L’utilizzo dei crediti legalmente postergati nelle operazioni di aumento del capitale

Redazione 23/05/18
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a cura di Daniele Griffini e Egidio Greco

Il problema della compensabilità dei crediti legalmente postergati

Accade di frequente – specie nelle società a responsabilità limitata – che i soci intervengano finanziariamente a supporto della società al di fuori dello strumento costituito dall’aumento di capitale, ossia con semplici apporti (da imputarsi a riserve) ovvero a mezzo di finanziamenti (veri e propri debiti per la società).

Di frequente accade pure che i soci richiedano di poter utilizzare i crediti derivanti dai finanziamenti effettuati per (sottoscrivere e) liberare un successivo aumento di capitale.

La disciplina di diritto positivo conosce il fenomeno della liberazione degli aumenti di capitale mediante conferimento di beni in natura ovvero di crediti vantati dal conferente verso terzi, ma non quello della compensazione tra il debito da conferimento e i crediti vantati dal conferente medesimo nei confronti della società ([1]).

Dopo un’iniziale posizione di chiusura, la Cassazione – con orientamento ormai stabile ([2]) – ha però ammesso questo secondo fenomeno: può dunque considerarsi jus receptum il principio per cui un socio, a meno che la deliberazione di aumento del capitale lo escluda, può estinguere il proprio debito da conferimento mediante compensazione con il proprio credito da finanziamento.

Quid juris, tuttavia, se il credito deriva da un finanziamento concesso nella situazione descritta dall’art. 2467, comma 2°, c.c. (vale a dire in un momento di eccessivo squilibrio tra indebitamento e patrimonio netto oppure in una situazione finanziaria della società nella quale sarebbe stato ragionevole un conferimento), e se quindi esso è da considerarsi legalmente postergato ai sensi del primo comma della stessa norma?   

La letteratura (invero, su questo specifico aspetto, piuttosto scarsa) si divide.

Le posizioni in letteratura e nella prassi notarile

Le tesi a favore della compensabilità

La corrente maggioritaria appare propendere per la soluzione tout court favorevole alla compensabilità, ammettendo sempre l’utilizzabilità dei crediti, anche legalmente postergati ex art. 2467 c.c., per la (sottoscrizione e) liberazione del capitale deliberato.

E’ stato così affermato che è “conforme alla legge la prassi, ampiamente diffusa, secondo cui la liberazione del conferimento in danaro può essere attuata (…) mediante compensazione con finanziamenti dei soci o con altri crediti del sottoscrittore” e che, “in particolare”, “la disciplina dei finanziamenti dei soci dettata dall’art. 2467 c.c. non è per nulla in contrasto con le finalità e la disciplina dell’aumento di capitale, quanto meno perché l’incorporazione dei finanziamenti dei soci al capitale è il traguardo che la disposizione dell’art. 2467 c.c. intende raggiungere, sia pure indirettamente” ([3]). In altre parole, “ogni operazione diretta a «convertire» la relativa posta [di credito del socio] in un investimento pienamente partecipativo del rischio d’impresa [sarebbe] in sintonia con la ratio ispiratrice del precetto normativo” di cui all’art. 2467 c.c. ([4]).

Sulla stessa scia, si è altresì posta la prassi notarile.

E’ stato così affermato dal Consiglio notarile di Napoli che “[l]a compensazione non risulta inibita da alcun divieto di legge, non è contraria all’interesse della società o dei terzi creditori” e che “non osta alla predetta operazione neanche il disposto dell’art. 2467 c.c., di cui – anzi – l’operazione rappresenta attuazione realizzando la ‘conversione’ in capitale di rischio di un capitale (originario) da ‘finanziamento’” ([5]).

