La natura giuridica della responsabilità medica: il panorama legislativo dopo la Legge n. 24 del 2017

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La responsabilità medica si inserisce nel più ampio filone della responsabilità professionale, che trova il suo fondamento normativo nel Capo II del titolo III del Libro V del codice civile, in particolare nella parte in cui l’art. 2236 c.c. esclude la responsabilità per “colpa lieve” del prestatore d’opera intellettuale.

È noto come nell’adempimento delle obbligazioni inerenti all’esercizio di un’attività professionale è richiesta un tipo di diligenza, differente da quella del “buon padre di famiglia” (cfr. art. 1176, comma 1 c.c.) e parametrata al tipo di attività svolta; invero, l’art. 1176 del c.c. al comma secondo parla di diligenza c.d. “qualificata”.

Proiezione di tale forma di diligenza è la perizia, intesa quale conoscenza e applicazione di quel complesso di regole tecniche proprie della categoria professionale di appartenenza, nella specie si tratta delle leges dell’ars medica, tese a circoscrivere l’àmbito del rischio consentito e, per l’effetto, l’àmbito di liceità dell’intervento medico. Nella prassi, si configura la fattispecie della colpa medica ogniqualvolta vi è una inosservanza e/o violazione da parte del sanitario delle specifiche regole cautelari di condotta proprie dell’agente modello del settore specialistico di riferimento. La condotta può essere omissiva, allorché l’errore medico (terapeutico o diagnostico) si sostanzi nell’omissione delle cautele prescritte, da valutare anche con riferimento ai protocolli terapeutici standardizzati, oppure commissiva, laddove la violazione si sostanzi in condotte attive.

Nei paragrafi che seguono la trattazione sarà canalizzata sull’analisi della natura giuridica della responsabilità del medico nel contesto antecedente e successivo alla introduzione della Legge n. 24 del 2017, proseguendo poi la disamina sulla ripartizione dell’onere della prova e, in conclusione, si analizzerà la responsabilità del sanitario discendente dalla violazione degli obblighi informativi.

Indice:

  1. La natura giuridica della responsabilità del medico nel contesto antecedente alla Legge n. 24/2017
  2. La Legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”) di riforma della responsabilità medica
  3. I criteri di accertamento del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e l’evento dannoso
  4. Danno cagionato al paziente da un intervento per il quale non è stato acquisito il consenso informato
  5. Considerazioni conclusive

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La natura giuridica della responsabilità del medico nel contesto antecedente alla Legge n. 24/2017

Nell’àmbito dell’esercizio dell’attività medica occorre, in via preliminare, distinguere la responsabilità gravante sulla struttura sanitaria, da quella di cui è chiamato a rispondere il singolo medico che in concreto ha posto in essere la condotta colposa pregiudizievole per il paziente.

Con riguardo alla prima ipotesi, ossia alla responsabilità della struttura sanitaria, dottrina e giurisprudenza consolidata la inquadrano nel campo della responsabilità contrattuale, sul rilievo che l’accettazione del paziente in ospedale (ai fini del ricovero oppure di una visita ambulatoria) comporta la conclusione di un contratto e, nello specifico, di un contratto atipico di spedalità, da cui discendono prestazioni corrispettive con effetti protettivi[1] . La struttura sanitaria risponderà in via diretta nelle ipotesi di inefficienza organizzativa (a mo’ di esempio: inappropriata turnazione del personale, malfunzionamento delle apparecchiature), dunque per gli obblighi accessori connessi alla prestazione principale, configurandosi il c.d. danno da disorganizzazione e, in via indiretta, nelle ipotesi di obbligazioni mediche in senso stretto (intervento diagnostico e/o terapeutico), ove risponderà ai sensi dell’art. 1228 c.c. per fatto commesso dagli “ausiliari”.

L’obbligo di cura del sanitario può sorgere per effetto di un contratto d’opera professionale direttamente stipulato con il paziente, in tal caso è lapalissiana la natura contrattuale della connessa responsabilità, oppure per effetto del rapporto di lavoro del medico con la struttura sanitaria, cui il paziente si sia rivolto; in quest’ultima ipotesi, si assiste ad una scissione tra parte formale del contratto concluso con il paziente, rivestita dalla struttura sanitaria e parte sostanziale, assunta dal medico, quale soggetto che materialmente esegue la prestazione.

