Nei confronti della sentenza di primo grado che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammessa l’impugnazione della parte civile che lamenti l’erronea applicazione della prescrizione

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(Annullamento con rinvio)

Il fatto

A seguito di querela, presentata da M.F., P.C. veniva tratta a giudizio dinanzi al Tribunale di Roma per i reati di cui all’art. 81 cpv. c.p., art. 616 c.p., commi 1 e 2, perchè “al fine di prendere cognizione del contenuto di corrispondenza chiusa a lei non diretta e, senza giusta causa, rivelandone il contenuto nell’ambito del giudizio civile di separazione instaurato presso il Tribunale di Roma, sottraeva a M.F., rispettivamente, una missiva contenente un estratto conto al 31/12/2007 della A., società di gestione del risparmio, ed una missiva contenente la bolletta per il pagamento della tariffa igiene ambientale della società H. S.p.a.”.

Il Tribunale, con sentenza del 16 luglio 2015, dopo avere escluso, pur senza darne atto in dispositivo, la sussistenza del più grave reato previsto dall’art. 616 c.p., comma 2, sul presupposto che la rivelazione era avvenuta per giusta causa, riteneva, invece, dimostrate le condotte di dolosa sottrazione della corrispondenza di cui al comma 1 del medesimo articolo; tuttavia, dichiarava l’improcedibilità per tale reato relativamente alla sottrazione della missiva contenente l’estratto conto al 31 dicembre 2007 dell’A. in quanto estinto per intervenuta prescrizione (il dies a quo veniva fatto decorrere “in prossimità del gennaio 2008” tenuto conto che tale era stato il mese di emissione della missiva) e assolveva l’imputata in ordine alla residua condotta, in quanto non punibile in ragione della particolare tenuità del fatto di cui all’art. 131 bis c.p..

Avverso questa decisione proponeva appello la parte civile lamentando, da un lato, l’erroneità del computo dei termini di prescrizione, e, dall’altro, la non correttezza della dichiarazione di non punibilità per la particolare tenuità del fatto; chiedeva, pertanto, il riconoscimento della responsabilità penale dell’imputata per il reato di cui all’art. 616 c.p., commi 1 e 2, e la condanna della stessa al risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale, oltre ai relativi interessi ed al pagamento delle spese di rappresentanza e giudizio sostenute in entrambi i gradi.

In relazione alla prima doglianza, l’appellante rappresentava che nell’individuare, nel gennaio 2008, il dies a quo ai fini del calcolo dei termini della prescrizione breve, il Tribunale era incorso in un vizio di motivazione: in particolare, lamentava che, sulla base del fatto che “la missiva era del 2008”, il giudice di primo grado era giunto alla conclusione come la relativa sottrazione fosse avvenuta in prossimità di tale data non tenendo tuttavia conto della circostanza, notoria, che la documentazione afferente qualsivoglia estratto conto viene recapitata solitamente in un periodo di tempo mai immediatamente successivo alla sua elaborazione fermo restando che non aveva inoltre considerato che, solo nel gennaio 2009, il M. aveva lasciato l’abitazione e che, pertanto, solo da quel momento sarebbe stato agevole per l’imputata impossessarsi di una corrispondenza solitamente controllata dal coniuge.

Oltre a ciò, si faceva presente che l’estratto conto A. era stato allegato alla memoria integrativa depositata agli atti del giudizio civile di separazione solo in data 28 aprile 2009, pur avendo l’imputata già presentato ricorso di separazione in data 19 marzo 2008 e depositato note autorizzate in data 15 ottobre 2008.

Dovendo, quindi, collocarsi la condotta di sottrazione in un periodo successivo al gennaio del 2009, ad avviso dell’appellante, non poteva ritenersi decorso al 13 marzo 2014, data di emissione del decreto di citazione diretta a giudizio, il termine prescrizionale di sei anni.

In ogni caso, per un verso, si aggiungeva che, anche a voler individuare nel gennaio 2008 il dies a quo di decorrenza della prescrizione, il Tribunale non aveva considerato che il decreto di citazione a giudizio, emesso a seguito di ordinanza del G.i.p. ex art. 409 c.p.p., comma 5, era stato preceduto dalla celebrazione (fissata con provvedimenti del 24 novembre 2010 e del 22 febbraio 2012) di due camere di consiglio tenutesi il 7 marzo 2011 e 21 maggio 2012 a seguito dell’opposizione proposta dalla parte offesa alle due richieste di archiviazione del P.M. e per le quali vi era stato il regolare inoltro degli avvisi, per altro verso, si evidenziava che nel corso del giudizio dibattimentale di primo grado del 4 febbraio 2015, il giudice, accogliendo l’istanza di legittimo impedimento del difensore dell’imputata, aveva rinviato il procedimento all’udienza del 29 aprile 2015.

Si concludeva quindi nel senso che, anche a voler ritenere, come considerato dal Tribunale, che il reato contestato si fosse consumato nel gennaio 2008, tenuto conto degli eventi interruttivi e sospensivi descritti, il reato non poteva considerarsi comunque prescritto in primo grado.

In riferimento poi alla sottrazione della missiva relativa alla “tariffa igiene urbana“, l’appellante lamentava l’impossibilità di ritenere di particolare tenuità la condotta di sottrazione della stessa giacchè rappresentante una delle molteplici attività poste in essere dalla P. per screditare il M. nel giudizio di separazione.

Da ultimo ci si lamentava dell’erroneità della dichiarata insussistenza della più grave fattispecie di cui all’art. 616 c.p., comma 2: la rivelazione era, infatti, avvenuta, al contrario di quanto ritenuto dal Tribunale, senza una giusta causa tenuto conto anche del rifiuto opposto dal giudice civile alla richiesta della P. di procedere all’acquisizione di documenti afferenti la situazione patrimoniale del marito, e di disporre una consulenza tecnica d’ufficio a tal fine ed aveva certamente arrecato nocumento, avendo posto in cattiva luce il M. nel giudizio civile.

La Corte di Appello di Roma confermava la sentenza impugnata.

In relazione allo specifico aspetto della maturata prescrizione della prima condotta delittuosa, il collegio valutava immune da censure l’individuazione del dies a quo come effettuata dal giudice di primo grado e reputava non idoneo a produrre effetto interruttivo il decreto di fissazione dell’udienza in camera di consiglio per decidere in ordine all’opposizione alla richiesta di archiviazione ex art. 409 c.p.p. poichè l’ordinanza di archiviazione emessa il 2 febbraio 2010 in seguito ad opposizione a richiesta di archiviazione aveva riguardato il diverso reato di cui all’art. 572 c.p..

Ad avviso della Corte d’appello, quindi, la prima ipotesi di reato era prescritta già all’epoca della sentenza di primo grado.

I motivi formulati nel ricorso per Cassazione

Avverso la suddetta pronuncia proponeva ricorso per cassazione la parte civile, tramite il proprio difensore, lamentando con un unico motivo inosservanza e erronea applicazione della legge penale, in particolare degli artt. 157 e 160 c.p., ai sensi dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b), evidenziando il travisamento degli atti del processo in cui sarebbe incorso il collegio là dove aveva fondato l’esclusione dell’esistenza di atti interruttivi sulla inidoneità di uno specifico atto – il decreto di archiviazione emesso dal G.i.p. in relazione al reato di maltrattamenti – estraneo al procedimento e non aveva invece considerato, da un lato, come già a suo tempo evidenziato, i due provvedimenti del 24 novembre 2010 e del 22 febbraio 2012 di fissazione in camera di consiglio per la decisione sui due atti di opposizione alle richieste di archiviazione del P.M. e, dall’altro, l’ordinanza del G.i.p. del 18 giugno 2012 di rigetto della richiesta di archiviazione e di ordine di elevazione dell’imputazione.

