riguardante la possibilità di concepire il requisito del “controllo analogo” come risultato dell’intermediazione delle regole civilistiche sulla governance societaria, ovverosia, se in una società compartecipata in via totalitaria da più enti pubblici, che sia anche diretta affidataria di un servizio pubblico locale, il “controllo analogo”, inteso nei sensi della “dottrina Teckal”, postuli necessariamente anche il “controllo”, da parte del socio pubblico, sulla società e, in via consequenziale, su tutta l’attività, sia straordinaria sia ordinaria, da essa posta in essere.

Al fine di risolvere la questione, il Consiglio di Stato in tale occasione ha applicato i principi sanciti dalla Corte di Giustizia con la sentenza del 13 novembre 2008 sulla vicenda “Coditel Brabant SA”, relativa a due questioni pregiudiziali sottoposte alla Corte di Giustizia dal Consiglio di Stato del Regno del Belgio, investito dal ricorso promosso dalla predetta società avverso la decisione del Comune di Uccle di associarsi ad una società cooperativa di soli comuni (“Brutélé”) e di affidare direttamente a quest’ultima la gestione della rete di teledistribuzione. In particolare, il Consiglio di Stato belga, dopo aver premesso che le decisioni della Brutélé erano prese, a maggioranza, dagli organi statutari composti da rappresentanti delle autorità pubbliche associate, ha posto alla Corte europea i seguenti quesiti: “2) se i poteri … esercitati, tramite organi statutari, da tutti i cooperatori, o da una parte di questi nel caso di settori o sottosettori di gestione, sulle decisioni della società cooperativa possano essere considerati tali da consentire loro di esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello esercitato sui loro propri servizi; 3) Se tali poteri e tale controllo, per poter essere qualificati analoghi, debbano essere esercitati individualmente da ciascun associato o se sia comunque sufficiente che vengano esercitati dalla maggioranza degli associati”.

Al riguardo, con riferimento al primo quesito, la Corte di giustizia ha risposto con le seguenti statuizioni di principio: “Per valutare se un’autorità pubblica concedente eserciti sull’ente concessionario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi è necessario tener conto di tutte le disposizioni normative e delle circostanze pertinenti. Da quest’esame deve risultare che l’ente concessionario è soggetto a un controllo che consente all’autorità pubblica concedente di influenzarne le decisioni. Deve trattarsi di una possibilità di influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni importanti di detto ente”26.

In tale occasione la Corte ha anche affermato che “in circostanze come quelle di cui alla causa principale, ove le decisioni relative alle attività di una società cooperativa intercomunale detenuta esclusivamente da autorità pubbliche sono adottate da organi statutari di detta società composti da rappresentanti delle autorità pubbliche associate, il controllo esercitato su tali decisioni dalle autorità pubbliche in parola può essere considerato tale da consentire loro di esercitare sulla società di cui trattasi un controllo analogo a quello che esercitano sui propri servizi”.

In relazione, poi, al quesito riguardante la possibilità di considerare “controllo analogo” anche il controllo esercitato congiuntamente da parte di più autorità socie, deliberando, se del caso, a maggioranza, la Corte ha ricordato che la sua giurisprudenza impone che “il controllo esercitato sull’ente concessionario da un’autorità pubblica concedente sia analogo a quello che la medesima autorità esercita sui propri servizi, ma non identico ad esso in ogni elemento. L’importante è che il controllo esercitato sull’ente concessionario sia effettivo, pur non risultando indispensabile che sia individuale”.

Alla luce di tali considerazioni, è possibile affermare che, nel caso in cui varie autorità pubbliche detengano un ente concessionario cui affidano l’adempimento di una delle loro missioni di servizio pubblico, il controllo che dette autorità pubbliche esercitano sull’ente in questione può venire da loro esercitato congiuntamente. Pertanto, qualora un’autorità pubblica si associ ad una società cooperativa intercomunale i cui soci sono tutti autorità pubbliche, al fine di trasferirle la gestione di un servizio pubblico, il controllo che le autorità associate a detta società esercitano su quest’ultima, per poter essere qualificato come analogo al controllo che esse esercitano sui propri servizi, può essere esercitato congiuntamente dalle stesse, deliberando, eventualmente, a maggioranza.

Ciò premesso, nella soprarichiamata sentenza del 2009 del Consiglio di Stato si afferma che i principi di diritto enunciati nel caso “Coditel Brabant SA” smentiscono la tesi “commercialistica” seguita dal TAR Campania, affermando che l’intero argomentare del Tribunale, in sé intrinsecamente coerente, poggia sull’inespressa premessa teorica della necessità, ai fini della configurabilità di un controllo analogo, della ricorrenza, in capo ad un socio pubblico, di un potere di controllo sulla società assimilabile a quello delineato dall’art. 2359, commi 1 e 2, c.c.. La diversa linea tracciata dalla Corte di giustizia è invece nel senso dell’esigenza che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario sia effettivo, ancorché esercitato congiuntamente e, deliberando a maggioranza, dai singoli enti pubblici associati.

Il Supremo Consesso conclude affermando che l’impostazione del Giudice europeo trova riscontro sia nelle esperienze positive di molti Stati membri sia nel diritto amministrativo italiano, che annovera diverse forme associative tra enti pubblici, anche per finalità di gestione in comune di pubblici servizi27 in cui il controllo da parte del singolo ente sull’attività svolta, nell’interesse comune, dalla specifica forma associativa non è individuale, ma intermediato e, quindi, inevitabilmente attenuato dall’applicazione delle regole sul funzionamento interno dell’istanza associativa.

Da ultimo, il Consiglio di Stato (sentenza n. 1447 dell’8 marzo 2011) ha ribadito che, secondo l’orientamento consolidato, nel caso di affidamento in house conseguente all’istituzione da parte di più enti locali di una società di capitali da essi interamente partecipata per la gestione di un servizio pubblico, il controllo, analogo a quello che ciascuno di essi esercita sui propri servizi, deve intendersi assicurato anche se esercitato non individualmente ma congiuntamente dagli enti associati, deliberando se del caso anche a maggioranza, ma a condizione che il controllo sia effettivo. Il requisito del controllo analogo deve essere quindi verificato secondo un criterio sintetico e non atomistico, sicché è sufficiente che il controllo della mano pubblica sull’ente affidatario, purché effettivo e reale, sia esercitato dagli enti partecipanti nella loro totalità, senza che necessiti una verifica della posizione di ogni singolo ente28.