Sul punto, la giurisprudenza- a seguito di un’annosa querelle relativa alla natura giuridica della responsabilità del medico nell’àmbito dell’attività prestata presso la struttura sanitaria- è approdata ad una soluzione ermeneutica; invero, la Suprema Corte con sentenza n. 589 del 1999 ha inquadrato la responsabilità del medico in una ipotesi di responsabilità contrattuale, sia nel caso in cui tra medico e paziente sussista un pregresso contratto, sia nel caso in cui esso manchi del tutto. In effetti, il campo medico è stato terreno di elezione per l’elaborazione della categoria della responsabilità da contatto sociale qualificato, per cui dal momento dell’accettazione del paziente in ospedale e dalla presa in carico da parte del medico, si instaurerebbe in capo al professionista un dovere di eseguire la prestazione con diligenza e correttezza, senza produrre pregiudizi in capo al paziente e, dall’altra parte, si ingenererebbe in capo a quest’ultimo un legittimo affidamento nell’operato del sanitario.  Si delineava, in definitiva, una responsabilità contrattuale nascente da un’obbligazione senza prestazione, gravando sul medico gli obblighi di cura impostigli dall’arte che professa e, la violazione di essi, dà vita a culpa in non faciendo, ossia a responsabilità contrattuale. Per cui, in virtù del contatto qualificato, il medico dovrà proteggere l’assistito evitando di lederlo, in ossequio al dovere di buona fede, cui agli artt. 1175 e 1375 c.c.; non si può affermare come tale dovere di protezione scaturisca da un contatto inesistente: la prestazione di cura occasionale costituisce il quid del contatto sociale qualificato che figura quale fatto giuridico idoneo, ex art. 1173 c.c., a dar vita all’obbligazione di protezione.

Il risultato fondamentale di tale teoria consiste nel fatto che la responsabilità medica da contatto sociale qualificato seguirà i dogmi della responsabilità contrattuale, cui l’art. 1218 c.c., ossia l’onere della prova sarà semplificato, limitandosi il paziente ad allegare l’inadempimento del medico con termine prescrizionale decennale della relativa azione risarcitoria; dal punto di vista della prova liberatoria, prima dell’intervento delle Sez. Un. della Cassazione del 2001, vigeva un regime probatorio differente, a seconda del grado di complessità dell’intervento medico. Pertanto, se si trattava di un intervento di routine o, comunque, di non difficile esecuzione, al quale fosse conseguito un risultato nefasto, il paziente avrebbe dovuto solamente provare la semplicità dell’intervento dal quale era derivato un esito peggiorativo delle proprie condizioni, a fronte di una statistica di casi favorevoli, scattando così una presunzione di negligente adempimento della prestazione e, dunque, la prova contraria veniva riversata sul medico, il quale avrebbe dovuto dimostrare che l’esito peggiorativo delle condizioni era dovuto a causa imprevista o imprevedibile o comunque a lui non imputabile; nel caso di intervento particolarmente complesso, non potendo operare la suddetta presunzione, al medico era sufficiente dedurre la complessità dell’intervento mentre al paziente spettava dimostrare che l’esito infausto fosse ascrivibile in realtà all’operato del sanitario e non già all’alea terapeutica.

Tale dicotomia operante sul terreno dell’onere della prova, discendente dalla complessità/semplicità dell’intervento, tramonta definitivamente con la pronuncia a Sez. Un. del 2001[2], ove la giurisprudenza di legittimità stabilisce che la distinzione tra prestazione di facile esecuzione e prestazione particolarmente complessa, rileva solo ai fini della valutazione del grado di diligenza richiesto e del corrispondente grado di colpa, per cui il paziente che agisce in giudizio dovrà allegare il contratto e l’inadempimento, gravando sul medico la prova liberatoria dell’esatto adempimento oppure dell’inadempimento dovuto a causa ad egli non imputabile.

La Legge n. 24 del 2017 (c.d. “Legge Gelli-Bianco”) di riforma della responsabilità medica

Con la legge dell’8 marzo 2017, n. 24 c.d. legge “Gelli-Bianco”, il legislatore è intervenuto sul tema della responsabilità derivante dall’esercizio di attività sanitaria, compiendo un’opera di revisione complessiva e introducendo un sistema a doppio binario.

Invero, l’art. 7 della legge n. 24/2017 ha inquadrato la responsabilità della struttura ospedaliera quale responsabilità contrattuale, in ragione dell’avvenuta stipulazione del contratto atipico di spedalità, mediante l’acquisizione del consenso, anche implico (accettazione) del paziente e, per l’effetto, risponderà ai sensi degli artt. 1218 e 1228 c.c.; diversamente, si assiste ad una “decontrattualizzazione” della responsabilità del medico, la cui responsabilità è di natura extracontrattuale o aquiliana, salvo l’ipotesi della sussistenza di un pregresso contratto d’opera professionale stipulato con il paziente.