Si prospettava, inoltre, anche in tal caso per la prima volta in sede di legittimità, l’esistenza di un ulteriore atto interruttivo, a norma dell’art. 160 c.p., comma 2, rappresentato dall’interrogatorio reso dall’imputata, in data 6 luglio 2011, su delega del pubblico ministero alla polizia giudiziaria, a seguito delle indagini coatte disposte dal G.i.p., evidentemente previo invito dello stesso P.M. a presentarsi per l’incombente.

Infine, si ribadiva l’intervenuta sospensione del termine di prescrizione derivante dal rinvio del dibattimento, dal 4 febbraio 2015 al 29 aprile 2015 in ragione del legittimo impedimento del difensore dell’imputata concludendosi nel senso che, ove la Corte d’appello avesse, come necessario, ritenuto non prescritto il reato, la stessa avrebbe dovuto riformare la sentenza impugnata quanto al reato di sottrazione della corrispondenza A. in punto di statuizioni civili.

La questione prospettata nell’ordinanza di rimessione

La Quinta Sezione della Corte di cassazione, con ordinanza del 21 novembre 2018, rimetteva la trattazione del ricorso alle Sezioni Unite rilevando che la giurisprudenza di legittimità avrebbe “risposto in modo divergente all’interrogativo circa la sussistenza dell’interesse della parte civile a proporre l’impugnazione della sentenza di proscioglimento dichiarativa dell’estinzione del reato per prescrizione” e che “nel caso di specie la questione si prospetta con riferimento all’impugnazione con ricorso per cassazione proposto dalla parte civile avverso la sentenza di secondo grado che ha respinto l’appello da essa proposto nei confronti della sentenza di primo grado di proscioglimento per prescrizione”.

Nell’ambito della illustrazione degli indirizzi sviluppatisi prevalentemente in relazione al giudizio d’appello, ma riferibili anche al giudizio di Cassazione, l’ordinanza di rimessione aveva evidenziato che, per un primo orientamento, a fronte della facoltà riconosciuta alla parte civile dall’art. 576 c.p.p., di proporre impugnazione avverso la sentenza di proscioglimento, dovrebbe ritenersi ammissibile anche l’appello nei confronti della sentenza dichiarativa della prescrizione sul presupposto dell’esistenza di una sentenza di proscioglimento per avvenuta prescrizione.

Più specificamente, il giudice investito dell’impugnazione, che riconosca l’erroneità della declaratoria di estinzione del reato pronunciata in primo grado, dovrebbe entrare nel merito della contestazione e provvedere sulla domanda al risarcimento ed alle restituzioni, quand’anche effettivamente maturata la prescrizione dopo la pronuncia di primo grado, nè l’assenza di un pregiudizio in sede civile delle ragioni della parte civile derivante dalla decisione di prescrizione sarebbe elemento ostativo derivando dalla legge la facoltà della stessa di tutelare i suoi interessi, oltre che in sede civile, anche in sede penale.

Sicchè se ne faceva conseguire che, ove la decisione del primo giudice non fosse stata correttamente adottata, il giudice di appello, rapportandosi al momento della decisione impugnata, e delibando sulla responsabilità dell’imputato ai soli fini civili, avrebbe dovuto decidere sulle domande civili, e ciò dovrebbe indurre a ritenere ammissibile, in tali ipotesi, anche il ricorso per cassazione.

Secondo un opposto e prevalente orientamento, che secondo l’ordinanza sarebbe corroborato anche da pronunce delle Sezioni Unite pur non intervenute sull’aspetto specifico in esame (in particolare, Sez. U, n. 25083 del 11/07/2006), in tanto sarebbero ammissibili, nell’ordinamento, statuizioni civilistiche in quanto presente un accertamento positivo della commissione del reato, così come discendente dalla previsione dell’art. 538 c.p.p., sicchè, ove ciò non fosse, i profili civilistici andrebbero devoluti alla sede propria del processo civile mentre la concretezza dell’interesse ad impugnare, necessaria, ex art. 568 c.p.p., andrebbe ricavata anche dalla finalità di evitare conseguenze extra-penali pregiudizievoli, ovvero di assicurarsi effetti extra-penali più favorevoli, restando fuori le ipotesi in cui la sentenza si sia limitata a statuire su un aspetto processuale.

Nessun interesse della parte civile potrebbe, dunque, ravvisarsi ad impugnare la sentenza di prescrizione trattandosi di deliberazione del tutto inidonea, ex art. 652 c.p.p., ad avere efficacia in sede civile posto che soltanto la sentenza penale irrevocabile di assoluzione pronunciata in seguito a dibattimento avrebbe efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno.

L’ordinanza in questione, inoltre, aveva anche dato conto dell’esistenza di un orientamento “intermedio per il quale l’interesse della parte civile, a proporre appello avverso una sentenza di primo grado che abbia dichiarato la prescrizione del reato, sussisterebbe solo nei casi in cui tale erroneità si sia tradotta in un accertamento del merito suscettibile di pregiudicare le ragioni della stessa parte civile (come, ad esempio, nel caso di applicazione della prescrizione all’esito della concessione delle attenuanti generiche).

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Le argomentazioni sostenute dalla difesa dell’imputata in sede di legittimità

In data 6 marzo 2019 perveniva memoria difensiva proposta nell’interesse dell’imputata P. nella quale, richiamandosi il disposto dell’art. 538 c.p.p., e quindi la necessità che, ai fini della pronuncia sulle statuizioni civili, vi sia stata la pronuncia di una sentenza di condanna, si postulava la non ricorrenza di un interesse giuridico concreto della parte civile all’impugnazione in sede di legittimità in ragione anche della mancanza di un pregiudizio all’esercizio dell’azione civile nella sua sede propria, e si chiedeva dunque il rigetto del ricorso, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Le valutazioni giuridiche formulate dalle Sezioni Unite

Le Sezioni Unite delimitavano innanzitutto il quesito sottoposto al loro scrutinio giudiziale nei seguenti termini: “se sia ammissibile il ricorso della parte civile avverso la sentenza che, su impugnazione di detta parte, abbia confermato la pronuncia di primo grado che, senza entrare nel merito, abbia dichiarato l’estinzione del reato per prescrizione”.

Premesso ciò, si evidenziava come il ricorso proposto dalla parte civile avesse per oggetto la statuizione della sentenza della Corte di appello di Roma di conferma della declaratoria di improcedibilità per estinzione del reato a seguito di prescrizione relativamente all’addebito di sottrazione della corrispondenza relativa all’estratto conto della società A. sicchè assumeva evidente rilievo, a parere della Corte, la questione in oggetto senza che, per vero, l’ulteriore precisazione formulata dall’ordinanza di rimessione circa il fatto che la sentenza impugnata non era entrata nel merito potesse dirsi pertinente alla fattispecie in esame: al contrario, come emergente dalla ricostruzione dell’iter processuale, sempre secondo la Corte, il Tribunale di Roma aveva chiaramente affermato essere stata dimostrata “la dolosa sottrazione della corrispondenza (…) come da deposizione puntuale ed attendibile della parte civile, confermata dalla documentazione in atti”, in tal modo avendo indubitabilmente svolto nette valutazioni di merito.

Si riteneva altresì come l’ambito della questione devoluta dovesse essere dilatato, per ragioni di coerente trattazione sistematica, sino a coinvolgere in generale la valutazione della “impugnazione” in generale svolta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento (ivi compreso dunque l’atto di appello) come del resto imposto dalla semplice notazione che molte, se non tutte, delle pronunce richiamate dalla Sezione remittente coinvolte dal contrasto segnalato, avevano riguardato il profilo dell’ammissibilità del solo gravame di merito.

