Malato raggirato: familiari risarciti per terapia alternativa

Morte del malato raggirato e persuaso a seguire una terapia alternativa: risarciti i familiari. Commento all’ordinanza n. 14245/2024 della Cassazione.

Morte del malato raggirato e persuaso a seguire una terapia alternativa: risarciti i familiari. Un commento alla ordinanza n. 14245/2024 della Cassazione civile. Ad un uomo viene diagnosticato un tumore ai polmoni incurabile ed inizia la terapia tradizionale a base di chemioterapia e morfina. I suoi familiari vengono messi in contatto con un medico che li persuade ad abbandonare le cure e ad assumere un solo farmaco, garantendo la guarigione. Stante l’assenza di miglioramenti, i congiunti contattano ancora il professionista, che consiglia la somministrazione via endovena ma, di lì a poco, il malato perde la vita. I familiari agiscono in giudizio al fine di ottenere il risarcimento del danno. In sede penale, il medico viene condannato per diversi reati, tra cui truffa in concorso con il primo medico e, in sede civile, i due vengono condannati al ristoro del risarcimento del danno. Il medico che ha prescritto il farmaco ricorre in Cassazione e deduce che i familiari non avrebbero diritto ad alcun ristoro stante la mancanza del nesso causale tra la sua condotta illecita e la morte del malato. La Corte di Cassazione, con l’ordinanza in commento, rigetta il ricorso del medico e afferma che i parenti della vittima hanno diritto al risarcimento del pregiudizio patito sia iure proprio che iure hereditatis. Secondo i giudici il ricorso del sanitario è diretto a fornire una diversa interpretazione del petitum ed è inammissibile. Infatti, l’oggetto del processo riguarda la sussistenza del nesso eziologico tra le sofferenze patite e la condotta truffaldina (non già il nesso tra il decesso e il comportamento del ricorrente). I giudici confermano che il danno patito dai familiari costituisca un danno iure proprio per le sofferenze patite in seguito all’affidamento mal riposto nel miglioramento del congiunto e un pregiudizio iure hereditatis derivante dall’alterazione della libertà di determinazione, ossia il diritto di intraprendere delle scelte per sé e la propria vita, in completa libertà e piena autoresponsabilità. Nella quantificazione del danno, i giudici di merito, correttamente, hanno valutato la condotta e le modalità subdole con cui il medico ha sfruttato la soggezione emotiva di fronte alla diagnosi, la profonda frustrazione dei familiari derivante dalle assicurazioni di guarigione e, infine, la circostanza che il ricorrente abbia indotto il malato ad abbandonare la chemioterapia e l’assunzione di morfina, la quale, se proseguita, avrebbe quantomeno lenito il dolore derivante dalla malattia. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

Indice

1. La vicenda: raggiro del malato


Un uomo riceve la diagnosi di un tumore incurabile ai polmoni e viene sottoposto a chemioterapia nonché al trattamento con la morfina. I suoi figli si rivolgono ad un medico che, a sua volta, consiglia loro un altro medico. Quest’ultimo propone di abbandonare la cura intrapresa e di sostituirla con una cura alternativa fondata sulla somministrazione di un farmaco. Dal momento che la cura non sortisce alcun miglioramento, il medico integra la somministrazione via endovena, assicurando la guarigione, invece, il paziente perde la vita. La moglie e i figli dell’uomo evocano in giudizio i due medici al fine di vederli condannare al risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali patiti. In particolare, gli attori si dolgono del fatto che i convenuti abbiano sfruttato la loro condizione di debolezza ingenerando la falsa speranza della guarigione del loro congiunto per trarne un profitto. I familiari del malato agiscono contro il medico anche in sede penale ove lo stesso viene condannato ex art. 444 c.p.p. per i reati di associazione per delinquere, esercizio abusivo dell’attività di biochimico farmaceutico, commercio di medicinali senza autorizzazione e, infine, per truffa in concorso con il primo medico.
In primo e secondo grado, i convenuti sono condannati al pagamento del danno patrimoniale pari a 500,00 euro (ossia il costo del medicinale) e al pagamento di 25 mila euro a favore di ciascuno degli attori a titolo di danno non patrimoniale. Secondo il giudice d’appello, l’oggetto del processo riguarda la sussistenza del nesso eziologico tra le sofferenze patite e la condotta truffaldina (non già il nesso tra il decesso e il comportamento dei convenuti). Inoltre, il danno patito dai familiari è sia un danno iure proprio per le sofferenze patite in seguito all’affidamento riposto nel miglioramento del congiunto sia un pregiudizio iure hereditatis derivante dalla lesione del diritto all’autodeterminazione del defunto. Per approfondire questa materia, consigliamo il volume Manuale pratico operativo della responsabilità medica

