Modificabilità della penalità di mora in sede di giudizio per chiarimenti

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L’istituto dell’astreinte in ambito amministrativo e civile: brevi premesse

All’art. 114 co 4 lett. e) del Codice del processo amministrativo (d. lgs. n. 104/2010), è disciplinata la facoltà per il giudice dell’ottemperanza di prevedere in capo alla Pubblica Amministrazione una penalità “per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del giudicato[1]; tale forma di penalità di mora (o astreinte), è un istituto recentemente riconosciuto anche nell’ambito dell’ordinamento italiano al fine di prevedere un incentivo all’esecuzione in forma specifica delle obbligazioni.

Si parla di penalità di mora proprio per evidenziare che la funzione del nuovo istituto non è quella di ripristino dello status quo ante ma lo stesso si configura come sanzione indiretta, assumendo, in tal modo, la connotazione di una pena e non di un risarcimento.

In sede civile, si ritrova un rimedio simile all’art. 614-bis c.p.c., per cui, in caso di obblighi di fare infungibile o di non fare, “con il provvedimento di condanna all’adempimento il giudice fissa, su richiesta di parte, la somma di denaro dovuta dall’obbligato per ogni violazione o inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione del provvedimento stesso. Il giudice determina l’ammontare della somma tenuto conto del valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile e di ogni altra circostanza utile”.

La figura dell’astreinte prevista in ambito amministrativo differisce parzialmente da quella di cui all’art. 614-bis c.p.c. in quanto, a differenza di quest’ultima, può applicarsi anche per le obbligazioni fungibili, suscettibili di esecuzione forzata per equivalente e non in forma specifica[2]; si osserva, infatti, che all’art. 114 c.p.a. non è stata ripresa la riferibilità, di cui all’art. 614-bis c.p.c., ai soli obblighi di non fare o di fare infungibile.

La natura interlocutoria del giudizio per chiarimenti

Poste le premesse circa la possibilità per il giudice di ottemperanza di disporre la penalità di mora, prima di vagliarsi la possibilità di una revisione della stessa nell’ambito del giudizio per chiarimenti, giova premettere che il menzionato giudizio per chiarimenti(ex art. 112 co 5 c.p.a.) è in giudizio con una natura meramente interlocutoria, tramite il quale non si possono sottoporre al giudice questioni astratte concernenti l’interpretazione del giudicato, potendosi solo evidenziare questioni specifiche, insorte durante la fase di esecuzione del giudicato, che hanno determinato l’insorgenza di dubbi circa le modalità di esecuzione dello stesso (in tal senso, si veda T.A.R. Lombardia, Milano, Sez. IV, 06-04-2018, n. 938).

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Adunanza Plenaria 2019, n. 7

Con ordinanza n. 1457/2019, la Quinta Sezione del Consiglio di Stato ha rimesso all’Adunanza Plenaria, ex art. 99, co. 1 c.p.a, la soluzione di un contrasto interpretativo circa la possibilità di una revisione della penalità di cui all’art. 114 co 4 lett. e) c.p.a. in sede di giudizio per chiarimenti, determinando, inoltre, l’efficacia temporale della revisione.

L’Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato, a seguito dell’ordinanza di rimessione, ha, in primis, considerato che l’istituto dell’astreinte ha la funzione principale di gestione delle sopravvenienze e, dunque, l’esigenza di una sua revisione al variare dello stato di fatti è implicita nei principi dell’ordinamento[3]. In considerazione della normale stabilità della penalità, finalizzata a stimolare l’adempimento di una statuizione giudiziale, non potrebbe essere domandato un semplice riesame della stessa; saranno le sopravvenienze a rivestire un ruolo essenziale.

Dal momento che, come anticipato, il giudizio per chiarimenti è la sede in cui si chiariscono le modalità dell’esecuzione, nell’ambito di tale giudizio saranno naturalmente considerate le sopravvenienze: la determinazione del quantum della sanzione alla luce dei successivi accadimenti può ben farsi rientrare nel concetto di “modalità d’ottemperanza” (art. 112 co 5 c.p.a.).