Dopo aver fatto questa precisazione, si reputava necessario delimitare gli esatti termini del contrasto che si sarebbe nel tempo formato sullo specifico profilo dell’ammissibilità o meno dell’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di proscioglimento motivata dalla rilevata prescrizione del reato.

Nel far ciò, si faceva presente che un primo indirizzo, che appare compiutamente rappresentato da Sez. 2, n. 9263 del 02/02/2012, era pervenuto ad esito affermativo muovendo dal contenuto della disposizione dell’art. 576 c.p.p. e dal suo distinto ambito applicativo e funzionale rispetto a quello di cui all’art. 538 c.p.p. posto che è stato asserito che la prima norma contempla la possibilità, per la parte civile, di impugnare, oltre ai capi della sentenza di condanna riguardanti l’azione civile, anche la sentenza di assoluzione sebbene ai soli effetti della responsabilità civile ed anche in assenza di gravame da parte del pubblico ministero facendone discendere da ciò la conseguenza che, pur non potendo essere intaccata la decisione del profilo penale in mancanza di impugnazione della parte pubblica, può tuttavia essere rinnovato l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria onde ottenere un diverso accertamento che rimuova quello preclusivo del successivo esercizio dell’azione civile o che sia, comunque, pregiudizievole per gli interessi della parte civile. In tal senso dunque, venendo resa possibile la richiesta di affermazione della responsabilità penale ai soli effetti civili, l’art. 576 c.p.p., rappresenterebbe una deroga rispetto a quanto stabilito dall’art. 538 c.p.p. laddove si stabilisce che la decisione sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno presuppone necessariamente una pronuncia di condanna (di recente, espressamente in tal senso, Sez. 3, n. 12255 del 29/11/2018) mentre non rileverebbe in senso contrario lo sdoppiamento, originato dalla intangibilità del dictum penale, di per sè insensibile alle doglianze della sola parte civile, della res iudicanda in due diversi ambiti (ovvero quello strettamente penale e quello, invece, circoscritto alle statuizioni civili) fino a dar luogo a possibili differenti decisioni potenzialmente in contrasto tra loro quanto al presupposto della sussistenza di un illecito penale.

Di qui, allora, ritenuto anche del tutto diverso e, dunque, non ostativo, il piano applicativo dell’art. 578 c.p.p. (condizionato, infatti, segnatamente, alla intervenuta pronuncia di una sentenza di condanna, alla mancata coesistenza, con l’impugnazione dell’imputato, della impugnazione agli effetti civili, e alla intervenuta declaratoria di estinzione del reato per amnistia o prescrizione da parte del giudice del gravame), la riconosciuta facoltà della parte civile di impugnare la sentenza, che abbia erroneamente dichiarato la prescrizione attesa la lettera dell’art. 576 c.p.p. e la inclusione, tra le sentenze di proscioglimento, anche di quelle dichiarative dell’estinzione del reato fermo restando che, a fronte di ciò, sarebbe inoltre incongruo, onde pervenire ad esiti opposti, valorizzare la mancanza di alcun effetto pregiudizievole per la parte civile derivante dal giudicato penale sulla prescrizione, effetto non contemplato in alcun modo dal codice, sì che la stessa potrebbe comunque riproporre la domanda in sede civile la legge, infatti, avrebbe concesso al danneggiato la possibilità di perseguire indifferentemente i propri interessi sia in sede civile che in sede penale, non spettando dunque al giudice l’indicazione su quale via seguire.

Chiarito questo primo approdo ermeneutico, gli ermellini osservavano come l’ordinanza di rimessione avesse contrapposto altro indirizzo che sarebbe pervenuto, invece, ad escludere la facoltà della parte civile di impugnazione delle sentenze dichiarative di estinzione del reato per prescrizione pur dovendosi precisare che, all’interno di tale orientamento, appariva tuttavia necessario distinguere tra le pronunce che hanno espresso, in fattispecie di segno analogo a quelle esaminate dal primo indirizzo, assunti effettivamente non conciliabili con Sez. 2, n. 9263 del 02/02/2012, e le pronunce che, invece, non appaiono annoverabili come espressione di affermazioni di segno effettivamente contrario.

Difatti, nel primo senso (di effettiva differenziazione rispetto all’indirizzo favorevole all’ammissibilità dell’impugnazione della parte civile), vanno ricondotte, ad avviso della Corte, quelle decisioni che, sia pure con diverse sfumature e a fronte di situazioni processuali non del tutto omologabili a quella di cui al presente giudizio (caratterizzata, come visto, dalla lamentata prescrizione dichiarata in primo grado e confermata in grado di appello), avevano fatto leva essenzialmente su due ordini di considerazioni: da un lato, la dichiarata “primazia” dell’art. 538 c.p.p. che, impedendo al giudice di delibare sulla domanda civile al di fuori dei casi di condanna, dovrebbe prevalere sulla disposizione dell’art. 576, che consente alla parte civile di impugnare le sentenze di proscioglimento, e, dall’altro, la mancanza di alcun effetto pregiudizievole derivante alla parte civile dalla sentenza di prescrizione (così, Sez. 6, n. 19540 del 21/03/2013; Sez. 4, n. 3789 del 19/01/2016 e, sia pure solo con riguardo al secondo profilo, Sez. 2, n. 952 del 28/11/2017; Sez. 4, n. 18384 del 20/12/2017, dep. 2018).

Quanto al primo aspetto, si denotava come sarebbe del tutto asistematica una soluzione interpretativa che finisse per consentire alla parte civile di ottenere dal giudice dell’impugnazione una statuizione sulla propria domanda vietata invece al giudice di primo grado mentre, con riguardo al secondo, veniva sottolineato, ricordando l’arresto di Sez. U civ., n. 1768 del 26/01/2011, come la sentenza che deliberi la prescrizione del reato in primo grado non faccia stato nel giudizio civile per le restituzioni e per il risarcimento del danno ai sensi dell’art. 652 c.p.p., trovando applicazione tale norma unicamente nel caso di sentenza irrevocabile di assoluzione pronunciata a seguito di dibattimento per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima, nè tale secondo argomento sarebbe superabile sul presupposto della libera facoltà riconosciuta per legge alla parte civile di individuare la sede (penale o civile) nella quale esercitare le proprie pretese giacchè, così ragionando, pare di comprendere, si tutelerebbe una “mera preferenza di fatto per un certo iter processuale” (Sez. 6, n. 19540 del 21/03/2013).

Preso atto di ciò, si metteva in risalto il fatto come risultassero invece estranee alla tematica rimessa alle Sezioni Unite, seppure menzionate nell’ordinanza di rimessione, le pronunce di Sez. 6, n. 37034 del 18/06/2003 di declaratoria di inammissibilità del ricorso di parte civile perchè, quest’ultimo, “esclusivamente riguardante la qualificazione giuridica del fatto e quindi l’aspetto penale della vicenda e la connessa responsabilità penale” (ovvero profili pacificamente estranei all’area di sindacabilità conferita alla parte civile impugnante), di Sez. 6, n. 27658 del 24/06/2011 perchè, in realtà, riguardante il ricorso della persona offesa nei confronti di decreto di archiviazione per prescrizione valutato inammissibile giacchè non sorretto da concreto ed attuale interesse rispetto alla invocata sollecitazione di indagini inconciliabili con la intervenuta prescrizione, e di Sez. 4, n. 33452 del 17/06/2011 di inammissibilità del ricorso avverso la sentenza di prescrizione semplicemente perchè parificato al ricorso avverso la sentenza di estinzione per remissione di querela, senza ulteriori specificazioni.