Nella stessa direzione, s’è orientato anche il Consiglio notarile dei distretti riuniti di Firenze, Pistoia e Prato. Partendo dal presupposto dell’ammissibilità, in generale, della compensazione tra il credito del socio per finanziamenti e il suo debito da sottoscrizione dell’aumento di capitale, i notai toscani hanno affermato che “[n]on osta a tale operazione neppure il fatto che ricorrano le condizioni per la postergazione dei crediti dei soci stabilite dall’art. 2467 c.c., posto che la conversione del credito da finanziamento in capitale di rischio concorre alla protezione degli interessi dei creditori terzi tutelati da tale disposizione”. Nella motivazione – affermando che la compensabilità sarebbe in linea con lo “spirito della norma” di cui all’art. 2467 c.c. – il Consiglio ha meglio illustrato il proprio ragionamento: l’estinzione per compensazione non pregiudicherebbe i creditori della società atteso che, pur non determinando l’ingresso di una attività reale, eliminerebbe comunque “una passività sicuramente reale”; “e questo risultato realizz[erebbe] ugualmente la copertura richiesta dalla legge grazie al principio secondo il quale la diminuzione del passivo è un incremento patrimoniale come l’aumento dell’attivo”. Anzi, secondo il Consiglio toscano, “l’operazione appar[irebbe] tutelare proprio la posizione dei creditori della società in quanto l’effetto della compensazione è quello di rendere definitivamente inesigibile (dato che il rimborso del capitale è l’ultima delle fasi della liquidazione) quel credito che invece lo sarebbe solo transitoriamente per l’operare della postergazione” ([6]).

La tesi contraria alla compensabilità

Non tutta la dottrina concorda, però, in ordine alla compensabilità del credito legalmente postergato in sede di aumento del capitale.

In particolare, un illustre Autore – in risposta alla posizione assunta dai notai toscani poc’anzi richiamata – ha sostenuto, “[i]n primo luogo”, in replica all’argomento secondo cui la compensazione renderebbe “definitivamente inesigibile” il credito del socio”, che “non è detto che la postergazione abbia necessariamente carattere transitorio: la situazione della società potrebbe essere tale da non consentire mai la restituzione del finanziamento”; soggiungendo poi che “la rinuncia alla restituzione e quindi la ‘trasformazione’ del finanziamento in un apporto a fondo perduto costituisce sempre un’operazione favorevole per i creditori”, “[m]a non può rappresentare un’ipotesi di sottoscrizione di un aumento di capitale: infatti in tal caso non si determina ‘l’ingresso di un’attività reale eliminando una passività sicuramente reale’, in quanto la passività eliminata è puramente potenziale, essendo sottoposta ad una sorta di condizione sospensiva data dalla sopravvenienza di una situazione economica che consenta alla società di adempiere alle proprie obbligazioni e quindi faccia venire meno la postergazione” ([7]).

La posizione della giurisprudenza: il caso recentemente esaminato dal Tribunale delle imprese di Roma

Nel panorama d’incertezza interpretativa che si è sopra cercato di tratteggiare, merita allora senz’altro di essere segnalato il precedente costituito da Trib. Roma, 6 febbraio 2017 ([8]), poiché con esso si è posta all’attenzione della giurisprudenza, a quanto consta per la prima volta, proprio la questione oggetto del presente contributo.

Ebbene, il Tribunale di Roma – chiamato in sede cautelare a dirimere la controversia – ha deciso di non aderire alla tesi favorevole alla compensabilità tout court, affermando il principio secondo cui questa “trova il proprio limite nell’ipotesi in cui i finanziamenti eseguiti dai soci siano soggetti alla postergazione prevista dall’art. 2467 c.c.”.

Il sillogismo seguito dal Tribunale di Roma s’impernia sui presupposti codicistici per la compensazione legale: poiché in forza dell’art. 1243, comma 1°, c.c. il credito è compensabile legalmente solo se esigibile (premessa maggiore), e poiché il credito postergato ai sensi dell’art. 2467 c.c. non è esigibile – in quanto “la soddisfazione degli altri creditori si pone come condizione sospensiva del diritto al rimborso, idonea, in particolare, a produrre l’effetto di prorogare ex lege la scadenza del finanziamento sino al momento di un suo avveramento e ad impedire in tal modo l’esigibilità del credito del socio, la quale deve reputarsi sospesa sino alla soddisfazione degli altri creditori” (premessa minore) – ne deriva, giocoforza, che il credito postergato ai sensi dell’art. 2467 c.c. non è compensabile (con il debito da conferimento). I giudici romani, dunque, escludono la compensabilità sulla base di un lineare ragionamento civilistico, ossia perché dei presupposti occorrenti per la compensazione legale manca quello dell’esigibilità.

