Ludopatia concorre alla valutazione della sussistenza del medesimo disegno criminoso relativo ai reati commessi

Lo stato di ludopatia può concorrere alla valutazione in punto di fatto della sussistenza del medesimo disegno criminoso originario relativo ad una parte o a tutti i reati commessi.

(Annullamento con rinvio)

(Normativa di riferimento: C.p.p. art. 671)

Il fatto e i motivi addotti nel ricorso per Cassazione

 S. ricorreva avverso l’ordinanza del Tribunale di Reggio Emilia del 15 dicembre 2017 con la quale era stata rigettata l’istanza di applicazione della disciplina della continuazione.

Denunciava la ricorrente come l’ordinanza impugnata presentasse una motivazione solo apparente delle ragioni che avevano determinato la decisione di rigetto dell’istanza di applicazione della disciplina del reato continuato stante il fatto che il giudice non avevano specificato le ragioni per le quali, in relazione alle circostanze concrete dell’azione quali l’omogenea tipologia dei reati, la parziale identità dei beni sottratti, nonché il non eccessivo intervallo di tempo tra i vari episodi, non poteva riconoscersi il vincolo della continuazione tra i vari titoli di condanna mentre al contrario tali elementi, si presentavano in concreto come realizzazione di un programma delineato sia pure per grandi linee ab inizio, nel senso che le singole manifestazioni della volontà di violare le norme penali esprimevano attuazione, sia pure dilazionata nel tempo, di un unico intellettivo disegno criminoso.

Le valutazioni giuridiche formulate dalla Cassazione

 La Suprema Corte, prima di entrare nel merito della questione sottoposta al suo giudizio, osservava prima di tutto come vi fosse una consolidata giurisprudenza della Cassazione (Sez. 1 n. 35797 del 12/05/2006, Sez. 1 n. 34259 del 18/06/2015) secondo cui la continuazione presuppone l’anticipata e unitaria ideazione di più violazioni della legge penale, già insieme presenti alla mente del reo nella loro specificità, almeno a grandi linee; situazione ben diversa da una mera inclinazione a reiterare nel tempo la violazione della stessa specie o da un programma generico di attività delittuosa da eseguire nel tempo, secondo contingenti opportunità anche se dovuta a una determinata scelta di vita (cfr. per tutte sez. 2 07/04/2004, omissis; Sez. 1 15/11/2000, omissis) rilevando al contempo come siffatti indici avessero normalmente un carattere sintomatico, e non direttamente dimostrativo; sicché l’accertamento, pur officioso e non implicante oneri probatori, deve assumere il carattere di effettiva dimostrazione logica, non potendo essere affidato a semplici congetture o presunzioni (v. Sez. 1, n. 44862 del 05/11/2008, omissis, Rv. 242098; Sez. 5, n. 49476 del 25/09/2009, omissis, Rv. 245833; Sez. 1, n. 35639 del 02/07/2013, omissis, Rv. 256307, Sez. 5, n. 10917 del 12/01/2012, omissis, Rv. 252950, Sez. 4, n. 16066 del 17/12/2008, dep. 2009, omissis, Rv. 243632, Sez. 1, n. 12905 del 17/03/2010, omissis, Rv. 246838).

Da ciò se ne faceva conseguire come l’applicazione della disciplina del reato continuato in sede esecutiva imponesse una riconsiderazione dei singoli fatti giudicati, volta alla specifica verifica della prospettata unitarietà progettuale degli illeciti, che è indispensabile requisito per il riconoscimento del rapporto descritto nell’art. 81 cod. pen. il cui accertamento è affidato all’apprezzamento del giudice di merito è insindacabile in sede di legittimità quando la decisione del giudice sia sorretta da una motivazione adeguata e congrua, senza vizi logici e travisamento dei fatti (tra le altre, Sez. 4, n. 25094 del 13/06/2007, omissis, Rv. 237014; Sez. 6, n. 49969 del 21/09/2012, omissis, Rv. 254006).

Per addivenire a formulare correttamente questo accertamento, inoltre, si osservava come la fine, la cognizione dei dati sostanziali di possibile collegamento tra i vari reati andasse eseguita dal giudice dell’esecuzione in base al contenuto decisorio delle sentenze di condanna, conseguite alle azioni o omissioni che si assumono essere legate dal vincolo della continuazione e, attraverso il loro raffronto, alla luce delle ragioni enunciate dall’istante.