Si rilevava al contempo la sussistenza di un ulteriore indirizzo, definito dall’ordinanza di rimessione come “intermedio” che, pur prendendo le mosse dalle considerazioni svolte dall’orientamento “affermativo“, parrebbe introdurre una variante volta a “conciliare” le due diverse prospettive fin qui esaminate; si tratta, segnatamente, delle affermazioni contenute nella pronuncia di Sez. 6, n. 21533 del 13/03/2018 dove vengono riproposti gli enunciati di Sez. 2, n. 9263 del 02/02/2012 in ordine alla facoltà riconosciuta alla parte civile dall’art. 576 cod. proc. pen. di impugnare incondizionatamente le sentenze di proscioglimento e, tra esse, quelle “di prescrizione” e al correlato potere del giudice di appello, una volta accertata l’erroneità della declaratoria di prescrizione in primo grado, di delibare ex novo e con effetto retroattivo sia pure ai soli effetti civili, sulla responsabilità dell’imputato ribadendosi al contempo l’incongruità di ogni considerazione circa l’assenza di pregiudizio derivante alla parte civile dalla sentenza di prescrizione rientrando nell’insindacabile scelta della stessa la decisione circa l’esercizio delle proprie ragioni in sede civile o penale (tanto più essendo degno di tutela un tale interesse in quanto diverso il criterio di valutazione della prova, ancorato a parametri strettamente tipizzati quello proprio del processo civile, ed invece improntato al principio di atipicità quello del processo penale).

Sennonchè, si aggiungeva poi (in ciò risiedendo la variante esegetica che contraddistinguerebbe l’opzione in parola), il sindacato del giudice dell’impugnazione sarebbe possibile solo là dove l’erronea statuizione sia intervenuta per effetto e quale risultato di una valutazione del merito (come, per esempio, all’esito di una riqualificazione giuridica del fatto o della concessione delle circostanze attenuanti generiche) posto che, solo in tal modo, si realizzerebbe “quell’accertamento sulla colpevolezza e quindi nel merito suscettibile di pregiudicare le ragioni della parte civile e di legittimare così un interesse attuale e concreto a proporre appello”.

Si faceva infine menzione di un ulteriore approccio esegetico, anch’esso qualificabile come intermedio, perchè volto a contemperare le due diverse impostazioni, e di cui sono espressione Sez. 1, n. 13941 del 08/01/2015 e Sez. 2, n. 52195 del 07/10/2016 atteso che in queste pronunce in ragione della mancanza, nella sentenza di prescrizione, di un’affermazione di responsabilità che possa giustificare, secondo quanto discendente dalle previsioni degli artt. 538 e 578 c.p.p., la pronuncia sulla domanda civile, il potere di impugnazione della parte civile e quello decisorio del giudice del gravame vengono circoscritti alla sola rimozione dell’efficacia di giudicato rappresentata dalla sentenza di proscioglimento, senza che possa a ciò far seguito alcuna pronuncia sulla pretesa civilistica, suscettibile di proseguire in sede civile senza alcun pregiudizio rappresentato da un giudicato ormai rimosso.

Tanto premesso, si osservava come dovesse essere condiviso l’indirizzo affermativo della ammissibilità dell’impugnazione proposta dalla parte civile avverso la sentenza di estinzione del reato per prescrizione ove, con la stessa, si contesti la fondatezza di tale conclusione.

Nel giungere a tale conclusione giuridica, i giudici di piazza Cavour rilevavano come l’analisi della questione non potesse che muovere dal dato oggettivo rappresentato dalla previsione di cui all’art. 576, cod. proc. pen., dedicata alla “impugnazione della parte civile e del querelante” che, al comma 1, stabilisce che “la parte civile può proporre impugnazione contro i capi della sentenza di condanna che riguardano l’azione civile e, ai soli effetti della responsabilità civile, contro la sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio”.

Come già affermato in sede nomofilattica (Sez. 2, n. 9623 del 02/02/2012, omissis, cit.), osserva la Corte in questo arresto giurisprudenziale, la norma appena ricordata segna un chiaro mutamento di sistema rispetto al codice di rito del 1930: l’art. 195 del codice previgente riconosceva alla parte civile il solo potere di proporre, ove si trattasse di sentenza impugnabile dal pubblico ministero, l’impugnazione contro le disposizioni della sentenza concernenti i suoi interessi civili in caso di “condanna dell’imputato” mentre la scelta del legislatore attuale è stata nel senso di ampliare il novero delle sentenze impugnabili, inclusive, oltre che della già considerata pronuncia di condanna, anche di quella di “proscioglimento” sia pure sempre nell’ambito di una pretesa volta unicamente alla rivisitazione dei soli effetti civili, per lo stretto collegamento con la limitata legittimazione della parte privata discendente dai confini tracciati anzitutto dall’art. 74 c.p.p. tenuto conto altresì del fatto che una tale scelta, come manifestamente ricavabile dal testo della norma, appare connotarsi per l’ampio spettro privilegiato: non solo, sotto un primo profilo, la norma non opera riferimento in senso alcuno alle disposizioni degli artt. 538 e 578 c.p.p. ma, sotto un secondo profilo, neppure limita il novero e la tipologia delle sentenze “di proscioglimento” menzionate, la cui nozione deve essere ricavata dall’ambito della sezione I, dedicata appunto alla “sentenza di proscioglimento“, del capo II (Decisione) del titolo III (Sentenza) del libro VII (Dibattimento) del codice di rito e il fatto che nella cui nozione sentenza di “proscioglimento” non possano non rientrare anche le sentenze di estinzione del reato per prescrizione è affermazione già resa dalle Sezioni Unite nella decisione n. 40049 del 29/05/2008; circostanza questa, rilevata anche dalla dottrina, essendo stato postulato in sede scientifica che la formula “sentenza di proscioglimento pronunciata nel giudizio“, riferibile sia alle sentenze di non doversi procedere sia alle sentenze di assoluzione, è unicamente intesa ad escludere le sentenze di non luogo a procedere pronunciate nell’udienza preliminare.

Tal che se ne faceva discendere che, se la parte civile può impugnare le sentenze di proscioglimento e se nella sentenza di proscioglimento rientra anche la “dichiarazione di estinzione del reato” di cui all’art. 531 c.p.p., ricompreso infatti nella suddetta sezione I, la facoltà di impugnazione della parte civile non può non ricomprendere anche la sentenza di non doversi procedere per estinzione dovuta a qualsivoglia tra le cause previste dal codice penale e, tra esse, dunque, anche quella della prescrizione del reato ex art. 157 c.p..

Da questa prima significativa considerazione gli ermellini ne facevano discendere una divergenza rispetto ad uno degli argomenti su cui fa leva l’orientamento negativo in quanto: pur non potendo obliterare l’evidenza del dato normativo appena ricordato, l’impostazione menzionata finisce implicitamente per annullarne il contenuto sulla scorta della necessità di “coordinarne” l’ambito applicativo con la previsione dell’art. 538 c.p.p., da un lato, e dell’art. 578 c.p.p., dall’altro, senza che, però, di un tale coordinamento (che in realtà finisce per coincidere con una vera e propria “soccombenza” di uno dei due “poli” normativi considerati) vengano fornite ragioni giuridiche persuasive posto che gli arresti espressione di un tale indirizzo avevano sostenuto che l’interpretazione che consentisse di ritenere la parte civile legittimata ad impugnare la sentenza “di prescrizione” presupporrebbe la possibilità per il giudice di appello di esercitare poteri non riconosciuti neppure al giudice di primo grado il cui ambito di fisiologica “attribuzione” a decidere sulle questioni civili (ovvero su restituzioni e risarcimento del danno) non potrebbe mai prescindere dalla sussistenza di una “pronuncia di condannaex art. 538 c.p.p.: mancando, dunque, una pronuncia di condanna in primo grado, neppure il giudice di appello potrebbe decidere sulle questioni civili già inibite al giudice di primo grado.