In relazione ai requisiti comunitari del modello in house, affinché non sia applicabile la disciplina comunitaria degli appalti pubblici, non è sufficiente la sussistenza del requisito del sopradescritto controllo analogo, ma è necessario anche, sul piano funzionale, che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano. Tale condizione, affermata sin dalla sentenza Teckal, si realizza sia nel caso in cui l’organismo in house svolga attività sostitutive dei servizi erogati dall’amministrazione all’utenza (ex art. 113 TUEL), sia quando l’organismo stesso procuri all’ente controllante fattori produttivi e risorse necessarie per l’attività istituzionale. Nel primo caso l’in house è alternativo all’appalto; nel secondo l’ente controllato opera come stazione appaltante espletando le gare per la selezione degli appaltatori29.

L’individuazione della parte di attività svolta dall’ente affidatario diretto in favore dell’amministrazione controllante non deve avvenire in astratto, con esclusivo riferimento all’oggetto sociale del soggetto gestore, ma è necessario verificare la situazione di fatto sussistenza al momento della stipulazione.

Sul punto si è espresso il Supremo Consesso, dichiarando la necessità che il soggetto in house svolga i suoi compiti in via sostanzialmente esclusiva con l’amministrazione30. Pertanto, si deve ritenere che tale requisito sussiste quando l’affidatario diretto non fornisca i suoi servizi a soggetti diversi dall’ente controllante, oppure li fornisca in misura irrilevante sulle strategie aziendali, e in ogni caso non fuori dall’ambito di competenza territoriale dell’amministrazione.

Al riguardo, la Corte di Giustizia31 afferma che un’impresa svolge la parte più importante della sua attività con l’ente che la detiene se l’attività di detta impresa “è destinata principalmente all’ente in questione e ogni altra attività risulta avere solo un carattere marginale”.

In particolare la Corte, in tema di fornitura di acqua ed energia, evidenzia che “(…) si deve tener conto di tutte le attività realizzate da tale impresa sulla base di un affidamento effettuato dall’amministrazione aggiudicatrice, indipendentemente da chi remunera tale attività, potendo trattarsi della stessa amministrazione aggiudicatrice o dall’utente delle prestazioni erogate, mentre non rileva il territorio in cui è svolta l’attività 32.

Il problema dello svolgimento di attività extraterritoriali da parte delle s.p.a. locali, cioè al di fuori del territorio di competenza dell’ente di riferimento, è da sempre un tema controverso. Sul punto assume particolare rilevanza la questione della natura giuridica della società. Difatti, se tali società vengono considerate solo formalmente estranee agli enti di riferimento, è difficile immaginare la possibilità di svolgere attività fuori dal proprio territorio, mentre se ad esse si attribuisce natura di soggetti privati terzi rispetto all’amministrazione, tale possibilità non sembra del tutto incompatibile con i fini istituzionali.

In effetti, un primo orientamento giurisprudenziale ammette l’estensione al di fuori dei confini dell’ente locale della società mista, a condizione che permanga un collegamento funzionale tra servizio eccedente e necessità delle collettività locali. Altro orientamento, invece, ammette il superamento dei limiti territoriali, riconoscendo alle società miste la possibilità di operare, nei limiti del proprio statuto, come qualsiasi altro soggetto dell’ordinamento dotato di capacità imprenditoriale. Si registra, infine, un terzo orientamento, avallato dal Consiglio di Stato, secondo il quale l’effettiva portata del vincolo di strumentalità che lega la società mista locale alla collettività di riferimento assume carattere residuale rispetto ad un soggetto che assume veste imprenditoriale di diritto privato come la società mista e deve essere valutato soltanto al fine di evitare che l’attività extraterritoriale possa arrecare pregiudizio a quella principale. Di conseguenza, il suindicato vincolo funzionale non può costituire un ostacolo per lo svolgimento di attività che potrebbero essere compatibili con quella istituzionalmente svolta dalla società mista, dato che da ciò potrebbe derivare un miglioramento del servizio stesso, con possibile ritorno di capitale.

Il problema relativo alla possibilità per le s.p.a. locali di estendere il proprio raggio operativo al di fuori dell’ambito territoriale dell’ente di appartenenza sembrava risolto dall’art. 13 del D.L. 4 luglio 2006, n. 223, che al comma 1 prevedeva originariamente che “al fine di evitare alterazioni o distorsioni della concorrenza e del mercato e di assicurare la parità degli operatori, le società, a capitale interamente pubblico o misto, costituite dalle amministrazioni pubbliche regionali e locali per la produzione di beni e servizi strumentali all’attività di tali enti, nonché, nei casi consentiti dalla legge, per lo svolgimento esternalizzato di funzioni amministrative di loro competenza, debbono operare esclusivamente con gli enti costituenti ed affidanti, non possono svolgere prestazioni a favore di altri soggetti pubblici o privati,
né in affidamento diretto né con gara, e non possono partecipare ad altre società o enti.
” Tuttavia, in sede di conversione, la norma ha esonerato da tale obbligo i servizi pubblici locali.

Al fine di armonizzare tale normativa con il principio comunitario di libera concorrenza, la portata delle restrizioni di cui alla legge Bersani è stata ridotta dall’art. 49 della legge 23 luglio 2009, n. 99. Successivamente, l’ormai abrogato art. 23-bis del D.L. 112/2008, modificato dalla L. 166/2009, stabiliva il divieto ai soggetti titolari della gestione di servizi pubblici locali non affidati mediante procedure competitive ed ai soggetti cui è affidata la gestione delle reti, degli impianti e delle altre dotazioni patrimoniali degli enti locali, di acquisire la gestione dei servizi in ambiti territoriali diversi.

III. Differenze ed analogie tra organismi di diritto pubblico ed enti in house

La direttiva n. 18/2004 – che ha unificato le precedenti direttive relative agli appalti nei settori di lavori, servizi, forniture – nel delimitare sul versante soggettivo l’ambito della sua operatività, ribadisce il riferimento alla nozione di organismo di diritto pubblico33. Tale figura, elaborata dal diritto comunitario e recepita nell’ordinamento interno, è da tempo al centro di un articolato dibattito giurisprudenziale e dottrinale34.

In particolare, all’art. 1 comma 9, individua le amministrazioni aggiudicatrici nei seguenti termini: «Si considerano “amministrazioni aggiudicatrici”: lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli organismi di diritto pubblico e le associazioni costituite da uno o più di tali enti pubblici territoriali o da uno o più di tali organismi di diritto pubblico. Per “organismo di diritto pubblico” s’intende qualsiasi organismo: a) istituito per soddisfare specificatamente esigenze di interesse generale, aventi carattere non industriale o commerciale, b) dotato di personalità giuridica, e c) la cui attività sia finanziata in modo maggioritario dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico oppure la cui gestione sia soggetta al controllo di questi ultimi oppure il cui organo d’amministrazione, di direzione o di vigilanza sia costituito da membri dei quali più della metà è designata dallo Stato, dagli enti pubblici territoriali o da altri organismi di diritto pubblico».