Invece, osserva sempre la Corte in questa pronuncia, spetta al condannato che fa richiesta ex art. 671 cod. proc. pen., non un onere probatorio, ma l’onere di allegare, e cioè di prospettare e indicare elementi specifici e concreti a sostegno dell’istanza (tra le altre, Sez. 7, n. 5305 del 16/12/2008, dep. 2009, omissis, Rv. 242476; Sez. 1, n. 2298 del 25/11/2009, dep. 2010, omissis, Rv. 245970; Sez. 1, n. 21326 del 06/05/2010, omissis, Rv. 247356), incombendo, invece, all’autorità giudiziaria il compito di procedere ai relativi accertamenti, ai sensi dell’art. 666, comma 5, cod. proc. pen., che disciplina in genere l’attività probatoria in sede esecutiva e, ai sensi dell’art. 186 disp. att. cod. proc. pen., che riguarda specificamente l’applicazione della disciplina del reato continuato, (tra le altre, Sez. 1, n. 4469 del 11/11/2009, omissis, Rv. 245512; Sez. 1, n. 34987 del 22/09/2010, omissis, Rv. 248276).

Posto ciò, declinando tali principi al caso sottoposto al suo scrutinio giudiziale, la Cassazione rilevava come, nel caso di specie, il provvedimento impugnato fosse incorso negli enunciati vizi, non evincendosi dalla sintetica motivazione, in giudizio in punto di fatto in ordine ai reati per i quali è intervenuta condanna, una verifica rigorosa in ordine agli elementi allegati ritenuti sintomatici di una unitaria determinazione criminosa, presupposto dell’invocato istituto, stanti i pochi mesi che distanziano un fatto dall’altro e l’omogeneità degli stessi mentre, sempre ad avviso della Corte, proprio la perizia in atti sullo stato di ludopatia di cui la ricorrente è stata affetta avrebbe potuto concorrere alla valutazione in punto di fatto della sussistenza del medesimo disegno criminoso originario relativo ad una parte o a tutti i reati commessi.

A tal proposito si faceva presente che se certamente il legislatore non avesse equiparato lo stato di ludopatia alle tossicodipendenze, come già rimarcato dalla giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 866 del 20/04/2017, dep. 2018, omisiis), se l’art. 5 del decreto legge 13 settembre 2012, n. 158, coordinato con la legge di conversione 8 novembre 2012, n. 189 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale 10 novembre 2012 n. 263, ha introdotto un programma di aggiornamento dei livelli essenziali di assistenza, con riferimento alle prestazioni di prevenzione, cura e riabilitazione rivolte alle persone affette da ludopatia, intesa come patologia che caratterizza i soggetti affetti da sindrome da gioco con vincita in denaro, così come definita dalla Organizzazione mondiale della sanità (G.A.P.)’, la ludopatia, pur potendo avere in comune con la tossicodipendenza e la dipendenza dal gioco d’azzardo, non diversamente peraltro da altre situazioni che creano dipendenza come il tabagismo, l’alcolismo e la cleptomania, affonda le proprie radici in profili della psiche del soggetto e non presenta, al momento attuale, quegli aspetti di danno, che l’esperienza ha dimostrato essere alla base dei comportamenti devianti cui, nell’ambito della discrezionalità legislativa, la modifica normativa sopra indicata ha inteso porre un rimedio, e, dunque, «in definitiva, l’estensione dei livelli di assistenza alle persone affette da ludopatia non ne ha comportato l’assimilazione alla tossicodipendenza, né consente, per la differenza che si riscontra tra le situazioni di base, il ricorso all’analogia» (Sez. 1, n. 18162 del 16/12/2015, dep. 2016, omissis).

Pur a fronte di tale quadro normativo, si postulava come comunque spettasse al giudice, che è chiamato a valutare la sussistenza di un medesimo disegno criminoso per i reati commessi da un soggetto affetto da ludopatia, valutare se tale situazione concreta, oltre a predisporre il reo alla commissione di particolari reati, avrebbe potuto incidere in concreto sulla insorgenza di una determinazione originaria a commettere tutti o parte dei singoli reati, per i quali si chiede l’applicazione della disciplina della continuazione fermo restando che tale valutazione non è necessariamente legata alla maggiore o minore pericolosità del reo o alla situazione di abitualità che deriva dalle situazioni di dipendenza.