Tuttavia, le Sezioni Unite osservavano in tale decisum che tale incongruenza sistematica non appariva in realtà essere sussistente: e ciò non tanto e non solo in ragione di una prevalenza della previsione dell’art. 576 c.p.p., sull’art. 538 c.p.p., in quanto “di natura derogatoria” la prima sulla seconda ma, soprattutto, per effetto della necessità di tenere conto dei diversi ambiti applicativi delle due norme che, in realtà, unitamente considerate, come necessario, convergono nel delineare un sistema che, proprio là dove la sentenza di condanna sia mancata per effetto di una denunciata erronea affermazione di intervenuta prescrizione del reato, consente alla parte civile di ottenere rimedio in sede di impugnazione sia pure sempre ai soli effetti civili; in altri termini, proprio in ragione del fatto che il giudice penale può decidere sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno solo quando pronuncia sentenza di condanna, deve ritenersi che la parte civile sia legittimata a proporre impugnazione contro la sentenza di proscioglimento o di assoluzione pronunziata nel giudizio attesi che la stessa può invocare l’adozione di quell’accertamento di responsabilità, non rivestito delle forme della “condanna” perchè funzionale al solo accoglimento della domanda di restituzione o di risarcimento del danno, e la conseguente decisione sulla pretesa civilistica non pronunciate dal giudice per effetto della erronea ritenuta estinzione del reato rilevandosi al contempo che il fatto che tale debba essere la conclusione da adottare si traeva dagli stessi ragionamenti svolti dalla decisione delle Sezioni U, n. 25083 del 11/07/2006 che si era occupata soprattutto del rapporto tra gli artt. 576 e 578 c.p.p. (peraltro citata, oltre che dall’indirizzo “affermativo” anche, paradossalmente, da quello “negativo“): in questa pronuncia si era affermato che “mentre il vigente codice di rito esclude che possa essere rivisto l’accertamento penale in mancanza di una impugnazione da parte del p.m., lo stesso codice sottolinea all’art. 576 (…) come, per effetto dell’impugnazione della sola parte civile, si possa rinnovare l’accertamento dei fatti posto a base della decisione assolutoria, al fine di valutare la sussistenza di una responsabilità per illecito e così ottenere una diversa pronunzia che rimuova quella pregiudizievole per i suoi interessi civili. In sintesi, la normativa processuale penale vigente ha scelto l’autonomia dei giudizi sui due profili di responsabilità, civile e penale, nel senso che l’impugnazione proposta ai soli effetti civili non può incidere sulla decisione del giudice del grado precedente in merito alla responsabilità penale del reo, ma il giudice penale dell’impugnazione, dovendo decidere su una domanda civile necessariamente dipendente da un accertamento sul fatto di reato e dunque sulla responsabilità dell’autore dell’illecito extracontrattuale, può, seppure in via incidentale, statuire in modo difforme sul fatto oggetto dell’imputazione, ritenendolo ascrivibile al soggetto prosciolto” e poi si aggiungeva che “il giudice dell’impugnazione, adito ai sensi dell’art. 576 c.p.p., ha, nei limiti del devoluto e agli effetti della devoluzione, i poteri che il giudice di primo grado avrebbe dovuto esercitare. Se si convince che tale giudice ha sbagliato nell’assolvere l’imputato ben può affermare la responsabilità di costui agli effetti civili e (come indirettamente conferma il disposto di cui all’art. 622 c.p.p.) condannarlo al risarcimento o alle restituzioni, in quanto l’accertamento incidentale equivale virtualmente – oggi per allora – alla condanna di cui all’art. 538 c.p.p., comma 1, che non venne pronunziata per errore” (nel medesimo senso, Sez. 1, n. 17321 del 26/04/2007, e Sez. 6, n. 41479 del 25/10/2011).

In definitiva, ad avviso della Corte, gli stessi effetti di un’interpretazione dell’art. 576 c.p.p. che, al di là del dato letterale inequivoco, finirebbe del tutto incongruamente per svilire il senso stesso della ratio e della finalità ontologica di ogni mezzo di impugnazione (ovvero, indubitabilmente, quello di correggere decisioni “erronee“) e per escludere, dunque, la legittima aspettativa della parte civile di pretendere che il giudizio penale non si arresti alla constatata prescrizione del reato ma prosegua al fine di valutare se la stessa sia stata erroneamente o meno dichiarata e di ottenere così il risultato che, con la propria costituzione, la parte civile stessa si prefiggeva, appaiono rivelatori della non condivisibilità dell’impostazione giurisprudenziale ricordata.

Oltre a ciò, veniva rilevato come non fosse neppure condivisibile il secondo degli elementi valorizzati dall’indirizzo “negativo“, per vero incidenti non tanto sul profilo della legittimazione a ricorrere (sostanzialmente racchiuso nella esegesi dell’art. 576 e dei suoi rapporti con l’art. 538), quanto sul profilo dell’interesse all’impugnazione, ovvero la affermata mancanza di effetto pregiudizievole derivante dal giudicato di prescrizione in capo alla parte civile, libera di azionare la propria pretesa in un giudizio civile nel quale la sentenza di proscioglimento per prescrizione non avrebbe alcuna efficacia, così come pianamente ricavabile, a contrario, dalla previsione di cui all’art. 652 c.p.p., (oltre che, va qui aggiunto, sempre a contrario, dalla previsione dell’art. 651 c.p.p., atteso che la sentenza di prescrizione, pur contenente un accertamento della sussistenza del fatto, non è sentenza di “condanna“), e come confermato anche, all’esito di pregresse elaborazioni divergenti sul punto, da Sez. U civ., n. 1768 del 26/01/2011 dato che la sempre salva possibilità per la parte civile di percorrere comunque, una volta definita la “vicenda penale” con esito di proscioglimento per ragioni di maturata prescrizione, la via civile senza che da tale proscioglimento possano in essa derivare ripercussioni negative, renderebbe per così dire “neutra” la declaratoria di estinzione e, allo stesso tempo, recessivo qualunque interesse della parte ad insistere nel perseguire, all’interno del giudizio penale, a mezzo di impugnazione, un diverso, più favorevole, esito fermo restando che osta tuttavia a un tale ragionamento la considerazione che, se lo stesso sistema ha riconosciuto al danneggiato la possibilità di azionare la propria pretesa di carattere civilistico percorrendo, oltre alla via del giudizio civile, anche quella del giudizio penale mediante la costituzione in esso di parte civile, una interpretazione che venisse a ritenere insussistente l’interesse alla impugnazione nel processo penale, sol perchè sarebbe pur sempre possibile la residua azione civile, si tradurrebbe nella sostanziale ripulsa dello stesso congegno normativo e nella indebita “amputazione” di una facoltà riconosciuta dallo stesso legislatore così come non sarebbe condvisibile, ad avviso della Cassazione, un ragionamento che, rispetto all’interesse a che, con il mezzo di impugnazione, si possa ottenere un risultato più favorevole rispetto a quello avutosi per effetto della decisione impugnata, privilegi, fino a farla diventare esclusiva, la valutazione di elementi esterni a quelli del raffronto, appunto, traendo contenuto della decisione impugnata (che non sia venuta, ovviamente, meno per altre ragioni) e contenuto della decisione che, attraverso l’impugnazione, si intenda perseguire, e ciò anche perché, secondo talune affermazioni, l’interesse del ricorrente possa essere ravvisato “anche” quando tenda ad evitare conseguenze extra-penali pregiudizievoli o ad assicurarsi effetti penali più favorevoli che l’ordinamento faccia dipendere dalla pronuncia domandata (Sez. 6, n. 35989 del 01/07/2015) non significa, per converso, che la possibilità, per la parte civile, di assicurarsi quegli stessi vantaggi al di fuori del processo penale possa annullare l’interesse ad ottenerli, ancor prima e in modo processualmente più rapido e conveniente, innanzitutto in sede penale.