Da allora la dottrina ha individuato le differenze ed i punti di contatto tra i presupposti per l’appartenenza alla categoria degli “organismi di diritto pubblico” di matrice comunitaria e per l’inquadramento tra gli “enti in house”, soggetti alla deroga della disciplina comunitaria in tema di appalti.

Si rileva, in primis, che l’influenza pubblica che caratterizza l’ente in house è significativamente più incisiva di quella richiesta per l’organismo di diritto pubblico, per i quali è sufficiente la presenza del controllo sull’attività, del finanziamento maggioritario o della nomina degli organi gestionali. Per gli enti in house, invece, sono richiesti i requisiti del controllo analogo e dello svolgimento prevalente delle attività con l’ente pubblico.

Peraltro, per gli organismi di diritto pubblico si richiede che una quota dell’attività sia destinata a soddisfare bisogni generali di carattere non industriale o commerciale. Al riguardo, la Corte di Giustizia ha evidenziato come la partecipazione anche minoritaria di un socio privato in una società partecipata da un ente locale pregiudichi la totale funzionalizzazione dell’ente all’interesse pubblico, compromettendone la qualificabilità come organo della pubblica amministrazione. Tale nuovo parametro contribuisce a creare una netta distinzione tra organo in house e organismo di diritto pubblico, poiché in quest’ultimo la partecipazione azionaria può rivestire anche partecipazioni non totalitarie35.

Di conseguenza, l’organo in house viene caratterizzato da requisiti più rigorosi rispetto all’organismo di diritto pubblico; per cui tutti gli enti in house sono organismi di diritto pubblico ma non sempre è vero il contrario. Per tale motivi soltanto laddove un organismo non possa essere qualificato come in house è necessario accertare la sussistenza dei requisiti che consentano di qualificarlo come organismo di diritto pubblico.

Inoltre, anche in seguito alla sentenza della Corte di Giustizia dell’11 gennaio 2005, l’analisi del primo dei tre elementi necessari perché il soggetto possa qualificarsi come organismo di diritto pubblico impone di valutare i rapporti intercorrenti tra l’istituto in esame e quello, concettualmente distinto, dell’affidamento in house.

Peraltro, già nella celebre sentenza Teckal del 1999 la Corte ha affrontato la questione dei criteri alla stregua dei quali individuare la normativa comunitaria applicabile per l’aggiudicazione di appalti misti, aventi ad oggetto tanto la fornitura di prodotti quanto la gestione di servizi, nonché la questione riguardante la doverosa osservanza delle procedure ad evidenza pubblica disciplinate dalla medesima direttiva allorché l’appalto debba essere affidato ad un ente che sia esso stesso amministrazione aggiudicatrice: ipotesi, quest’ultima, espressamente contemplata e regolamentata dall’art. 6 della direttiva 92/50 (ora art. 18 della direttiva unificata n. 18/2004) in tema di appalti pubblici di servizi, non anche, invece, dalla direttiva 93/36 afferente agli appalti di forniture36.

La Corte, sulla scorta dell’art. 2 della direttiva 92/50, ha quindi affermato che la prima delle due questioni sopra illustrate vada risolta nell’ottica di un criterio meramente quantitativo, ovverosia, l’appalto pubblico avente ad oggetto nel contempo prodotti (ai sensi della direttiva 93/36) e servizi (ai sensi della direttiva 92/50) rientra nell’ambito di applicazione della direttiva 93/36 qualora il valore dei prodotti previsti dal contratto sia superiore a quello dei servizi. Conseguentemente i Giudici comunitari hanno escluso che la qualificabilità dell’Azienda Gas-Acqua Consorziale (AGAC) di Reggio Emilia come amministrazione aggiudicatrice potesse assumere rilievo in sede di perimetrazione dell’ambito di applicazione della direttiva 93/36. Quest’ultima, infatti, non contiene alcuna disposizione, analoga all’art. 6 della direttiva 92/50, che escluda dal suo ambito di applicazione appalti pubblici aggiudicati, a talune condizioni, ad amministrazioni a loro volta aggiudicatrici.

In effetti, nella storica pronuncia soprarichiamata, si osserva che la direttiva 93/36 è applicabile ove un’amministrazione aggiudicatrice decida di stipulare per iscritto, con un ente distinto da essa sul piano formale e autonomo rispetto ad essa sul piano decisionale, un contratto a titolo oneroso avente ad oggetto la fornitura di prodotti, indipendentemente dal fatto che tale ultimo ente sia a sua volta un’amministrazione aggiudicatrice o meno.

Di conseguenza, la circostanza che l’affidatario dell’appalto sia quindi qualificabile come organismo di diritto pubblico non esime dall’osservanza delle regole in tema di gara. Pertanto, è necessario identificare con esattezza i criteri di distinzione tra gli elementi costitutivi della nozione di organismo di diritto pubblico e quelli in presenza dei quali, per giurisprudenza comunitaria, è consentito ricorrere all’affidamento c.d. in house.

Alla luce dei principi enunciati dalla Corte, è possibile affermare l’insussistenza di una sovrapposizione tra il requisito della sottoposizione all’influenza pubblica dominante, costitutivo della nozione di organismo di diritto pubblico, e quello, necessario per l’affidabilità in house della prestazione, rappresentato dalla sottoposizione dell’affidatario ad un controllo dell’affidante analogo a quello dallo stesso esercitato sui propri servizi.

In effetti, il requisito del controllo analogo, diversamente dall’influenza pubblica dominante desumibile anche da un finanziamento maggioritario all’attività, presuppone sempre un controllo di tipo strutturale, che è il solo controllo idoneo ad attestare l’ingerenza pubblica sull’organizzazione imprenditoriale tale da far assumere all’affidatario natura di prolungamento organizzativo dell’amministrazione controllante. Il solo controllo sull’attività, invece, non consente di qualificare il rapporto fra i due soggetti interessati quale legame organizzativo meramente interno all’amministrazione stessa, essendo necessario un controllo di tipo strutturale, supportato da un effettivo potere di ingerenza dell’amministrazione controllante nell’organizzazione della produzione del prestatore in house. Tuttavia, un controllo di tipo strutturale è anche quello richiesto dalla definizione normativa di organismo di diritto pubblico qualora si desuma la sussistenza dell’influenza pubblica dominante dalla titolarità in capo al soggetto pubblico del potere di nomina di un quorum qualificato dei componenti degli organi di direzione o vigilanza.