Si potrebbe obiettare che residui comunque spazio per la compensazione volontaria, disciplinata dall’art. 1252 c.c.; in altre parole, le parti potrebbero manifestare la volontà di far operare la compensazione a prescindere dal fatto che il credito sia inesigibile. Ma questa è, ad avviso del Tribunale, una strada non percorribile nel contesto che ci occupa: ciò perché gli amministratori della società sono responsabili per l’inosservanza degli obblighi inerenti alla conservazione dell’integrità del patrimonio sociale, e non potrebbero non “eccepire la postergazione del finanziamento”. Non solo, quindi, non può aver luogo la compensazione legale, ma è anche fatto divieto di “predicare la compensabilità (volontaria) del debito da aumento con il credito da finanziamento”.

Considerazioni finali

La posizione di questa prima giurisprudenza, che ha già trovato adesione in dottrina, pare anche a noi corretta, e perciò condivisibile: non solo perché la situazione di postergazione non ha necessariamente “carattere transitorio” e il credito legalmente postergato del socio (nonché, specularmente, il debito della società verso di lui) è “puramente potenziale” – come già rilevato dalla dottrina soprarichiamata ([9]) – ma per un’ulteriore ragione, che ne costituisce corollario: consentire al socio di esercitare il diritto d’opzione portando in compensazione i propri crediti postergati (i quali, sia pur solo nella sostanza, sono già conferimenti) potrebbe precludere alla società di vedere eseguiti ulteriori effettivi conferimenti in suo favore, in contraddizione con lo scopo stesso e gli interessi sociali sottesi all’operazione d’incremento del capitale.

È in questa luce che deve, a nostro avviso, essere sottoposta a vaglio critico la posizione, cui si è accennato, prevalente nella letteratura e nella prassi notarile.

Questa posizione, come si è detto, muove dall’assunto che la compensabilità dei crediti legalmente postergati in sede di aumento del capitale “rappresent[erebbe] attuazione” dell’art. 2467 c.c.; ed in effetti è vero che, con la compensazione, il credito per finanziamento soci viene trasformato in capitale e dunque assoggettato ad un regime ancor più rigido di quello della postergazione (a tutela degli altri creditori, sui quali altrimenti verrebbe ingiustamente scaricato il rischio d’impresa).

Ma il punto da cogliere, sta a nostro avviso, non già nell’attuazione dell’art. 2467 c.c., bensì nell’attuazione delle finalità che istituzionalmente si prefigge l’operazione d’aumento del capitale c.d. “a pagamento”; finalità che è quella di far entrare – se consentito, anche ad opera di terzi – risorse per così dire “fresche” nell’attivo della società, e non semplicemente quella di togliere passività già subordinate.

Il punto può meglio afferrarsi tramite gli stati patrimoniali semplificati consultabili qui

Detti stati patrimoniali comparano tre situazioni: (i) la situazione pre-aumento di capitale; (ii) la situazione post-aumento di capitale realizzato mediante la compensazione del debito da conferimento con il credito legalmente postergato; e (iii) la situazione post-aumento di capitale realizzato, in via alternativa, non mediante detta compensazione, bensì a mezzo di nuovi conferimenti (in denaro o in natura).

Nella prima situazione la società ha un patrimonio netto di – 10 (dato dalla differenza, negativa, fra l’attivo di 100 e il passivo reale di 110); dopo l’aumento di capitale la società avrà in entrambi i casi (sia se l’aumento è avvenuto a mezzo di compensazione, sia se l’aumento è avvenuto a mezzo di nuovi conferimenti) un patrimonio netto di + 30 (dato, in caso di ricorso alla compensazione, dalla differenza, positiva, fra l’attivo di 100 e il passivo reale di 70; e, in caso di aumento con nuovi conferimenti, dalla differenza, pure positiva, fra l’attivo di 140 e il passivo reale di 110).

La differenza sta però nel fatto che, se si è ammessa la compensazione, la società ha sempre un attivo di 100, laddove se, come pare condivisibile, la si è esclusa (e sono state conferite risorse “fresche”, in denaro o in natura), vi è invece un attivo sociale di 140.