Se, per le ragioni evidenziate, nel giudizio di chiarimenti è possibile una revisione della penalità di mora, solo nel caso in cui la stessa sia stata resa necessaria da comprovate sopravvenienze fattuali e giuridiche, di norma non è, altrimenti, possibile una revisione ex tunc dei criteri dettati da una precedente sentenza di ottemperanza per determinare la penalità.

Pur dinnanzi a tale regola generale, l’A.P. 2019 ha riconosciuto l’eccezione che si configura nel caso in cui il giudice di ottemperanza non abbia fissato il tetto massimo della penalità e, successivamente, proprio a causa della mancanza del tetto, sia emersa l’iniquità della misura. In tal caso, anche in sede di chiarimenti si potrà procedere alla definizione del tetto massimo servendosi dei criteri di cui all’art. 614-bis c.p.c.[4]. Infatti, come hanno considerato i Giudici di Palazzo Spada, il fatto che nel Codice del processo amministrativo non vi sia un richiamo -analogo a quello previsto all’art. 614-bis c.p.c.- al valore della controversia, della natura della prestazione, del danno quantificato o prevedibile, così come a ogni altra circostanza utile, non deve far pensare che tali valutazioni non debbano essere operate; il legislatore in ambito amministrativo si è mostrato solo ancor più cauto del legislatore civile, richiedendo espressamente la non manifesta iniquità della deliberazione del giudice di ottemperanza.

Tra i parametri di cui all’art. 614-bis c.p.c., utili per determinare il tetto massimo dell’astreinte, l’A.P. ha evidenziato il danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato da parte della pubblica amministrazione[5]. A tal proposito, il Consiglio di Stato nel 2019 (Cons. St., sez. V, ord., 4 marzo 2019, n. 1457), ha disposto che l’astreinte può legittimamente costituire un mezzo di coercizione diretta solo nel tempo in cui l’amministrazione obbligata rimanga ex se inadempiente: da quando è pronunciato l’ordine di ottemperanza a quando è nominato il commissario ad acta, in qualità di ausiliario del giudice di ottemperanza. Dopo la nomina del commissario ad acta, i Giudici amministrativi hanno considerato che lo strumento surrogatorio diretto debba essere riconosciuto maggiormente efficace rispetto a quello della coercizione indiretta per il tramite della penalità di mora.

In caso contrario, si potrebbe ravvisare un arricchimento senza causa determinato da un atto del giudice, infatti, potrebbe diventare più conveniente a livello patrimoniale la maturazione dell’astrainte rispetto al raggiungimento del bene della vita che era oggetto del petitum sostanziale della domanda giudiziale originariamente presentata.

 

 

Note

[1] Lettera modificata dall’art. 1, comma 781, lett. a), legge n. 208 del 2015.

[2] M. Santise, Coordinate ermeneutiche di diritto amministrativo: 2017, III edizione, Giappichelli, Torino, 2017, pp. 722-727.

[3] Cons. St., A.P., 9 maggio 2019, n. 7, considerazioni in diritto, punto n. 5.5..

[4] Cons. St., A.P., 9 maggio 2019, n. 7, considerazioni in diritto, punto n. 7.2..

[5] Cons. St., A.P., 9 maggio 2019, n. 7, considerazioni di diritto, punto n. 7.4., ove l’Adunanza riconosce che: “L’utilizzazione suggerita dal legislatore (sebbene quale parametro non vincolante) sottende certamente un implicito riferimento al “danno quantificato o prevedibile” di cui all’art. 614 bis c.p.c. da intendersi quale danno da ritardo nell’esecuzione del giudicato, temperato alla luce delle peculiarità del giudizio d’ottemperanza e dell’immanente opzione surrogatoria”.

Avv. Alice Cometto

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