Il problema relativo alla differenziazione tra il controllo analogo richiesto per l’affidabilità in house e l’influenza pubblica dominante cui deve soggiacere l’organismo di diritto pubblico è stato parzialmente chiarito in seguito all’intervento della Corte di Giustizia con la sentenza dell’11 gennaio 2005, secondo il cui avviso «la partecipazione, anche minoritaria, di un’impresa privata al capitale di una società, alla quale partecipi anche l’amministrazione aggiudicatrice in questione, esclude in ogni caso che tale amministrazione possa esercitare sulla detta società un controllo analogo a quello che essa esercita sui propri servizi».

Come si è visto, la Corte ha quindi ammesso gli affidamenti in house solo per i soggetti a totale partecipazione pubblica, requisito, quest’ultimo, certo non richiesto perché possano ravvisarsi gli estremi dell’organismo di diritto pubblico. Inoltre, lo stesso controllo azionario totalitario non è pacificamente ritenuto sufficiente ad integrare il presupposto del “controllo analogo”, alla cui integrazione concorrerebbero ulteriori fattori strutturali.

Appare chiara, allora, la maggiore pregnanza del requisito del controllo analogo rispetto a quello della sottoposizione ad influenza pubblica dominante poiché se il primo comprende sempre il secondo, non sempre avviene il contrario.

Il tema relativo ai rapporti tra affidamento in house e organismo di diritto pubblico merita di essere esaminato anche sotto un’altra prospettiva. In effetti, anche l’affidatario in house, proprio in quanto proiezione organizzativa e parte integrante dell’amministrazione controllante e affidante, deve considerarsi a sua volta amministrazione aggiudicatrice, come tale soggetta all’osservanza della disciplina pubblicistica, allorché intenda reperire sul mercato risorse strumentali all’esercizio dell’attività affidatagli senza gara.

Di conseguenza, l’affidatario in house integra una nuova ed ulteriore nozione di amministrazione aggiudicatrice, cui si applica la disciplina di gara a carattere pubblicistico, al pari degli enti pubblici e degli organismi di diritto pubblico. Tuttavia, in conclusione, è possibile affermare che tale sottoposizione alla disciplina pubblicistica discende solamente dall’intervenuto affidamento in house senza che debba procedersi al riscontro, in capo all’affidatario, dei requisiti propri dell’organismo di diritto pubblico, in specie quello teleologico costituito dalla istituzionale preposizione al soddisfacimento di bisogni generali a carattere non commerciale o industriale. 

IV La sentenza della Corte di Giustizia sez. III, 15 ottobre 2009 e il cosiddetto “in house spurio”

Oltre a quello degli enti in house, l’altro strumento “classico” di gestione dei servizi pubblici locali degli enti territoriali è quello delle società miste, disciplinate dall’art. 113, comma 5, lettera b, del T.U.E.L.. Al riguardo, con sentenza del 15 ottobre 2009, la Corte di Giustizia37 ha ammesso l’affidamento diretto alle società miste qualora il socio privato sia stato scelto con gara.

In materia, la dottrina atecnicamente parla di “in house spurio”, in quanto la presenza di un socio privato impedirebbe quella dedizione esclusiva e il controllo analogo richiesti per l’in house providing.

Con la sopraindicata pronuncia la Corte ha affrontato la questione della possibilità di affidamento diretto in tali situazioni, ammettendolo ove il socio privato sia stato scelto secondo criteri e regole stabilite anche dal Consiglio di Stato con la sentenza n. 1555/2009 (caso SIAN) e nell’Adunanza Plenaria n. 1 del 2008.

La Corte ha chiarito, in particolare, che gli articoli 43, 49 e 86 del Trattato CE non ostano all’affidamento diretto di un servizio pubblico che preveda l’esecuzione preventiva di determinati lavori a una società a capitale misto, pubblico e privato, costituita specificamente al fine di fornire e gestire il servizio idrico integrato e con oggetto sociale esclusivo, nella quale il socio privato sia selezionato mediante una procedura ad evidenza pubblica, previa verifica dei requisiti finanziari, tecnici, operativi e di gestione riferiti al servizio da svolgere e delle caratteristiche dell’offerta in considerazione delle prestazioni da fornire, a condizione che detta procedura di gara rispetti i principi di libera concorrenza, di trasparenza e di parità di trattamento imposti dal Trattato per le concessioni.

In effetti, secondo i giudici di Lussemburgo – dato che i criteri di scelta del socio privato si riferiscono non solo al capitale da quest’ultimo conferito ma anche alle capacità tecniche di tale socio e alle caratteristiche della sua offerta in considerazione delle prestazioni specifiche da fornire e dal momento che al socio in questione viene affidata, come nella fattispecie di cui alla causa principale, l’attività operativa del servizio di cui trattasi e, pertanto, la gestione di quest’ultimo – si può ritenere che la scelta del concessionario risulti indirettamente dalla scelta del socio medesimo effettuata al termine di una procedura che rispetti i principi del diritto comunitario, cosicché non si giustificherebbe una seconda procedura di gara ai fini della scelta del concessionario. Il ricorso in tale situazione a una duplice procedura, in primo luogo, per la selezione del socio privato della società a capitale misto e, in secondo luogo, per l’aggiudicazione della concessione a detta società, sarebbe tale da disincentivare gli enti privati e le autorità pubbliche dalla costituzione di partenariati pubblico-privati istituzionalizzati, come quelli di cui alla causa principale, a motivo dei tempi di realizzazione di tali gare e dell’incertezza giuridica per quanto attiene all’aggiudicazione della concessione al socio privato previamente selezionato.

Si precisa, infine, che una società a capitale misto deve mantenere lo stesso oggetto sociale durante l’intera durata della concessione e che qualsiasi modifica sostanziale del contratto comporterebbe un obbligo di indire una gara38.

V. L’abrogazione referendaria dell’art. 23-bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112 e la nuova disciplina dei servizi pubblici locali introdotta dall’art. 4 del decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138

Al momento della richiesta del referendum, svoltosi il 12 e 13 giugno 2011, il quadro normativo dei servizi pubblici locali di rilevanza economica era ben delineato. La materia era regolata da una parte dall’art. 23-bis del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, dall’altra, dal regolamento di attuazione approvato con d.P.R. 7 settembre 2010, n. 168.

La ratio del sopracitato art. 23-bis era quella di favorire la gestione dei servizi pubblici locali di rilevanza economica da parte di soggetti scelti a seguito di gara ad evidenza pubblica. A tal fine, si limitavano i casi di affidamento diretto della gestione solamente a casi eccezionali, che non consentivano un efficace e utile ricorso al mercato. La norma si applicava “a tutti i servizi pubblici locali”, prevalendo sulle discipline di settore incompatibili, salvo quelle relative ai quattro cosiddetti “settori esclusi” (distribuzione di gas naturale, distribuzione di energia elettrica, gestione delle farmacie comunali, trasporto ferroviario regionale).