Vero è che, in questo secondo caso, la società continuerà a portarsi appresso debiti per 40 nei confronti dei soci che in passato l’avevano finanziata, ma essa dovrà estinguerli solo quando contrattualmente previsto e solo se la medesima sarà effettivamente fuoriuscita dalle condizioni di crisi di cui all’art. 2467, comma 2°, c.c. (la qual cosa non è detto che avvenga per effetto dell’aumento di capitale, poiché la situazione potrebbe restare di crisi non ostante l’avvenuto incremento del livello di equity).   

In conclusione, sembra a noi che, a fronte del pur manifesto interesse del socio a non dover effettuare ulteriori esborsi a favore della società (atteso il pre-esistente credito, legalmente postergato, da finanziamento), debbano prevalere gli interessi della società e dei terzi all’effettivo incremento del capitale sociale. Obiettivo, questo, che può appunto raggiungersi se – come condivisibilmente sostenuto dal Tribunale delle imprese di Roma – si esclude la compensabilità.

([1]) Che è ben diverso dal primo: la compensazione non è una vicenda “traslativa” del credito dal socio alla società, ma una vicenda “estintiva” del credito stesso. Non si applica, pertanto, la disciplina dettata dagli artt. 2343 ss. e 2464 ss. c.c. per il conferimento di beni in natura e di crediti.

([2]) La posizione tradizionale nel senso dell’inammissibilità della compensazione – manifestata già nella vigenza del vecchio codice (Cass. 5 dicembre 1938, n. 3148) e confermata da Cass. 10 dicembre 1992, n. 13095 – è stata superata, dopo le critiche da parte delle corti di merito (ex multis, Trib. Milano, 9 febbraio 1995, in Società, 1995, pag. 1591), da Cass. 5 febbraio 1996, n. 936, cui ha fatto seguito Cass. 24 aprile 1998, n. 4236, la quale parla di “legittimità del conferimento attuato mediante compensazione tra il debito del socio verso la società ed un credito vantato dal medesimo nei confronti dell’ente, atteso che la società stessa, pur perdendo formalmente il suo credito al conferimento, acquista concretamente un ‘valore’ economico, consistente nella liberazione da un corrispondente debito”.

([3]) Così Spolidoro, L’aumento del capitale sociale nelle s.r.l., in Riv. Dir. Soc., 2008, pag. 491; cfr. anche Irrera, La disciplina dei «prestiti» dei soci alla società, in Ambrosini (a cura di), Il nuovo diritto societario. Vol. I, Torino, 2005, pag. 390.

([4]) Così Abriani, Finanziamenti anomali dei soci e regole di corretto finanziamento nella società a responsabilità limitata, in Benazzo-Cera-Patriarca (diretto da), Il diritto delle società oggi. Innovazioni e persistenze. Studi in onore di Giuseppe Zanarone, Torino, 2011, 344, che prosegue: “[n]on paiono esservi ostacoli ad una compensazione se non legale, quanto meno volontaria diretta ad estinguere il debito della società verso il socio finanziatore e il correlativo debito da quest’ultimo assunto in sede di sottoscrizione di un successivo aumento di capitale, posto che tale operazione non è suscettibile di danneggiare la società e i suoi creditori: essa infatti non soltanto non incide sull’integrità del capitale sociale, ma determina una «trasformazione» del capitale di credito postergato in capitale di rischio e dunque un’effettiva riduzione dell’esposizione debitoria della società”.

([5]) Così la massima n. 4 del Consiglio notarile Napoli (“Aumento oneroso di capitale di s.p.a. o di s.r.l. – Esecuzione mediante compensazione di un credito”).

([6]) Così la massima n. 23 del Consiglio notarile distretti riuniti Firenze Pistoia Prato (“Aumento di capitale mediante compensazione e crediti postergati nella s.r.l.”).

([7]) Cfr. Cagnasso, Aumento di capitale e compensazione con crediti postergati del socio di s.r.l., in Giur. it., 2017, 1142.

([8]) Cfr. Trib. imprese Roma, 6 febbraio 2017, in Giur. it., 2017, 1139, con nota adesiva di Cagnasso.

([9]) Cfr. Cagnasso, Aumento di capitale, cit., 1142.

 

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