In altre parole, la condotta del medico costituisce un fatto illecito produttivo di un danno ingiusto, come tale risarcibile ai sensi dell’art. 2043 c.c.; derivano una serie di conseguenze sul piano sistematico, ricadendo l’onere probatorio in capo al paziente, con una serie di ostilità, poiché l’attore dovrà dimostrare tutti gli elementi costitutivi della fattispecie con termine prescrizionale quinquennale del relativo dritto al risarcimento del danno.

La “decontrattualizzazione” della responsabilità del medico operata dalla Legge “Gelli-Bianco” comporta maggiori oneri probatori a carico del paziente e, quindi, un minor rischio di condanna del sanitario. Si osserva come tra le novità introdotte dalla legge in esame vi è anche la innovazione sul versante penale del fatto.

Di fatti, la legge “Gelli-Bianco” ha introdotto nel corpus normativo del codice penale l’art. 590-sexies avente ad oggetto la responsabilità penale colposa per morte o per lesioni in àmbito sanitario. Il principale elemento di novità introdotto al secondo comma della predetta norma è una causa di esclusione della punibilità del sanitario “qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia” e lo stesso abbia “rispettato le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto”, introducendo così un meccanismo premiale in favore del medico che abbia rispettato le linee guida e le buone pratiche clinico-assistenziali.

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I criteri di accertamento del nesso di causalità tra la condotta del sanitario e l’evento dannoso

Il nesso di causalità è un elemento strutturale dell’illecito che rileva sul piano strettamente oggettivo, individuando la relazione esterna tra il comportamento astrattamente considerato e l’evento, il quale non va confuso con la colpa che è, invece, elemento soggettivo della fattispecie illecita.

Ebbene, nell’àmbito della responsabilità medica, il paziente- danneggiato che agisce in giudizio dovrà dimostrare la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi della fattispecie illecita, ai sensi dell’art 2043 c.c.; quindi, l’attore dovrà provare la sussistenza del nesso eziologico sia sotto il profilo della causalità materiale, ossia la discendenza dell’evento lesivo dalla condotta posta in essere dal sanitario, sia sotto il profilo della causalità giuridica, ossia la individuazione delle singole conseguenze pregiudizievoli derivanti dall’evento, precisando che tale prova potrà essere raggiunta anche mediante presunzioni. In altri termini, la violazione delle regole di diligenza professionale non ha una intrinseca attitudine causale alla produzione del danno- evento, che rileva sotto il profilo della causalità materiale, poiché l’aggravamento della situazione patologica o l’insorgenza di nuove patologie non sono immanenti alla violazione della leges dell’ars medica e potrebbero avere una diversa eziologia. Pertanto, la mera allegazione della causalità materiale non assorbe ipso iure la causalità giuridica; allegare il solo inadempimento non significa allegare il danno-evento, che ha ad oggetto un interesse ulteriore che corrisponde alla la lesione dell’interesse presupposto, in termini di danno alla salute.

Sul punto, la Suprema Corte di Cassazione[3] ha affermato il principio del c.d. “doppio ciclo causale”, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle: l’onere di provare la causalità tra condotta e danno-evento e tra questo e il danno-conseguenza grava sul paziente, ossia sul creditore della prestazione; una volta che il creditore abbia provato, anche per il tramite di presunzioni, il nesso eziologico fra condotta del debitore, nella sua materialità e l’aggravamento della situazione patologica, o l’insorgenza di nuove patologie, sorgono gli oneri probatori del debitore, ossia del medico, il quale dovrà dimostrare l’assenza di colpa, ossia che l’inadempimento o inesatto adempimento sia disceso da cause esterne ad egli non imputabili e come tali imprevedibili e inevitabili.

Danno cagionato al paziente da un intervento per il quale non è stato acquisito il consenso informato

Il consenso informato è un diritto del paziente riconosciuto sia sul piano nazionale, alla luce degli artt. 2, 13 e 32, comma 2 della Costituzione sia sul piano sovranazionale, art. 3 della Dichiarazione Universale dei diritti umani.

 Il consenso del paziente al trattamento medico- chirurgico è espressione della libertà di autodeterminazione del singolo, il quale ai sensi dell’art. 32, comma 2 Cost. ha il diritto di rifiutare le cure, salvo i casi espressamente previsti dalla legge di trattamenti sanitari obbligatori e coperti da riserva assoluta di legge.