Inoltre, la norma specificava che il già previsto affidamento diretto della gestione del servizio pubblico locale a società a capitale misto pubblico e privato (nel caso di scelta del socio privato mediante procedure competitive ad evidenza pubblica) costituiva anch’esso un caso di conferimento della gestione “in via ordinaria” e introduceva alcune condizioni per l’affidamento diretto alle società miste. In particolare, la procedura di gara doveva essere a doppio oggetto (relativa sia alla qualità di socio che all’attribuzione di specifici compiti operativi connessi alla gestione del servizio) e al socio privato – scelto mediante procedura ad evidenza pubblica – doveva essere attribuita una partecipazione non inferiore al 40 per cento.

L’art. 23-bis disciplinava, inoltre, gli altri casi in cui era possibile l’affidamento diretto in deroga ai conferimenti effettuati in via ordinaria, stabilendo la necessità sia di una previa adeguata pubblicità sia di una motivazione dell’ente in base a un’analisi di mercato, con trasmissione di una relazione da parte dell’ente all’Autorità garante della concorrenza e del mercato, per un parere obbligatorio (ma non vincolante) da rendere entro 60 giorni dalla ricezione39.

Infine, la norma precisava che tale ultima modalità di affidamento diretto era consentita, secondo la gestione “cosiddetta in house”, alle condizioni che già la legittimavano (capitale interamente pubblico, controllo analogo, prevalenza dell’attività in favore dell’ente o degli enti pubblici controllanti) ma solo ove vi fosse l’ulteriore condizione della ricorrenza di “situazioni eccezionali che, a causa di peculiari caratteristiche economiche, sociali, ambientali e geomorfologiche del contesto territoriale di riferimento, non permettono un efficace e utile ricorso al mercato”.

Per il servizio idrico integrato un’apposita disposizione prevedeva che tutte le forme di affidamento della gestione del servizio di cui al citato art. 23-bis “devono avvenire nel rispetto dei principi di autonomia gestionale del soggetto gestore e di piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche, in particolare in ordine alla qualità e prezzo del servizio, in conformità a quanto previsto dal decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, garantendo il diritto alla universalità ed accessibilità del servizio”.

Il quadro normativo sopra delineato si rompe a seguito dell’esito referendario.

Con il d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113, l’art. 23-bis, nella versione risultante a seguito della sentenza della Corte costituzionale n. 325/2010, viene abrogato con conseguente caducazione del regolamento approvato con d.P.R. n. 168/2010, adottato sulla base della norma di delega contenuta nel comma 10 del medesimo articolo.

L’assetto che ne consegue immediatamente è quello delineato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24/2011, secondo la quale non rivivono le norme abrogate dall’art. 23-bis ma si applica direttamente quanto previsto dalla normativa comunitaria. Di conseguenza, l’in house, pur rimanendo modalità eccezionale di affidamento del servizio40, è consentito in favore di società a capitale interamente pubblico previa sussistenza del controllo analogo e del carattere prevalente dell’attività e senza i vari limiti posti dall’art. 23-bis.

Come già rilevato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 325/2010, la normativa comunitaria ammette la gestione diretta dei servizi pubblici nel caso in cui lo Stato nazionale ritenga che l’applicazione delle regole di concorrenza ostacoli, di diritto o di fatto, la “speciale missione” dell’ente pubblico41. In tale ipotesi l’ordinamento comunitario, rispettoso dell’ampia sfera discrezionale attribuita in proposito agli Stati membri, si riserva solo di sindacare se la decisione dello Stato sia frutto di un errore manifesto.

Per quanto riguarda le società miste, che nel diritto comunitario si inquadrano nel fenomeno del partenariato pubblico-privato istituzionalizzato, il modello della cosiddetta gara a doppio oggetto (riguardante sia la qualità di socio che la gestione del servizio), in cui la società viene costituita per una specifica missione in base a una gara che ha ad oggetto la scelta del socio e l’affidamento della specifica missione (ipotesi diversa da quella, diversa e non consentita, in cui si intendono affidare direttamente ulteriori appalti a una società mista già costituita), è stato ammesso dalla Corte di Giustizia CE, la quale, a sua volta, ha aderito alla comunicazione interpretativa della Commissione europea in data 5 febbraio 2008 “sull’applicazione del diritto comunitario degli appalti pubblici e delle concessioni ai partenariati pubblico-privati istituzionalizzati (PPPI)”.

Pertanto, risulta ammissibile l’affidamento a una società mista previa gara a doppio oggetto e senza alcuna previsione di percentuali di partecipazione (pubblica o privata).

Tuttavia, a seguito del referendum viene meno sia il regime transitorio, ossia le scadenze per la cessazione degli affidamenti non conformi alla nuova disciplina e il processo di privatizzazione previsto, nonché la disposizione transitoria che consentiva alle società quotate in borsa e affidatarie dirette di un servizio di proseguire il rapporto, se privatizzate, fino alla naturale scadenza e, in caso di mancata privatizzazione, comunque fino al 2013 o al 2015.

Vengono meno, infine, le disposizioni del regolamento di cui al d.P.R. n. 168/2010, tra cui di rilievo quelle sui puntuali criteri per la disciplina delle gare, comprese quelle a doppio oggetto in tema di società miste, sulle cause di incompatibilità tra le funzioni di affidamento e di regolazione dei servizi pubblici e quelle di gestione e sull’obbligo per le società “in house” e miste di seguire procedure concorsuali. Non vengono invece investite dall’esito referendario e restano valide le discipline di settore inerenti la distribuzione del gas e dell’energia elettrica, il trasporto ferroviario regionale e la gestione delle farmacie comunali, già escluse dall’applicazione dell’art. 23-bis42.

Successivamente al referendum, viene emanato il D.L. n. 138 del 13 agosto 2011 recante “ulteriori misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo sviluppo” che contiene, all’art. 4, una disciplina dei servizi pubblici locali di rilevanza economica. La norma viene parzialmente modificata, in sede di conversione, avvenuta con la legge 14 settembre 2011, n. 148, e anche recentemente, dall’art. 25 del decreto-legge n. 1/2012.