Sicchè, anche sotto questo profilo, secondo gli ermellini, dovevano condividersi le affermazioni di quelle pronunce che avevano precisato come, una volta che la legge abbia concesso alla parte civile di far valere le sue ragioni, a suo insindacabile giudizio, in sede civile o in sede penale, non compete al giudice indicare quale via la suddetta parte debba seguire (cfr., Sez. 2, n. 9263 del 02/02/2012) e ciò, senza considerare, da un lato, come rilevato da altre pronunce ancora, che l’accertamento in sede penale non soffre delle preclusioni e dei limiti previsti in sede civile in considerazione soprattutto del differente criterio di valutazione della prova, collegato a parametri predeterminati e fondato invece, nel processo penale, sul principio di atipicità (v. Sez. 6, n. 21533 del 13/03/2018), dall’altro, come rilevato in passato dalle stesse Sezioni Unite, che, avendo il danneggiato, con la costituzione di parte civile, inteso trasferire in sede penale l’azione civile di danno, lo stesso ha “interesse ad ottenere nel giudizio penale il massimo di quanto può essergli riconosciuto“, sì che non gli si può negare l’interesse ad impugnare la decisione di proscioglimento anche quando questa manchi, come è nel caso in esame, di efficacia preclusiva (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008), da un altro lato ancora, che, con ragionamento a fortiori applicabile alla fattispecie di proscioglimento per estinzione del reato, che, in caso di assoluzione perchè il fatto non costituisce reato, le limitazioni all’efficacia del giudicato, previste dall’art. 652 c.p.p., non incidono sull’estensione del diritto all’impugnazione, riconosciuto in termini generali alla parte civile nel processo penale dall’art. 576 c.p.p., giacchè, tra l’altro, ove si ritenesse il contrario, la parte civile, che intendesse impugnare la sentenza assolutoria, sarebbe costretta a rinunciare agli esiti dell’accertamento compiuto nel processo penale e a riavviare ab initio l’accertamento in sede civile, con conseguente allungamento dei tempi processuali (Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018 e Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018).

Da tali considerazioni, se il Supremo Consesso non vuole certo affermare che la tutela giurisdizionale delle pretese del danneggiato in sede civile sia di grado e portata inferiori rispetto a quelle assicurate in sede penale, è altrettanto evidente che una tale affermazione, resa a giustificazione della ritenuta legittimità costituzionale dell’art. 538 c.p.p., là dove lo stesso preclude al giudice ogni decisione sulla domanda per le restituzioni e il risarcimento del danno in caso di sentenza di assoluzione, non comporta quale corollario, tanto più in presenza della specifica previsione dell’art. 576 c.p.p., che la persistente azionabilità della pretesa risarcitoria in sede civile, considerato come rimedio di pari efficacia, renda l’esito assolutorio necessariamente immune, in sede penale, da censure mosse proprio al fine di ottenere, con i mezzi di impugnazione, la tutela che la costituzione di parte civile è funzionalmente diretta a perseguire mentre a nulla rileva il fatto che la Corte di Strasburgo non abbia ritenuto in contrasto con il principio del giusto processo dell’art. 6 della Convenzione Edu un regime processuale (quale sarebbe quello che, in definitiva, risulterebbe ove si recepisse l’orientamento “restrittivo“) che comporti il mancato esame della domanda della parte civile per il fatto di un mancato epilogo “condannatorio” a fronte della possibilità per la stessa parte di fruire di altri rimedi accessibili ed efficaci per far valere le proprie pretese (così, in particolare, Corte Edu, Sez.3, 25/06/2013, Associazione delle persone vittime del sistema s.c. Rompetrol s.a. e s.c. Geomin s.a. e altri c. Romania, e Sez. 1, 04/10/2007, Forum Maritime s.a. c. Romania), rimedi, ad avviso della Corte, agevolmente individuabili, nell’ordinamento italiano, nella possibilità di rivolgersi comunque al giudice civile, potrebbe significare per ciò solo mancanza di interesse del danneggiato ad ottenere, ancor prima di potere usufruire di dette alternative, che la pretesa svolta nel processo penale sia condotta, per il tramite delle impugnazioni consentite, a definitivo compimento.

Allo stesso modo la conformità alla regolamentazione sovranazionale di un sistema di tutela più “limitato” non veniva stimato un valido motivo per disconoscere quello, più ampio, eventualmente assicurato dal diritto interno alla luce di quanto previsto nell’art. 53 della Convenzione Edu circa il divieto di interpretare le disposizioni della stessa in modo da limitare o pregiudicare i diritti dell’uomo e le libertà fondamentali che possano essere riconosciuti in base alle leggi di ogni Parte contraente o in base a ogni altro accordo al quale essa partecipi così come non veniva ritenuto parimenti condivisibile quell’indirizzo che, pur aderendo, in via di principio, all’orientamento affermativo della ammissibilità dell’impugnazione, appare far dipendere quest’ultima dalla circostanza che la sentenza di improcedibilità per estinzione sia giunta a una tale conclusione previa valutazione del “merito” posto che l’art. 576 c.p.p. consente alla parte civile l’impugnazione della sentenza di “proscioglimentotout court mentre, d’altra parte, l’art. 538 c.p.p. condiziona la decisione del giudice sulla domanda per la restituzione e il risarcimento del danno alla pronuncia di “sentenza di condanna“.

Tal che se ne faceva conseguire che, solo ove vi sia da parte della pronuncia impugnata una “incursione nel merito“, la quale realizzerebbe “quell’accertamento sulla colpevolezza e quindi nel merito suscettibile di pregiudicare le ragioni della parte civile“, sussisterebbe l’interesse all’impugnazione (così, Sez. 6, n. 21533 del 13/03/2018), condurrebbe ad introdurre limitazioni non previste dall’art. 576 c.p.p. finendo, ancora una volta, per negare ciò che, in via di principio, si vorrebbe invece riconoscere, ovvero appunto la facoltà della parte civile di impugnare la sentenza di estinzione del reato a seguito di prescrizione erroneamente dichiarata.

Del pari ritenuta inutiliter data sarebbe, per venire all’ulteriore indirizzo “intermedio” summenzionato, una sentenza del giudice di appello che, sempre per la mancanza, nella sentenza impugnata, di una statuizione di condanna, e, dunque, nell’ostacolo rappresentato dagli artt. 538 e 578 c.p.p., si dovesse limitare, non potendo il giudice dell’impugnazione pronunciare sentenza di condanna al risarcimento dei danni e alle restituzioni, a “rimuovere” l’efficacia di giudicato altrimenti rappresentata dalla sentenza di assoluzione, così consentendosi alla parte civile di esercitare liberamente la propria pretesa in sede civile posto che, secondo la Cassazione un tale risultato non sarebbe comunque impedito neppure laddove la parte civile non avesse ad impugnare la sentenza dichiarativa della prescrizione non potendo comunque quest’ultima assumere, in virtù di quanto previsto dall’art. 652 c.p.p., comma 1, efficacia di giudicato nel giudizio civile.

Da ciò se ne faceva derivare la conclusione secondo cui, anche in tal caso l’affermazione della riconosciuta facoltà della parte civile di impugnare la sentenza di assoluzione, diverrebbe, una volta negata la possibilità di ottenere in sede penale la soddisfazione della pretesa civilistica a seguito di una constatata erronea declaratoria di proscioglimento, priva di sostanziale significato atteso che il risultato, che dall’esercizio di tale potere deriverebbe, sarebbe già riconosciuto dal sistema dei rapporti modellato dall’art. 652 c.p.p..