Difatti, secondo i giudici di Piazza Cavour, le plurime determinazioni e i singoli momenti di attuazione di tale eventuale programma unitario potrebbero essere compatibili con uno stato di dipendenza dal gioco, che abbia inciso sulla formazione del programma unitario, al quale le singole deliberazioni di volta in volta si innestano, trovando una spiegazione in tale momento genetico sulla base di dati oggettivi e un limite concreto nella volontà effettiva del soggetto di concepire un disegno criminoso siffatto, secondo aspetti che potrebbero emergere dalle sentenze o già esaminati dai periti come era avvenuto nel caso di specie in cui i caratteri specifici della terapia alla quale il soggetto in concreto era stato proficuamente avviato – sulla base dei riferimenti forniti dalla perizia del dr. B. richiamati in ricorso – avrebbe potuto offrire, sempre ad avviso dei giudici di legittimità ordinaria, un riscontro oggettivo della preesistenza effettiva del programma unitario suindicato.

Da ciò si giungeva alla conclusione secondo la quale su tali punti, indicati dalla ricorrente sulla base di una perizia già agli atti, fosse necessario un adeguato approfondimento da parte del giudice dell’esecuzione e dunque la valutazione del giudice avrebbe dovuto svolgersi necessariamente sulla base dei dati emergenti dalle plurime sentenze di condanna raffrontando i singoli fatti concreti nel periodo in cui sono stati commessi con il periodo di persistenza della situazione di ludopatia, anche alla luce dell’avvenuta cura successiva di tale stato.

La Corte di Cassazione, pertanto, disponeva l’annullamento con rinvio dell’ordinanza impugnata.

Conclusioni

 La sentenza in esame si differenzia, perlomeno in parte, da un pregresso orientamento nomofilattico in cui, diversamente da quanto affermato in questa decisione, era stato postulato che lo stato di ludopatia “non è dimostrativa sul piano giuridico della riconducibilità degli stessi a un’unica ideazione criminosa posta a base di un originario e unitario programma criminoso, esprimendo piuttosto la inclinazione criminosa del medesimo in termini di scelta di vita ispirate alla sistematica consumazione di illeciti, non predeterminati nelle loro linee essenziali, per reperire, sussistendone l’occasione o l’opportunità, denaro/provvista economica” (Cass. pen., sez. I, 20/04/2017, n. 866).

Nonostante ciò, la decisione qui in esame, pur, come appena visto, ponendosi in discontinuità con questo precedente, è condivisibile atteso che ben può un medesimo disegno criminoso essere ab origine determinato da uno stato di ludopatia.

La condivisibilità di questo passaggio argomentativo risiede nel fatto che, in questa occasione, la possibilità che detto programma criminoso potesse essere originato da questa condizione in cui versava il condannato all’epoca dei fatti per cui si chiedeva la continuazione, non era ancorato astrattamente al mero stato di ludopatico ma sulla base di una perizia da cui si sarebbe potuto risalire alla prova della sussistenza della continuazione in questi termini.

Con una valutazione decisoria di tal fatta, invero, si è rispettato quel principio di diritto secondo il quale, in materia di continuazione, spetta al condannato di prospettare e indicare elementi specifici e concreti a sostegno dell’istanza i quali, a loro volta, non possono non essere presi nella dovuta considerazione dal giudice dell’esecuzione per decidere sulla sussistenza o meno di questo istituto.

Orbene, questo sembra essere accaduto nel caso di specie avendo i giudici di legittimità ordinaria non ravvisato la sussistenza di un medesimo disegno criminoso in considerazione dello stato di ludopatia in cui versava il ricorrente nel periodo in cui aveva commesso gli illeciti penali per cui aveva avanzato istanza a norma dell’art. 671 c.p.p. trattandosi di un giudizio di merito a loro precluso, quanto rinviato correttamente al giudice dell’esecuzione il procedimento al fine di approfondire, anche attraverso l’esame della perizia prodotta dall’istante, la rilevanza del suo stato patologici allo scopo di appurare la sussistenza della continuazione.

Il giudizio, in ordine a quanto statuito in questa pronuncia, dunque, non può che essere positivo.

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Avv. Di Tullio D’Elisiis Antonio

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