Sostanzialmente, il sopracitato art. 4 riprende parte dell’art. 23-bis e legifica, con alcune modifiche, molte delle norme di cui al d.P.R. n. 168/2010, con due differenze di fondo: a) la nuova normativa non si applica al servizio idrico integrato (con la sola eccezione delle disposizioni in tema di incompatibilità) oltre che ai soliti settori esclusi, quali il servizio di distribuzione di gas naturale e quello di energia elettrica, il servizio di trasporto ferroviario e la gestione delle farmacie comunali; b) in deroga alla procedura competitiva a evidenza pubblica, per i comuni sopra i 10.000 abitanti, è consentito l’affidamento a favore di società in house, a capitale interamente pubblico e in presenza dei requisiti richiesti dall’ordinamento europeo, solo se il valore economico del servizio oggetto dell’affidamento è pari o inferiore alla somma complessiva di 900.000 euro annui; senza la previsione di ulteriori limiti o condizioni, per cui al di sotto di tale soglia gli enti possono gestire un servizio pubblico di rilevanza economica in regime di autoproduzione.

Tuttavia, le società “in house” affidatarie dirette della gestione di servizi pubblici locali vengono sostanzialmente equiparate a una pubblica amministrazione e, quindi, assoggettate al patto di stabilità interno secondo modalità da definire con un decreto interministeriale. Si prevede, inoltre, che gli enti locali vigilino sull’osservanza, da parte delle società affidataria al cui capitale partecipano, dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno, oltre che all’obbligo di osservare procedure ad evidenza pubblica per l’acquisto di beni e di servizi per l’assunzione del personale.

Al centro della nuova disciplina si colloca la previsione della valutazione da parte degli enti locali, tramite una delibera quadro da adottare entro il 13 agosto 2012, e poi periodicamente e in ogni caso prima di procedere al conferimento e al rinnovo della gestione dei servizi, della realizzabilità di una gestione concorrenziale dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, escludendoli da un processo di liberalizzazione, con la conseguente attribuzione di diritti di esclusiva solo se si dimostra che, in base a un’analisi di mercato, la libera iniziativa economica non sia in grado di assicurare un servizio rispondente ai bisogni della comunità. La relativa delibera ricognitiva deve essere adeguatamente pubblicizzata e inviata all’Autorità garante della concorrenza e del mercato ai fini della relazione al Parlamento di cui alla legge 10 ottobre 1990, n. 287.

 

  1. Conclusione: i nuovi contorni dell’affidamento diretto alla luce delle modifiche introdotte con il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1

Il decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, prevede al Capo V la nuova disciplina sui servizi pubblici locali.

In particolare, l’articolo 25, relativo alla promozione della concorrenza nei servizi pubblici locali, inserendo l’art. 3-bis al decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, dispone, tra l’altro, al comma 2, che a decorrere dal 2013, l’applicazione di procedure di affidamento dei servizi a evidenza pubblica da parte di Regioni, Province e Comuni o degli enti di governo locali dell’ambito o del bacino costituisce elemento di valutazione della virtuosità degli stessi ai sensi dell’articolo 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98. A tal fine, la Presidenza del Consiglio dei Ministri, nell’ambito dei compiti di tutela e promozione della concorrenza nelle Regioni e negli enti locali comunica al Ministero dell’economia e delle finanze, entro il termine perentorio del 31 gennaio di ciascun anno, gli enti che hanno provveduto all’applicazione delle procedure previste dal presente articolo. In caso di mancata comunicazione entro il termine di cui al periodo precedente, si prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosità.

Il successivo comma 3 prevede che “fatti salvi i finanziamenti ai progetti relativi ai servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi europei, i finanziamenti a qualsiasi titolo concessi a valere su risorse pubbliche statali ai sensi dell’articolo 119, quinto comma, della Costituzione sono prioritariamente attribuiti agli enti di governo degli ambiti o dei bacini territoriali ottimali ovvero ai relativi gestori del servizio selezionati tramite procedura ad evidenza pubblica o di cui comunque l’Autorità di regolazione competente abbia verificato l’efficienza gestionale e la qualità del servizio reso sulla base dei parametri stabiliti dall’Autorità stessa”.

I commi 4 e 5 del nuovo art. 3-bis disciplinano particolari vincoli alle società affidatarie in house, assoggettandole al patto di stabilità interno secondo le modalità definite dal decreto ministeriale previsto dall’articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25 luglio 2008, n. 112, convertito con legge 6 agosto 2008, n. 133, e successive modificazioni. L’ente locale o l’ente di governo locale dell’ambito o del bacino deve vigilare sull’osservanza da parte delle società di cui al periodo precedente dei vincoli derivanti dal patto di stabilità interno. Inoltre, le società affidatarie in house sono tenute all’acquisto di beni e servizi secondo le disposizioni di cui al decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163 e successive modificazioni. Le medesime società adottano, con propri provvedimenti, criteri e modalità per il reclutamento del personale e per il conferimento degli incarichi nel rispetto dei principi di cui al comma 3 dell’articolo 35 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165 nonché delle disposizioni che stabiliscono a carico degli enti locali divieti o limitazioni alle assunzioni di personale, contenimento degli oneri contrattuali e delle altre voci di natura retributiva o indennitarie e per le consulenze anche degli amministratori.

Il comma 6 introduce in materia alcune modifiche al d. lgs. 267/2000. In particolare stabilisce, tra l’altro, che l’affidamento per la gestione “in house” possa avvenire a favore di azienda risultante dalla integrazione operativa, perfezionata entro il termine del 31 dicembre 2012, di preesistenti gestioni dirette o in house tale da configurare un unico gestore del servizio a livello di ambito o di bacino territoriale ottimale ai sensi dell’articolo 3-bis, prevedendo altresì puntuali indicazioni per il relativo contratto di servizio relativamente al livello di qualità del servizio reso, al prezzo medio per utente, al livello di investimenti programmati ed effettuati e obiettivi di performance (redditività, qualità, efficienza).

Inoltre, nella versione approvata con la legge di conversione, lo stesso comma 6 abbassa sensibilmente il limite massimo del valore economico per l’affidamento del servizio a società “in house” portandolo alla somma complessiva di 200.000 euro annui.

All’indomani dell’emanazione del predetto decreto liberalizzazioni sono stati espressi alcuni commenti critici, secondo i quali il nuovo scenario vede avvantaggiati gli operatori di dimensioni maggiori. In particolare si sostiene che con il decreto suindicato “s’introducono due apparentemente innocue modifiche al decreto Letta che producono però un effetto distorsivo della concorrenza ad esclusivo vantaggio delle società quotate e delle loro controllate. Si stabilisce, infatti, che il divieto posto alla partecipazione alle gare per la distribuzione del gas alle società affidatarie dirette di servizi pubblici locali non si applichi alle società quotate in mercati regolamentati e alle società da queste direttamente o indirettamente controllate, nonché al socio opportunamente selezionato e alle società a partecipazione mista pubblica e privata. In questo modo, per le sole società quotate e per le loro controllate, il possesso di affidamenti diretti in qualsiasi servizio pubblico locale non è più un ostacolo alla partecipazione alle gare (…)43.