Sicchè, in definitiva, le ragioni sino a qui esposte dovevano condurre, ad avviso del Supremo Consesso, a far ritenere che la parte civile, non solo sia legittimata ad appellare la sentenza di proscioglimento per estinzione del reato a seguito di intervenuta prescrizione, derivando una tale legittimazione direttamente dalla previsione dell’art. 576, ma sia anche portatrice di un concreto interesse a detta impugnazione attesa la finalità, perseguita attraverso la doglianza mossa in ordine ad una erronea affermazione di intervenuta prescrizione, ad ottenere il ribaltamento della prima pronuncia e l’affermazione, sia pure solo “virtuale“, perchè valorizzabile ai soli fini delle statuizioni civili, di responsabilità penale dell’imputato fermo restando che, per un verso, la necessità che, accanto alla legittimazione ad impugnare, debba sussistere, sulla base di una evidente ragione di economia processuale, quale ulteriore condizione di ammissibilità (v. Sez. U, n. 6624 del 27/10/2011), anche l’interesse a proporre l’impugnazione e che tali due profili debbano tra loro essere distinti, non potendo, in particolare, il secondo essere assorbito nel primo, discende dalle previsioni dell’art. 568 c.p.p., commi 3 e 4, ove, rispettivamente, da un lato, si afferma che “il diritto di impugnazione spetta soltanto a colui al quale la legge espressamente lo conferisce” e, dall’altro, si afferma che “per proporre impugnazione è necessario avervi interesse”, per altro verso, il fatto che l’interesse ad impugnare debba essere “concreto“, oltre che attuale, è affermazione costantemente riscontrabile nelle pronunce emesse in sede di legittimità ordinaria sin dalla pronuncia di Sez. U, n. 10372 del 27/09/1995 ove si è espresso che la facoltà di attivare i procedimenti di gravame non possa essere assoluta e indiscriminata, ma “subordinata alla presenza di una situazione in forza della quale il provvedimento del giudice risulta idoneo a produrre la lesione della sfera giuridica dell’impugnante e l’eliminazione o la riforma della decisione gravata rende possibile il conseguimento di un risultato vantaggioso” sino all’attualità, si è sempre pronunciata in tal senso sul presupposto, in definitiva, che la legge processuale non ammette l’esercizio del diritto di impugnazione avente di mira la sola esattezza teorica della decisione, senza che alla posizione giuridica del soggetto derivi alcun risultato pratico favorevole.

Di talchè se ne faceva derivare come la concretezza dell’interesse non possa dunque che essere parametrata al raffronto tra quanto statuito dalla sentenza impugnata e quanto, con l’impugnazione svolta, si vorrebbe invece ottenere, sì che già il solo fatto che, nella specie, si assuma l’erroneità della affermazione di intervenuta prescrizione, indipendentemente dalla fondatezza o meno di tale pretesa, rende il ricorso ammissibile e da ciò se ne faceva discendere, come ulteriore conseguenza, l’erroneità di un’impostazione che, invece, pervenga ad individuare la sussistenza o meno dell’interesse all’impugnazione a seconda della fondatezza o meno della censura svolta, confermandosi quanto già affermato dalla Suprema Corte in ordine al fatto che la valutazione dell’interesse ad impugnare, allorchè il gravame sia in concreto idoneo a determinare per il ricorrente, con l’eliminazione del provvedimento impugnato, una situazione pratica più vantaggiosa di quella realizzata dal provvedimento impugnato, va operata con riferimento alla prospettazione contenuta nel ricorso e non alla effettiva fondatezza della pretesa del ricorrente (Sez. 3, n. 38544 del 27/05/2015).

Pertanto, alla stregua di quanto sin qui esposto, le Sezioni Unite avallavano quanto già affermato sempre da queste Sezioni in precedenza ossia che la sussistenza del carattere di concretezza dell’interesse della parte civile ad impugnare la pronuncia di proscioglimento “va, naturalmente, verificata tenendo conto degli specifici effetti favorevoli che, nella concreta vicenda, la parte civile si ripromette di ottenere dall’impugnazione e valutando se il suo accoglimento davvero le arrecherebbe una situazione di vantaggio o le eliminerebbe una situazione pregiudizievole” (Sez. U, n. 40049 del 29/05/2008).

Di conseguenza, in conseguenza dell’ammissibilità dell’appello, apparivano porsi, in definitiva, ad avviso della Corte, due alternative: mentre, in caso di giudizio che accertasse correttamente adottata la decisione di primo grado dichiarativa dell’estinzione, resterebbe ferma, perchè corretta, la mancata decisione in ordine alle statuizioni civili mentre, ove invece si riscontrasse l’erroneità della ritenuta prescrizione, il giudice di appello, delibando “ora per allora“, nel merito, in ordine alla sussistenza della responsabilità penale, dovrebbe, ove ritenuta sussistente, decidere, in conseguenza, pur lasciando fermo l’epilogo penale, insensibile alla impugnazione della sola parte civile, anche sulle statuizioni civili secondo quanto disposto dall’art. 538 c.p.p. e ss. indipendentemente da ogni prescrizione nel frattempo maturata nel giudizio di appello, e ciò, tanto più laddove già il giudice di primo grado, pur dichiarando la prescrizione, avesse (come nel caso di specie) già accertato nel merito la responsabilità dell’imputato.

Oltre a ciò, si stimava come dovesse ritenersi parimenti ammissibile il ricorso per cassazione con cui la parte civile lamenti l’erronea conferma da parte del giudice di appello della dichiarazione di prescrizione già erroneamente affermata dal giudice di primo grado in quanto, da un lato, la legittimazione della parte civile anche al ricorso deriva dal dettato dell’art. 576 c.p.p., comma 1, letto, per quanto riguardante lo specifico mezzo del ricorso, unitamente all’art. 568 c.p.p., comma 2; dall’altro, con riguardo all’interesse concreto, va considerata la possibilità per la parte civile di ottenere, per effetto della proposizione del ricorso, la condanna in sede civile al risarcimento dei danni e alle restituzioni in tempi più rapidi dell’ordinario e senza la necessità, cui invece la stessa sarebbe sottoposta ove ricorso non vi fosse stato, di iniziare ex novo il separato giudizio civile.

Il motivo per cui la Cassazione giungeva a fare questa affermazione era innanzitutto ricollegato al fatto che, in caso di accoglimento del ricorso della parte civile nei confronti di sentenza di proscioglimento, la Corte di cassazione deve annullare quest’ultima con rinvio al giudice civile competente per valore in grado di appello giusta quanto previsto dall’art. 622 c.p.p., e in adesione ad un costante indirizzo elaborato in sede nomofilattica (tra le altre, da ultimo, Sez. 6, n. 5888 del 21/01/2014 e Sez. 6, n. 44685 del 23/09/2015).