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2. Il ricorso in Cassazione


Il medico che ha prescritto il farmaco ricorre in Cassazione e deduce che i familiari non avrebbero diritto ad alcun ristoro stante la mancanza del nesso causale tra la sua condotta illecita e la morte del malato.
L’interpretazione del contenuto della domanda è sindacabile in sede di legittimità in casi specifici.
Il ricorrente lamenta che la decisione gravata lo abbia condannato al risarcimento del danno benché sia stato ritenuto insussistente il nesso eziologico tra la sua condotta illecita e la morte del malato.
La Suprema Corte ritiene inammissibile la doglianza, in quanto con il motivo di ricorso il medico ha inteso sindacare l’interpretazione del contenuto della domanda giudiziale operata dal giudice di merito. La decisione gravata, infatti, ha ritenuto che il petitum riguardi il rapporto tra la sofferenza patita dai familiari nonché dal loro congiunto e la condotta truffaldina del ricorrente.
I giudici ricordano che «[…] l’interpretazione del contenuto della domanda è attività riservata al giudice di merito ed è sindacabile in sede di legittimità nelle seguenti ipotesi: a) ove ridondi in un vizio di nullità processuale, nel qual caso è la difformità dell’attività del giudice dal paradigma della norma processuale violata che deve essere dedotto come vizio di legittimità ex art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.; b) qualora comporti un vizio del ragionamento logico decisorio, eventualità in cui, se la inesatta rilevazione del contenuto della domanda determina un vizio attinente alla individuazione del “petitum”, potrà aversi una violazione del principio di corrispondenza tra chiesto e pronunciato, che dovrà essere prospettato come vizio di nullità processuale ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4, c.p.c.; c) quando si traduca in un errore che coinvolge la ‘qualificazione giuridica’ dei fatti allegati nell’atto introduttivo, ovvero la omessa rilevazione di un ‘fatto allegato e non contestato da ritenere decisivo’, ipotesi nella quale la censura va proposta, rispettivamente, in relazione al vizio di “error in judicando”, in base all’art. 360, comma primo, n. 3, c.p.c., o al vizio di “error facti”, nei limiti consentiti dall’art. 360, comma primo, n. 5, c.p.c., (Cass. n. 3041/2007; Cass. n. 11103/2020)».
La censura del ricorrente, però, non riguarda nessuna di queste tre ipotesi e, pertanto, è inammissibile. Secondo i giudici lamentando l’assenza del nesso causale tra il decesso del paziente e la propria condotta illecita il ricorrente intende ricondurre i fatti nell’ambito della sola domanda risarcitoria sollevata iure proprio dagli attori per la perdita del rapporto parentale. In tal caso, infatti, è necessario che la morte della vittima sia causalmente riconducibile alla condotta illecita del terzo. Il ricorrente propone un’interpretazione della domanda giudiziale alternativa rispetto a quella effettuata dal giudice di merito. Invero, la corte territoriale ha individuato il petitum nel nesso di causalità esistente tra la condotta truffaldina del ricorrente e l’alterazione della libertà di determinazione della vittima. La suddetta alterazione ha provocato sofferenze sia al malato che ai congiunti, ingenerando l’affidamento nell’efficacia della cura. In questo senso giudizio è insindacabile in sede di legittimità atteso che fuoriesce dalle tre ipotesi summenzionate.