A prescindere dei profili di criticità della nuova disciplina, per quanto qui rileva, è possibile affermare che il nuovo quadro normativo conferma la generale tendenza a considerare il modello in house del tutto eccezionale, da attuarsi soltanto in deroga alla evidenza pubblica ed in casi specifici, secondo quando previsto dalla legge.

Mentre il legislatore nazionale, sulle orme della giurisprudenza nazionale e comunitaria, continua l’opera di rifinitura dell’istituto dell’in house providing, anche a seguito della recente riforma dei servizi pubblici locali di rilevanza economica, l’istituto, in attuazione del principio di concorrenza, assume sempre di più carattere derogatorio ed eccezionale rispetto al sistema ordinario dell’evidenza pubblica.

È evidente che la ratio della normativa comunitaria non è quella di favorire e promuovere un mercato concorrenziale, ma solo quella di garantire il rispetto della non discriminazione e trasparenza e quindi della tutela del mercato ove si decida di esternalizzare il servizio.

Mentre un primo orientamento affermava la libertà dell’ente pubblico di ricorrere a tale modello di gestione del servizio pubblico, sia per l’ammissione in sede comunitaria di tale forma di gestione, sia in base a quanto previsto dagli artt. 117 e 118 Cost., la recente evoluzione legislativa e giurisprudenziale ha chiaramente optato per l’eccezionalità del modello di autoproduzione, limitandola ai soli casi in cui l’apertura al mercato sia sostanzialmente inutile od inefficace. Invero, una prima opzione restrittiva era stata già abbracciata dall’art. 3, comma 27, della L. 244/2007. Sulla stessa linea si è posto l’art. 23-bis del D.L. 112/2008, successivamente modificato dal D.L. 135/2009, che ha expressis verbis definito l’in house come un’eccezione, ammissibile solo in casi particolari e previo parere dell’AGCM.

La nuova disciplina dell’affidamento della gestione dei servizi pubblici locali di cui al D.L. 138/2011, così come modificata dal D.L. 1/2012, conferma ulteriormente tale carattere di eccezionalità del modello in house. Tanto più che lo stesso verificarsi di situazioni particolari non autorizza l’amministrazione a disporre ipso facto l’affidamento diretto del servizio pubblico, dato che la nuova disciplina privilegia, in generale, la liberalizzazione dei servizi pubblici, lasciando – anche a seguito dell’ulteriore abbassamento del valore massimo del servizio oggetto dell’affidamento diretto – uno spazio molto ridotto alla possibilità del ricorso all’in house providing.

1 cfr. art 113, comma 5, T.U.E.L., come modificato dal d.l. n. 269/2003. In particolare, l’art. 14 del decreto-legge n. 269/2003, conv. dalla L. 24 novembre 2003, n.326, nel modificare l’art. 113, d. lgs. n. 267/2000, dopo aver previsto quale regola generale l’obbligo di indire e gestire procedure ad evidenza pubblica per la selezione della società di capitali a cui affidare il servizio pubblico locale a rilevanza economica, eccettua due casi rispettivamente contemplati dalle lett. b) e c) della previsione citata. La gara infatti non è richiesta, così consentendosi l’affidamento diretto, quando si tratta di “società a capitale misto pubblico privato nelle quali il socio privato venga scelto attraverso l’espletamento di gare con procedure ad evidenza pubblica che abbiano dato garanzia di rispetto delle norme interne e comunitarie in materia di concorrenza secondo le linee di indirizzo emanate dalle autorità competenti attraverso provvedimenti o circolari specifiche” (lett. b), ovvero di “società a capitale interamente pubblico a condizione che l’ente o gli enti pubblici titolari del capitale sociale esercitino sulla società un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che la società realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o gli enti pubblici che la controllano”: previsione, quest’ultima che richiama la nozione tipicamente comunitaria di affidamento in house.

2 Corte Giust. CE, sez. V, sent. 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal Srl c. Comune di Viano e Azienda Gas – Acqua Consorziale (AGAC) di Reggio Emilia, in Urbanistica e appalti, 2000, 227.

3 Nell’appalto di pubblici servizi l’appaltatore esegue la sua prestazione a favore dell’ente pubblico, mentre nella concessione il concessionario si sostituisce all’ente nell’esercizio dell’attività propria destinata al pubblico.

4 cfr. CARINGELLA, F. Manuale di diritto amministrativo, 4° ed., p. 407.

5 Si veda Cons. Stato, sez. VI, 23 settembre 2008, n. 4603, in Foro amm. CdS, 2008, 2506, con esplicito richiamo agli artt. 1, comma 2, e 32 del d.lgs. 12 aprile 2006, n. 163, che contemplano il caso di società miste per la realizzazione di lavori pubblici e per la realizzazione e/o gestione di un’opera pubblica.

Una specifica definizione di partenariato pubblico privato (P.P.P.) la si trova ora nell’art. 3, comma 15-ter, del d.lgs. n. 163/2006, secondo cui “Ai fini del presente codice, i «contratti di partenariato pubblico privato» sono contratti aventi per oggetto una o più prestazioni quali la progettazione, la costruzione, la gestione o la manutenzione di un’opera pubblica o di pubblica utilità, oppure la fornitura di un servizio, compreso in ogni caso il finanziamento totale o parziale a carico di privati, anche in forme diverse, di tali prestazioni, con allocazione dei rischi ai sensi delle prescrizioni e degli indirizzi comunitari vigenti. Rientrano, a titolo esemplificativo, tra i contratti di partenariato pubblico privato la concessione di lavori, la concessione di servizi, la locazione finanziaria, l’affidamento di lavori mediante finanza di progetto, le società miste. Possono rientrare altresì tra le operazioni di partenariato pubblico privato l’affidamento a contraente generale ove il corrispettivo per la realizzazione dell’opera sia in tutto o in parte posticipato e collegato alla disponibilità dell’opera per il committente o per utenti terzi. Fatti salvi gli obblighi di comunicazione previsti dall’articolo 44, comma 1-bis del decreto-legge 31 dicembre 2007, n. 248, convertito, con modificazioni, dalla legge 28 febbraio 2008, n. 31, alle operazioni di partenariato pubblico privato si applicano i contenuti delle decisioni Eurostat”.