La materia del consenso informato ha trovato la sua sistemazione nella L. n. 219 del 2017, il cui art. 1, rubricato per l’appunto “consenso informato”, che ribadisce i principi di diritto cui agli artt. 2, 13 e 32 Cost. nonché sanciti dalla Carta di Nizza.

 Ai fini della liceità dell’intervento medico, è necessario che il consenso sia dato personalmente dal paziente in modo esplicito, che il paziente sia informato dell’esito dell’intervento e delle eventuali conseguenze, per il tramite di moduli standardizzati o per informativa del medico curante e, inoltre, il consenso deve essere attuale, specifico e sempre revocabile.

Una volta tracciati i limiti del consenso informato, occorre esaminare le conseguenze derivanti dal mancato adempimento degli obblighi informativi.

La giurisprudenza consolidata ha da sempre riconosciuto un danno all’autodeterminazione del paziente, autonomo e indipendente rispetto al danno alla salute, da ciò discende che la responsabilità deriva dall’inadempimento di obblighi diversi: per l’autodeterminazione, il riferimento è agli obblighi informativi gravanti sul medico; per la salute, il sostrato è dato dalla violazione degli obblighi di protezione e cura.

Il danno- conseguenza si sostanzia in un pregiudizio non patrimoniale, il c.d. “stupor”, ossia la sofferenza interiore e soggettiva di non aver potuto disporre liberamente di sé, come tale risarcibile ai sensi dell’art. 2059 c.c.

Con le sentenze “San Martino[4]”, la Corte di Cassazione in virtù del principio di vicinanza della prova ha stabilito come il paziente, che agisce in giudizio, sarà gravato da un duplice onere: in primo luogo, dovrà allegare l’inadempimento del consenso informativo; in secondo luogo, dovrà provare un fatto attinente alla propria sfera soggettiva, cioè il suo eventuale rifiuto. Si tratta di un fatto che il medico non avrebbe potuto prevedere e che il paziente può provare con ogni mezzo. Infine il paziente dovrà provare anche il danno- conseguenza costituito dallo stupor.

Sul punto, giova evidenziare in tema di divieto di emotrasfusioni del testimone di Geova come il consenso deve essere espresso, attuale ed inequivoco e non può essere tacito o implicitamente dato, per cui se il paziente presta il consenso ad un intervento laparoscopico, esso non potrà mai essere esteso anche all’emotrasfusione; in particolare, in questa ipotesi, l’attenzione del medico dovrà essere maggiore, poiché si ha riguardo non soltanto all’autodeterminazione ma anche alla libertà religiosa, consacrata nell’art. 19 della Costituzione.

Considerazioni conclusive

Alla luce dell’analisi fin qui svolta, si evince come la Legge “Gelli-Bianco” ha ridefinito, innovando completamente, il terreno della responsabilità medica.

 Si appalesano disparità di trattamento per i fatti compiuti antecedentemente e successivamente ad essa, non operando retroattivamente. La Legge in esame ha dato vita ad un doppio binario, inquadrando la responsabilità della struttura sanitaria (sia pubblica che privata) nel quadro della responsabilità contrattuale, con applicazione degli artt. 1218 e 1228 c.c. mentre il medico, autore materiale della prestazione, risponderà a titolo di responsabilità extracontrattuale, ai sensi dell’art. 2043 c.c., per i danni cagionati ai pazienti a seguito della propria condotta colposa; in tale ultima ipotesi, l’onus probandi, secondo il principio di vicinanza della prova, ricade sul paziente- danneggiato, il quale dovrà dimostrare, con chiare ostilità, non solo l’inadempimento ma anche il danno-conseguenza, quale aggravamento delle proprie patologie o insorgenza di nuove. Una volta che il creditore abbia assolto il proprio onere, il medico dovrà dimostrare l’assenza di colpa, ossia che le conseguenze dannose siano discese da cause ad egli non imputabili. Si assiste ad una decontrattualizzazione della responsabilità medica, salvo le ipotesi in cui sussista un pregresso contratto con il paziente, in tal caso troveranno applicazione le norme dettate in tema di responsabilità contrattuale, cui all’art. 1218 c.c.

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Note:

[1] Cass. Sez. Un., 11 gennaio 2008, n. 577.

[2] Cass. Sez. Un., sentenza n. 13533 del 2001.

[3] Cass. 26 luglio 2017, n. 18392, c.d. “sentenza Scoditti”, dal nome del relatore; da ultimo, Cass. 11 novembre 2019, n. 28991.

[4] Cass., sentenza n. 28988 del 2019. 

Raffaella Ascolese

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