In secondo luogo venivano addotte ragioni di carattere letterale e sistematico, vale a dire il fatto che oltre al dato letterale (“fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di cassazione (…) se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al giudice civile competente per valore in grado di appello…”) la cui nettezza di significato non appariva in grado di consentire letture di segno diverso, si evidenziava l’ulteriore rilievo che, ormai intangibile l’esito penale del proscioglimento, non più “rivedibile“, neanche solo “virtualmente“, come invece possibile al giudice di merito di secondo grado, dal giudice di legittimità, resta inibita ogni possibile prosecuzione del giudizio penale nel senso che, ove nulla più vi sia da accertare agli effetti penali, ulteriori interventi del giudice penale sarebbero non giustificati e, dunque, se anche l’art. 573 c.p.p., prevede che “l’impugnazione per i soli effetti civili è proposta, trattata e decisa con le forme ordinarie del processo penale”, non possono residuare dubbi sulla necessità che il rinvio in conseguenza della pronuncia di annullamento debba essere disposto dinanzi al giudice civile competente per valore in grado di appello; dovendo dunque l’annullamento avvenire in sede civile, per un verso l’accertamento di responsabilità perseguito dalla parte civile ricorrente resta ormai precluso in sede penale (nessun seguito “interno” al giudizio potendo più esservi) e, per l’altro, lo stesso viene rimesso alla instaurazione di un giudizio civile con conseguente epilogo che, apparentemente, parrebbe analogo a quello che si verificherebbe anche laddove la stessa parte civile non avesse proposto ricorso per cassazione posto che, in entrambi i casi, ovvero sia in presenza, sia in assenza di ricorso, il processo penale si arresterebbe (in un caso, in conseguenza di quanto imposto dall’art. 622 c.p.p., e, nell’altro, perchè divenuta definitiva la sentenza di appello confermativa della dichiarazione di prescrizione non impugnata) e dovrebbe iniziarsi, su impulso del danneggiato, in un caso su “riassunzione” e nell’altro ex novo, un giudizio civile nel quale l’accertamento incidentalmente operato nel giudizio penale non potrebbe rivestire efficacia di giudicato giacchè da un lato, l’accertamento della sussistenza del fatto e della sua attribuibilità all’imputato potrebbe irrevocabilmente valere nel giudizio civile per il risarcimento solo ove contenuto in una “sentenza di condanna” formalmente tale stante quanto previsto dall’art. 651 c.p.p. (e tale non è certo la sentenza di improcedibilità che, pur avendo accertato il fatto, si sia arrestata alla causa estintiva) e, dall’altro, il già ricordato art. 652 c.p.p., quanto alle sentenze di proscioglimento, attribuisce efficacia di giudicato alle sole sentenze di “assoluzione“, in esse perciò non potendo ricorrere la sentenza di improcedibilità per estinzione.

Infine, a fronte della possibile obiezione di segno contrario secondo cui si potrebbe ravvisare la mancanza di un interesse concreto della parte civile al ricorso per cassazione posto che lo stesso non sarebbe comunque in grado di assicurare un esito più favorevole rispetto al risultato acquisito nel giudizio penale di appello anche considerando che i poteri del giudice civile di valutare le risultanze del giudizio penale dovrebbero essere i medesimi sia che il giudizio civile segua all’annullamento con rinvio a norma dell’art. 622 c.p.p., sia che sia instaurato ex novo a seguito del passaggio in giudicato della sentenza di prescrizione non impugnata posto che, in entrambe le situazioni, non potrebbe attribuirsi efficacia di giudicato nel giudizio civile, quanto all’accertamento della sussistenza del fatto e alla sua attribuzione, alla sentenza dichiarativa di improcedibilità per estinzione del reato per prescrizione (quale tertium genus tra sentenza assolutoria nel merito e sentenza di condanna non considerata nè dall’art. 651 cit. che riguarda le sentenze di “condanna” nè dall’art. 652 cit. che riguarda le sentenza di “assoluzione“), con interpretazione avallata da Sez. U civ., n. 1768 del 26/01/2011 secondo cui è la sola sentenza penale irrevocabile di assoluzione (per essere rimasto accertato che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima) pronunciata in seguito a dibattimento ad avere efficacia di giudicato nel giudizio civile o amministrativo per le restituzioni ed il risarcimento del danno, mentre alle sentenze di non doversi procedere perchè il reato è estinto per prescrizione o per amnistia non va riconosciuta alcuna efficacia extra-penale, quantunque, per giungere a tale conclusione, il giudice abbia accertato e valutato il fatto e, per tale motivo, in entrambe le situazioni, ancora, potrebbe comunque il giudice civile tener conto di tutti gli elementi di prova acquisiti, nel rispetto del contraddittorio tra le parti, in sede penale, potendo anche ripercorrere lo stesso iter argomentativo del giudice penale e giungere alle medesime conclusioni (da ultimo, Sez. L, n. 14570 del 12/06/2017; Sez. L, n. 21299 del 09/10/2014; Sez. L, n. 20724 del 30/01/2013; Sez. 3 civ. n. 10055 del 27/04/2010; Sez. L, n. 16559 del 05/08/2005), gli ermellini, nella decisione in commento, consideravano come solo apparentemente le predette situazioni avrebbero potute essere considerate analoghe.

Si evidenziava a tal riguardo che, come affermato dalla Corte costituzionale, tra le sentenze di proscioglimento che possono rivestire un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato che, “ancorchè privo di effetti vincolanti“, è idoneo a pesare comunque “in senso negativo su giudizi civili amministrativi o disciplinari connessi al medesimo fatto“, ben può rientrare anche la sentenza di prescrizione (così, testualmente, con riferimento alla prescrizione dichiarata a seguito del riconoscimento di circostanze attenuanti generiche nel regime anteriore alla L. 5 dicembre 2005, n. 251, Corte Cost., n. 85 del 2008, che aveva, infatti, significativamente parlato di sentenze di “proscioglimento“, tra cui quella in oggetto, che, “pur non applicando una pena, comportano, in diverse forme e gradazioni, un sostanziale riconoscimento della responsabilità dell’imputato o, comunque, l’attribuzione del fatto all’imputato medesimo”).

E dunque, a fronte di tale quadro, i giudici di piazza Cavour osservavano come il fatto che, proprio per effetto della previsione di cui all’art. 622 c.p.p., il giudizio civile non debba ricominciare dal primo grado, come previsto in caso di sentenza penale non impugnata dalla parte civile e passata in giudicato, ma da quello di appello, in tal modo consentendosi alla parte civile di godere di tempi più celeri, non possa non rappresentare comunque in concreto un vantaggio la cui presenza dà corpo al requisito dell’interesse alla base della proposizione del ricorso (si vedano, del resto, in tal senso, le già richiamate Sez. 2, n. 41784 del 18/07/2018 e Sez. 2, n. 36930 del 04/07/2018) tenuto conto altresì del fatto che, specie ove la sentenza di prescrizione non si sia semplicemente arrestata a constatare la mancanza di elementi tale da imporre l’assoluzione nel merito ex art. 129 c.p.p., ma abbia accertato, sia pure solo incidentalmente, la responsabilità dell’imputato, vi è la conseguente possibilità di valorizzare gli elementi di prova già emersi in sede penale pur nell’assenza di ogni efficacia di giudicato della sentenza.

Ciò posto, il Supremo Consesso, alla luce delle argomentazioni sin qui esposte, formulava il seguente principio di diritto: “Nei confronti della sentenza di primo grado che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammessa l’impugnazione della parte civile che lamenti l’erronea applicazione della prescrizione“.

Conclusioni

La sentenza in commento è sicuramente condivisibile in quanto il frutto di un articolato e ben argomentato iter motivazionale.

Pertanto, per effetto di questo arresto giurisprudenziale, è adesso chiarito che, nei confronti della sentenza di primo grado che dichiari l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione, così come contro la sentenza di appello che tale decisione abbia confermato, è ammessa l’impugnazione della parte civile che lamenti l’erronea applicazione della prescrizione.

Tal che ne consegue che la parte civile, sia nel caso in cui sia dichiarata l’estinzione del reato per intervenuta prescrizione nella sentenza di primo grado, che in quello in cui i giudici di seconde cure abbiano confermato la decisione emessa nel precedente grado di giudizio che abbia riconosciuto questa causa estintiva del reato, può impugnare questi provvedimenti.

Tale decisione, dunque, proprio per la rilevanza processuale che riveste, deve essere presa nella dovuta considerazioni ove si verifichino tali situazioni.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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