6 Corte Giust. CE: 6 aprile 2006, C-410/04, Anav, in Guida al diritto, 2006, 17, 116; 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen, in questa Rivista, 2006, 31; 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, in Foro amm. CdS, 2004, 3023. Cons. Stato, ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1, in questa Rivista, 2008, 1008, secondo cui “i principi generali del Trattato valgono comunque anche per i contratti e le fattispecie diverse da quelle concretamente contemplate; quali (oltre alla concessione di servizi) gli appalti sottosoglia e i contratti diversi dagli appalti tali da suscitare l’interesse concorrenziale delle imprese e dei professionisti (ad esempio, le concessioni di beni pubblici di rilevanza economica…)”. Secondo Cons. Stato, sez. VI, 21 maggio 2009, n. 3145, in questa Rivista, 2009, 1209, commentata da G. Mangialardi, i principi costituzionali e comunitari impongono anche per le concessioni demaniali marittime il rispetto dei principi di parità di trattamento, non discriminazione e par condicio; con il conseguente obbligo dell’amministrazione, in sede di rinnovo di una concessione, di procedere alla valutazione comparativa delle domande concorrenti.

7 I principi del Trattato applicati nelle pronunce della Corte di giustizia, al pari dei regolamenti e delle direttive e delle decisioni della commissione, hanno efficacia diretta nell’ordinamento interno degli Stati membri e vincolano il giudice nazionale alla disapplicazione delle norme interne con esse configgenti (C.G.A. Sicilia, 25 maggio 2009, n. 470, in Foro amm. CdS, 2009, 5 1384).

8 cfr. CGCE, sentenza 18 novembre 1999, C-107/98 Teckal.

9 CGCE, sentenza 6 aprile 2006, C-410/04.

10 v. Consiglio di Stato, sez. II, 18 aprile 2007, n. 456 e Consiglio di Stato – Adunanza Plenaria n. 1/2008.

11 Cfr. CGCE 27 febbraio 2003, causa C-373/00 Adolf Truley GmbH c. Bestattung Wien GmbH.

12 CGCE 11 maggio 2006, causa C-340-4.

13 CGCE 10 aprile 2008 causa C-323/07.

14 sentenza sez. III, 4 gennaio 2008, n. 52.

15 Cfr.: CGCE, sez. II, 19 aprile 2007, C-295/05, Asociaciòn Nacional de Empresas Forestales c. Transformaciòn Agraria SA (TRASGA); 21 luglio 2005, C-231/03, Consorzio Coname; 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle.

16 Consiglio di Stato, sez. V, 13 luglio 2006, n. 4440.

17 CGCE, 11 maggio 2006, C-340/04.

18 CGCE, sentenza 10 novembre 2005, C-29/04, Mödling o Commissione c. Austria; CGCE sentenza 13 ottobre 2005, C-458/03, Parking Brixen.

19 Cons. Stato, sez. VI, 1 giugno 2007, n. 2932 e 3 aprile 2007, n. 1514.

20 Cons. Stato, sez. V, 30 agosto 2006, n. 5072.

21 Cons. Stato, sez. VI, 3 aprile 2007, n. 1514.

22 Cons. Stato, sez. V, 8 gennaio 2007, n. 5.

23 C. giust. CE, 11 maggio 2006, C-340/04, società Carbotermo e Consorzio Alisei c. Comune di Busto Arsizio.

24 Cons. Giust. Amm. Sic. 4 settembre 2007, n. 719.

25 Consiglio di Stato sez. V, 9 marzo 2009 n. 1365 e 3 febbraio 2009 n. 591.

26 cfr. sentenze CGCE Parking Brixen, punto 65, e 11 maggio 2006, causa C 340/04, Carbotermo e Consorzio Alisei.

27 ad esempio, i consorzi di cui all’art. 31 del D.Lgs. n. 267/2000.

28 v. C.d.S., Sez. V, 24 settembre 2010, n. 7092; 26 agosto 2009, n. 5082; 9 marzo 2009, n. 1365.

29 Caringella F., Manuale di diritto amministrativo, 4° ed., p. 615.

30 Cfr. Consiglio di Stato, sez. VI, 16 marzo 2009, n. 1555.

31 CGCE sez. II, 17 luglio 2008, causa C-371-05.

32 CGCE 11 maggio 2006, causa C-340-04.

33 R. GAROFOLI- M.A. SANDULLI, Il nuovo diritto degli appalti pubblici dopo la direttiva unificata n. 18/2004, Giuffrè.

34 cfr. D. Casalini, L’organismo di diritto pubblico e l’organizzazione in house, Napoli, 2003, 247 ss.; Galesi, in Urb. e app., 2004, cit. Cfr., anche, A. Annibali, Gli affidamenti “in house”: dal diritto comunitario ai servizi pubblici locali, in www.giust.it. In giurisprudenza, cfr., Corte di giustizia CE, sent. 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal srl c. Comune di Vaiano e Azienda gas-acqua consorziale di Reggio Emilia, in www.europa.eu.int, 51, ove si afferma che può eccezionalmente derogarsi alla regola che impone alle amministrazioni aggiudicatici l’osservanza delle procedure di aggiudicazione di appalti allorché l’ente locale “eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti locali che la controllano”.

35 Cfr. Caringella F., Manuale di diritto amministrativo, 4° ed., pp. 627-628.

36 CGCE, 1° sez., causa C-26/03, avente ad oggetto una domanda di pronuncia pregiudiziale sottoposta alla Corte, ai sensi dell’art. 234 CE, dall’Oberlandesgericht Naumburg (Germania) con ordinanza in data 8 gennaio 2003, nella causa tra: Stadt Halle, RPL Recyclingpark Lochau GmbH, e Arbeitsgemeinschaft Thermische Restabfall- und Energieverwertungsanlage TREA Leuna.

37 CGCE, 15 settembre 2009, causa C-196/08.

38 v., in tal senso, sentenza 19 giugno 2008, causa C-454/06, pressetext Nachrichtenagentur, Racc. pag. I-4401, punto 34.

39 decorso il termine di 60 giorni dalla ricezione della relazione, il parere, se non reso, si intendeva espresso in senso favorevole.

40 Cons. Stato, ad. plen., 3 marzo 2008, n. 1, in Urbanistica e appalti, 2008, 1008.

41 cfr. art. 106 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea; sentenze della Corte di giustizia UE 11 gennaio 2005, C-26/03, Stadt Halle, punti 48 e 49, e 10 settembre 2009, C-573/07, Sea s.r.l.

42 Volpe, Carmine. “Appalti pubblici e servizi pubblici. Dall’art. 23-bis al decreto legge manovra di agosto 2011 attraverso il referendum: l’attuale quadro normativo”, relazione tenuta al convegno su “Appalto pubblico: chance di sviluppo efficiente” svoltosi a Ravello il 14 e 15 ottobre 2011.

43 Tratto da: Arnese Michele, ItaliaOggi n. 59 del 9/3/2012, p. 8.

Gavasci Riccardo

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