3. Il diritto di intraprendere scelte per la propria vita in piena autoresponsabilità


Prima di analizzare il decisum va precisato che il diritto all’autodeterminazione è il diritto di intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per sé e la propria esistenza.
Il caso più ricorrente di lesione di tale diritto riguarda le omesse informazioni da parte del medico (Cass. 23328/2019) ove, a causa del deficit informativo, il paziente non viene messo in condizione di assentire al trattamento sanitario con una volontà consapevole delle sue implicazioni.
La violazione dell’obbligo informativo – gravante sul medico – può determinare un duplice nocumento: una lesione del principio di autodeterminazione e un danno alla salute. La stessa Corte ricorda che il diritto all’autodeterminazione è connesso ma distinto dal diritto alla salute (Cass. 26104/2022).
Un’altra ipotesi di lesione del diritto di autodeterminarsi riguarda il ritardo diagnostico di una malattia ad esito infausto che comporta la violazione del diritto del paziente di determinarsi liberamente nella scelta dei propri percorsi esistenziali, «una situazione soggettiva che deve ritenersi fatalmente e direttamente violata dal colpevole ritardo diagnostico della patologia ad esito certamente infausto di cui si sia reso autore il sanitario chiamato a risponderne» (Cass. 7260/2018).

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4. Il diritto di autodeterminazione nel caso in esame


Nel caso in esame, la condotta truffaldina del medico, che ha assicurato la guarigione dalla patologia grazie all’assunzione di un solo farmaco pur essendo consapevole della incurabilità della malattia, ha leso il diritto all’autodeterminazione del malato, il quale, mal riponendo la propria fiducia nelle rassicurazioni del professionista, ha abbandonato la terapia chemioterapica e l’assunzione di morfina che, quantomeno, avrebbe potuto lenire il dolore.
Il giudice d’appello ha posto a fondamento del danno la lesione del diritto all’autodeterminazione del malato: si tratta del diritto di intraprendere delle scelte per sé e la propria vita, in completa libertà e piena autoresponsabilità, in assenza di ingerenze da parte di condotte di soggetti terzi. Dalla lesione del diritto all’autodeterminazione possono derivare danni patrimoniali (lesione del diritto all’autodeterminazione negoziale) e danni non patrimoniali (sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di sé stessi).
Siffatti pregiudizi, salva prova contraria, vanno risarciti.
La giurisprudenza si è pronunciata sulla lesione del diritto all’autodeterminazione principalmente con riguardo ai casi di omessa diagnosi tempestiva in caso di malattie oncologiche ad esito infausto. In tali fattispecie, il pregiudizio consiste nella perdita di un bene reale e certo come il diritto di decidere liberamente il proprio percorso di vita (Cass. 7260/2018).
È autonomamente risarcibile la “perdita del ventaglio di opzioni tra le quali il paziente ha diritto di scegliere dinanzi alla prospettiva di un exitus imminente”. Tutte queste scelte appartengono al singolo (Cass. 7260/2018; Cass. 10423/2019).

5. Il risarcimento del danno patrimoniale e non patrimoniale


I giudici di legittimità ritengono che la decisione gravata abbia correttamente ritenuto risarcibile il danno per lesione del diritto all’autodeterminazione. In particolare, gli attori hanno patito un danno non patrimoniale: iure proprio per la sofferenza morale e la disperazione conseguente all’affidamento nell’efficacia curativa della terapia, e iure hereditatis per l’alterazione delle scelte personali del malato effettuate in prossimità della fine della propria vita.
Nella quantificazione del danno, la sentenza gravata ha considerato:

  • la grave condotta con cui il medico ha approfittato del malato e dei suoi familiari sfruttando la soggezione emotiva di fronte alla diagnosi infausta;
  • le modalità subdole con cui è stata protratta la condotta illecita (ad esempio, con la somministrazione via endovena nelle ultime fasi della malattia),
  • il senso di profonda frustrazione scaturente dalle assicurazioni di guarigione,
  • l’interruzione della terapia (chemioterapia e assunzione di morfina) operata su indicazione del convenuto che, se proseguita, avrebbe quantomeno lenito il dolore derivante dall’ingravescenza della malattia.

Secondo il giudice di merito, quelle suesposte sono le conseguenze patite dagli eredi sia in proprio che in via successoria e rientrano nell’alveo dei danni derivanti dalla lesione del diritto all’autodeterminazione individuato «come perno del petitum prima, in sede di interpretazione della domanda giudiziale, e del processo, poi».

6. Le prove acquisite nel processo penale valgono come argomento di prova


Tra le varie censure, il ricorrente lamenta il fatto che la decisione gravata abbia fondato la sussistenza della responsabilità sulla base delle prove acquisite nel processo penale conclusosi con una sentenza di applicazione della pena su richiesta di parte (il cosiddetto patteggiamento).
Secondo la Cassazione la doglianza è infondata, in quanto la sentenza impugnata, correttamente, ha attribuito alle prove acquisite nel procedimento penale il valore di argomenti di prova (Cass. 12973/2020; Cass. 2897/2024).
I giudici hanno considerato alcuni elementi derivanti dal giudizio penale ma essi hanno costituito solo una parte della più ampia valutazione del giudizio di responsabilità a cui hanno contribuito le stesse affermazioni dell’appellante rese nel giudizio civile.
In particolare, sono state rilevanti ai fini dell’accertamento della condotta illecita le dichiarazioni del ricorrente che, da una parte, ha sostenuto che il medicinale somministrato al malato non fosse un farmaco ma un integratore e, dall’altra, che la malattia si trovava in uno stato troppo avanzato affinché il medicinale sortisse effetto. Questi elementi sono stato utilizzati per corroborare la tesi del comportamento manipolatorio e dei raggiri operati ai danni dalla famiglia.
La decisione gravata si è limitata a richiamare il contenuto di atti e prove acquisiti nel giudizio penale solo per ricostruire la condotta illecita del medico e non ha fondato la sussistenza dell’illecito civile sull’esito del giudizio penale.

7. Conclusioni: rigettato il ricorso del medico


Per tutte le ragioni di cui sopra, la Suprema Corte rigetta il ricorso del medico e ricorda che:
«[…] la situazione giuridica soggettiva tutelata dall’ordinamento – posta dal secondo giudice fondamento del danno evento asseritamente leso dalla condotta illecita – è il diritto all’autodeterminazione, quale diritto ad intraprendere, in libertà e consapevole autoresponsabilità, scelte per sé e la propria esistenza in assenza di qualsiasi alterazione o interferenza da parte di condotte riconducibili a soggetti terzi; là dove da tale lesione siano dunque derivate conseguenze dannose di natura patrimoniale (lesione del diritto alla autodeterminazione negoziale) ovvero di natura non patrimoniale (quai sofferenze soggettive e limitazione della libertà di disporre di se stessi) esse non potranno che essere risarcite, salva pur sempre la prova contraria».
Questa ordinanza è rilevante perché aggiorna, amplifica, in maniera coerente, il rilievo e il contenuto del diritto di autodeterminazione della persona, anche nelle fasi terminali della propria vita ed anche – e forse soprattutto – quando è più vulnerabile per l’esito della diagnosi e per la sofferenza cui va incontro.
Il diritto di autodeterminazione – specie e forse soprattutto – nei momenti di maggiore fragilità, è speculare rispetto ad un dovere di informazione profonda, che tenga conto delle specifiche condizioni e dello stato – oltre che della formazione del livello culturale generale – della persona da informare.
Un diritto, quello di fondare la propria autodeterminazione su informazioni corrette, precise, ampie, dettagliate, espresse nella forma e nei modi soggettivamente comprensibili, e nei tempi di questa comprensione, che impone un dovere di informare adeguatamente e tenendo conto dei medesimi tempi, modi e forme.
Vi è di più. Tale informazione deve essere verificata, e non può limitarsi ad una comunicazione unilaterale, nel più ampio ragionamento del “modulo di consenso informato” che on può essere un foglio da firmare e basta, ma che va letto e compreso, analizzato e discusso e su cui ci si deve poter confrontare, sempre nei modi e nelle forme e nei tempi del soggetto fragile (che è sempre il malato).

Michele Di Salvo

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